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Anche io (2022)


Anche io

(She Said) Giappone/USA 2022 dramma storico 2h9’


Regia: Maria Schrader

Soggetto: Jodi Kantor, Megan Twohey , Rebecca Corbett (art. New York Times), Jodi Kantor, Megan Twohey (libro)

Sceneggiatura: Rebecca Lenkiewicz

Fotografia: Natasha Braier

Montaggio: Hansjörg Weißbrich

Musiche: Nicholas Britell

Scenografia: Meredith Lippincott

Costumi: Brittany Loar


Carey Mulligan: Megan Twohey

Zoe Kazan: Jodi Kantor

Patricia Clarkson: Rebecca Corbett

Andre Braugher: Dean Baquet

Jennifer Ehle: Laura Madden

Samantha Morton: Zelda Perkins

Ashley Judd: se stessa

Zach Grenier: Irwin Reiter

Peter Friedman: Lanny Davis

Angela Yeoh: Rowena Chiu

Tom Pelphrey: Jim Rutman

Adam Shapiro: Ron Lieber

Mike Houston: Harvey Weinstein


TRAMA: Le giornaliste newyorkesi Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan) conducono una scottante inchiesta che contiene rivelazioni sugli abusi sessuali perpetrati dal produttore cinematografico Harvey Weinstein, destinate a lasciare il segno e a scatenare il movimento #MeToo, dalla risonanza e dalle conseguenze mondiali.


Voto 7

Riferimenti storici.

Nel 2017 la giornalista del New York Times Jodi Kantor riceve una soffiata secondo cui l'attrice Rose McGowan è stata aggredita sessualmente dal produttore Harvey Weinstein, fondatore della Miramax. La donna inizialmente rifiuta di commentare, ma in seguito richiama Kantor e descrive un incontro in cui Weinstein l'ha violentata quando aveva 23 anni. Kantor parla anche con le attrici Ashley Judd e Gwyneth Paltrow, che descrivono i propri incontri sessuali con Weinstein, ma entrambe chiedono di non essere nominate nell'articolo per paura di un contraccolpo di carriera. Frustrata dalla mancanza di progressi nelle sue successive indagini, Kantor recluta Megan Twohey per aiutarla con il pezzo.

Sin dalle prime sequenze del fedele film si arguisce che ci troviamo davanti ad una inchiesta giornalistica di quelle tipiche della stampa americana che non si ferma tanto facilmente e che, come abbiamo notato in tante altre occasioni cinematografiche, i redattori, dotati di molta grinta e inarrendevoli, ai primi passi incontrano difficoltà e quasi omertà. Un muro eretto dagli uomini potenti coinvolti e dalla paura e, perché no vergogna, delle povere donne che sono state oggetto delle attenzioni morbose di un uomo, vittime che inizialmente rifiutano di collaborare ma poi intuiscono che invece è il momento di scoperchiare la pentola a pressione e far esplodere il caso.

Tutto vero, tutto realmente accaduto e rivelato con una lunga inchiesta (premiata dal Pulitzer) dalle bravissime giornaliste Jodi Kantor (l’eccellente Zoe Kazan) e Megan Twohey (l’ottima Carey Mulligan) che con la collaborazione di Rebecca Corbett (Patricia Clarkson) prima pubblicarono sul famoso quotidiano newyorkese l’articolo esplosivo con il totale appoggio del direttore Dean Baquet (Andre Braugher) e poi ricavarono un libro che fece scalpore. Gli ostacoli erano tanti e difficili da superare, prima per la potenza sociale, economica e produttiva del personaggio incriminato, il temibile Harvey Weinstein, e poi per le comprensibili ritrosie delle attrici implicate nella faccenda. Per fortuna queste cedettero alle pressioni delle due bravissime giornaliste e ai ripensamenti che le tormentavano, fino ad arrivare al punto di accettare di essere menzionate apertamente nell’inchiesta e in questo film. In primis Ashley Judd, Rose McGowan e Gwyneth Paltrow, la prima addirittura nel film nel ruolo di se stessa.

A sentire i dialoghi relativi agli avvenimenti che erano successi nello studio privato della Miramax si resta inebetiti e inorriditi: le richieste sessuali di Weinstein erano sconcertanti e degradanti, e riguardavano sia le giovani e belle attrici che cercavano di scalare l’ascesa al successo, sia le intimidite dipendenti che sottostavano in silenzio evidentemente per non perdere il posto di lavoro. La trama non è facilmente raccontabile se non nell’essenziale e come altri film simili, a cominciare da quello che forse è il migliore nel genere (Tutti gli uomini del Presidente), è un susseguirsi frenetico di dialoghi, spostamenti, interviste telefoniche o di persona, di interventi duri dei legali dell’accusato, di riunioni convulse in redazione, di messaggi e chiamate a tutte le ore del giorno e della notte, con le due protagoniste impegnate fino allo sfinimento, con la pazienza dei loro partner.

La cronaca convulsa dal ritmo ma ordinata nello sviluppo dalla regista Maria Schrader - già autrice dell’eccellente miniserie Unorthodox, una cineasta votata al femminismo più incisivo e legittimato – rende il film non facile da seguire per via dei tanti dialoghi veloci, dei tanti nomi che necessita tenere a mente e per la lunghezza dell’opera che supera le due ore. Quasi del tutto giustificate dagli avvenimenti che si susseguono in un crescendo degno di un thriller, che culmina, ovviamente, con la pubblicazione dell’articolo sull’importante quotidiano con – aspetto di primaria portata – tanto di virgolettati a dimostrazione della bontà delle fonti. Due le scene che mi hanno colpito: una è quando Ashley Judd telefona, dopo mille titubanze e rinunce all’apertura, a Jodi Kantor accettando di svelare retroscena compromettenti del produttore, scena in cui la giornalista scoppia a piangere percependo il momento topico dell’inchiesta e il via libera per stampare; l’altra in cui la sempre straordinaria Carey Mulligan osserva, estraniandosi, i visi dei colleghi in una riunione decisiva di redazione guardandoli in silenzio e con una invisibile smorfia che vorrebbe essere un sorriso infinitesimale, come solo lei ha saputo fare nei tanti film che l’hanno vista protagonista.

Ed infine la seduta decisiva, l’ok alla pubblicazione, la stesura impaziente dell’articolo. Verrebbe da dire ancora una volta: è la stampa, bellezza, e non ci puoi fare niente! Perbacco, la stampa libera americana! Ma stavolta il merito è tutto di alcune donne testarde e consce di quello che stavano compiendo. Una rivoluzione sociale di portata enorme, un cambiamento di visuale sulla società femminile, una vittoria contro il patriarcato e il maschilismo imperante. Da lì ne è scaturito una cascata irrefrenabile di movimento femminile approdato fieramente nel #MeToo e nella coscienza dell’universo donna. La distribuzione italiana ha scelto come titolo la traduzione letterale del Movimento, ma quello originale, scaturito dal libro, è secco e fortemente dotato di significato: She Said, semplicemente Lei disse. Lei disse e tutto venne giù come una valanga benefica. Ma attenzione, quel titolo ha anche una seconda valenza, però diminuente ma altrettanto vendicatore: si usa anche per dire che quella donna non bisogna ascoltarla perché lei dice, dice… Ed invece.

Bisogna aver pazienza proprio perché denso di parole, di nomi e ritmo, essendo un film impegnativo (prodotto anche da Brad Pitt) ma liberatorio, condotto con poche smancerie da una regista adatta e un gruppo di attori predisposti all’operazione, in cui emergono due attrici davvero brave Carey Mulligan e Zoe Kazan.

La didascalia finale racchiude la conclusione e le conquiste realizzate.

Nei mesi successivi, 82 donne hanno accusato Weinstein di molestie sessuali. Il lavoro di Kantor e Twohey ha aiutato ad accendere un movimento mondiale contro i soprusi sessuali. Il numero di donne in tutto il mondo che si è fatto avanti e ha condiviso la propria storia pubblicamente, spesso per la prima volta, è impossibile da contare. E i loro racconti hanno portato a riformare i luoghi di lavoro, a cambiare le leggi, a dibattiti pubblici e privati sulle molestie sessuali e la violenza, e se ne parla tutt'oggi. Nel febbraio 2020, Weinstein è stato condannato per stupro e molestie sessuali a New York. Dovrà scontare 23 anni. Deve affrontare ulteriori accuse a Los Angeles e a Londra.

Se vi sembra poco.

Riconoscimenti

2023 - Golden Globe

Candidatura per la migliore attrice non protagonista a Carey Mulligan


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