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A passo d’uomo (2023)

A passo d’uomo

(Sur les chemins noirs) Francia 2023 dramma 1h35’

 

Regia: Denis Imbert

Soggetto: Sylvain Tesson (romanzo autobiografico)

Sceneggiatura: Denis Imbert, Diastème

Fotografia: Magali Silvestre de Sacy

Montaggio: Basile Belkhiri

Musiche: Wouter Dewit

Scenografia: Martin Blum

Costumi: Marie Credou

 

Jean Dujardin: Pierre Girard

Joséphine Japy: Anna

Jonathan Zaccaï: Arnaud

Dylan Robert: Dylan

Anny Duperey: Hélène

Izïa Higelin: Céline

Lou Chauvain: Julia

Hervé Mahieux: Bertrand

 

TRAMA: Uno scrittore resta a lungo bloccato in ospedale per una grave caduta. Si ripromette, qualora ne uscisse guarito, di compiere un'impresa: camminare per 1.300 chilometri per attraversare la Francia.

 

Voto 6,5



Una persona che si ravvede, che vuole rimediare ai molteplici errori del suo comportamento, del modo di essersi porto agli altri, soprattutto verso chi lo ha sempre amato, che vuole obbligarsi a pagare il prezzo di una esistenza ora riconosciuta spregiudicata, spesso decide di riparare affrontando una vita diversa, di pagare pegno con un’impresa ritenuta impossibile, di girare pagina. Quello che è accaduto e che sta accadendo nella vita a Pierre si può riassumere in questi concetti. Lui è un famoso scrittore, camminatore, arrampicatore, ma una caduta terribile lo lascia in coma e quando si sveglia, a malapena in piedi e contro il parere di tutti, medici e amici, decide di esplorare la Francia a piedi, lungo i sentieri più secondari. Quelli che le guide chiamano “sentieri neri”.



“Ci sono due tipi di uomini, disse Napoleone. Quelli che comandano e quelli che obbediscono. […] Penso abbia dimenticato un terzo tipo. Gli uomini che scappano.” Ed infatti lo vediamo subito all’opera, mentre ha testardamente deciso di aggiustare la sua vita affrontando una sfida impari con il suo fisico molto danneggiato e affaticato, persino sofferente: attraversare la Francia da sud a nord, dalla Provenza a Mont Saint Michel, un meraviglioso (dal punto di vista naturalistico) viaggio dal Massiccio del Mercantour alla Normandia. Un percorso di circa 1.300 chilometri. Solo lentamente, come il suo procedere, capiremo perché si è azzardato a sfidare la natura, il fisico e se stesso Solo piano piano arriveremo a scoprire il passato e ciò che lo ha spinto a tanto.



Ben presto, però, si intuisce che, pur con un fisico così malmesso, Pierre non sta sfidando le sue possibilità ma sta mettendo alla prova il cambiamento che si è imposto per curare le profondissime ferite che hanno lacerato l’anima. Quasi una punizione per tutti gli errori che riconosce, che lo hanno condizionato verso gli altri, che ha spinto l’amata Anna a mollarlo quel giorno, sul letto d’ospedale in cui lo vediamo recuperare le ferite fisiche. Inizialmente il regista ci porta volutamente fuori pista, facendoci credere ad una notizia falsa sul motivo per il quale si è ridotto in quella disastrosa condizione. Un avvertimento ai lettori: i siti e le riviste che spiegano la trama rivelano subito le vere cause ed il vero accaduto ma ciò è deleterio per una visione “candida”, toglie molto alla visione di un film che invece va visto secondo lo sviluppo ideato dal regista. La verità, infatti, si verrà a sapere solo nel prosieguo.



Denis Imbert procede lento, come l’incedere del suo protagonista nell’approfondimento dei suoi rapporti, tanto con lo spazio intorno quanto con le persone che vediamo affacciarsi dal suo passato, con alcuni flashback essenziali e rivelatori. Anche le poche persone che incontra sul cammino hanno una parte del lento disvelamento delle angosce che lo hanno angustiato, persone a cui ricambia la gentilezza e l’interessamento tramite lievi accenni bugiardi dell’impresa che sta compiendo e aforismi che riferisce come un maestro di vita, come mai però era stato prima. Tutto frutto della maturazione caratteriale e mentale che sta affrontando. Il regista punta tutto sulla voce fuori campo dello stesso Pierre, che diventa chiarificatrice e importante ai fini della comprensione della storia, nonostante si venga facilmente distratti dalle spettacolari immagini che scandiscono le tappe del cammino: in pratica, la ricchezza degli spunti offerti alle riflessioni dello spettatore trovano poco tempo, come anche quelli al casuale interlocutore incontrato. In questi frangenti l’uomo pare faticare per riparare le fratture accumulate, come un kintsugi umano [antica arte giapponese che consiste nel riparare il vasellame rotto riunendo i cocci con un collante naturale misto a metalli preziosi].



Più che il sogno la caparbietà, più della speranza la resilienza, concetti ormai diventati comuni, che qui trovano coloriture inattese (dal “trovare la radura dietro ai rovi” a “la lumaca non si ritira mai”) e si rivelano perfettamente integrati nell’evoluzione del protagonista, esemplare nella sua rivalutazione dell’idea di progresso e di lentezza, riflettendo sulla migrazione dei lupi abruzzesi. Ed ecco allora affrontare sentieri sconosciuti ai più (da tenere presente il titolo originale: sul cammino dei sentieri neri), quelli che nessuno vuole percorrere perché pericolosi e disabitati, dove si rischia di perdersi o non trovare assistenza necessaria nei momenti di grave difficoltà. Difatti lo osserviamo trovarsi senz’acqua, bruciare il telo del riparo notturno, farsi male sulle salite ripide piene di ciottoli taglienti… Scene alternate a panorami meravigliosi di montagne verdi o brulle, valli e attraversamenti di torrenti impetuosi. Meditare, annotare considerazioni sul quadernetto sempre al seguito o sentenziate agli escursionisti nelle rarissime occasioni, “attraverso il sottobosco, forzando il passaggio”, “accettando le deviazioni”, “una Francia ombrosa, lontana dalle strade”. O come dice al giovane Dylan che incrocia solitario, per dimenticare la recente morte del padre in un incidente di moto: “Ho sempre camminato, ognuno cammina al proprio ritmo, ecco perché è difficile farlo con altre persone: se un uomo non cammina al passo con i suoi compagni, sente un ritmo diverso.” “È bello”, osserva l’altro. “È Thoreau, Henry David Thoreau.”



Attrezzato con tutto il necessario alla sopravvivenza di un viaggio così lungo e di così importante durata, con i bastoncini da trekking, Pierre non vuole dimostrare nulla, né a sé né agli altri, non è un esibizionista: è solo la necessità intima, che lo spinge con una volontà che sa di stoicismo, di abnegazione assoluta, di rinuncia totale al benessere di una casa e di un letto. Deve andare avanti e attraversare la Francia tutta, rifiutando perfino l’accoglienza dei pochi proprietari di rifugi o stalle che incrocia. Sembra uno dei figuranti delle processioni sacre che si autoflagellano con strumenti di tortura. L’autopunizione deve compiersi, a qualsiasi costo, pena l’inutilità del tragitto percorso ma soprattutto il fallimento del progetto che gli altri avevano cercato di bloccare.



Quando i vari flashback – mai inutili, che non interrompono, che spiegano e diventano indispensabili – cominciano a rivelare il passato e l’innamoramento con la bella Anna e innanzitutto la vera causa e che tipo di caduta aveva cambiato la bella vita di alcol, amori e amicizie. Allora tutto si fa chiaro e si capisce il motivo delle scelte autopunitive per guarire dalle ferite morali, perché quelle fisiche, tuttora presenti e che si fanno sentire, le sopporta e le ignora. La saggezza maturata e messa sul taccuino o declamata negli incontri lo sostengono sino all’arrivo sulla sabbia che circonda Mont Saint Michel, e finalmente un lieve sorriso si disegna sulle labbra che una volta erano sempre pronte a baciare Anna o a scherzare in compagnia o a ingurgitare bicchieri e bicchieri a gogo fino a non capire il rischio di quella maledetta volta. Mettendo da parte i pianti di pentimento dei giorni precedenti.



Non è un film sullo spirito dell’avventura, non sull’intraprendenza di un camminatore, non il racconto di un avventuriero solitario. È più vicino, piuttosto, al camminamento religioso di chi si reca a Santiago di Compostela, ma in ogni caso è solo una penitenza laica, verso se stesso e verso chi ha sofferto per lui. Per questo piange al ricordo della donna persa, della mamma trascurata, dei familiari messi da parte. Pentimento, superamento, traguardo. Il percorso per guarire.

“Alcuni uomini sperano di passare alla Storia, ma alcuni di noi preferiscono scomparire nel paesaggio.

La mia salvezza risiedeva nel movimento e il movimento sarebbe stata la mia preghiera.

Se avessi completato il mio viaggio, avrei raggiunto la redenzione.

Volevo percorrere i sentieri nascosti, attraverso il sottobosco, lunghi i sentieri che collegano i villaggi abbandonati.”

Ecco, se c’è un appunto da fare è la pletora delle citazioni e degli aforismi personali che pronuncia o che scrive, ma lo si può sopportare se lo si ritiene un frutto della crescita mentale di un uomo che ha scherzato troppo con la vita – sua e degli altri -, non ha dato la giusta importanza alle persone o ai valori importanti ed ora si ritrova a riflettere da solo sul passato e tramite le saggezze dei pensatori trova la dottrina per il futuro.

Intanto va, con il suo di ritmo, quello più congeniale a lui, a passo d’uomo com’è lui. Giusto così. L’importante era non scappare dai doveri, ma scappare per riflettere, capire, ravvedersi. A passo d’uomo.



Il film è fatto bene e con cura, in una scenografia naturale che parla da sé ed il regista Denis Imbert merita sicuramente la sufficienza, mostrando momenti di grande impatto visivo e narrativo, anche se non sempre trova il giusto equilibrio tra i pensieri del protagonista e il contesto esterno; oppure sbaglia quando si lascia andare a inutili ammiccamenti, come quando la pastorella offre al viandante formaggio ed un letto. Era proprio fuori luogo, non è il calore umano che cercava l’uomo in quel momento e in quel luogo, figuriamoci una fugace notte in compagnia con una donna. Il mezzo voto in più è dovuto alla performance di Jean Dujardin, che è stoicamente (val la pena riprendere un aggettivo già utilizzato) sorprendente. Ha già nel suo palmares un Oscar per una commedia in bianco e nero (The Artist), trovandosi a suo agio nel genere di cinema spiritoso, ma questa volta merita solo applausi: va senz’altro lodato per come sia riuscito a trasmettere la complessità emotiva del personaggio, un uomo in cerca di se stesso attraverso un viaggio fisico e interiore, offrendo una lettura profonda del testo, riuscendo a catturare l’attenzione dello spettatore con un’interpretazione intensa, riflessiva e coinvolgente. Sa dosare in ogni occasione l’intensità espressiva, allegra o triste, dimostrando ampiamente di saper interpretare un uomo così complesso.

Buon film.



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