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Animali selvatici (2022)

Animali selvatici

(R.M.N.) Romania/Francia/Belgio/Svezia 2022 dramma 2h5’

 

Regia: Cristian Mungiu

Sceneggiatura: Cristian Mungiu

Fotografia: Tudor Vladimir Panduru

Montaggio: Mircea Olteanu

Scenografia: Simona Pădurețu

Costumi: Cireșica Cuciuc

 

Marin Grigore: Matthias

Judith State: Csilla

Macrina Bârlădeanu: Ana

Orsolya Moldován: sig.ra Dénes

Zoltán Deák: Zsolt

Andrei Finți: Otto

Mark Blenyesi: Rudi

Ovidiu Crișan: sig. Baciu

 

TRAMA: Matthias torna nel suo villaggio natio in Transilvania pochi giorni prima di Natale, dopo aver lasciato il lavoro in Germania. Vorrebbe seguire più da vicino l’educazione del figlio Rudi che, lasciato alle cure della madre Ana, è rimasto in balia delle sue paure infantili, ma è preoccupato anche per l’anziano padre, Otto, e vuole rivedere la sua ex amante, Csilla. Quando alcuni lavoratori stranieri vengono assunti nella fabbrica di Csilla, la pace della comunità crolla e le loro paure, conflitti e passioni esplodono.

 

Voto 7,5



4 mesi, 3 settimane, 2 giorni - Oltre le colline - Un padre una figlia. Cristian Mungiu continua la sua analisi spietata – continua, intervallata, a cadenza di 3 o 4 anni – della distonia sociale nella patria Romania: incongruenze, ingiustizie, ipocrisie, potere politico. Senza lesinare aspre critiche ai compatrioti che, se da un lato hanno la voglia matta di dimenticare l’oppressione sovietica e girare pagina, dall’altro non amano le idee occidentali che significano anche diritti umani e sociali, che respingono. Gli abitanti della cittadina, luogo della trama situato nella Transilvania, cupa e innevata, si vantano infatti di essere stati l’argine per le invasioni barbariche storiche venute dal nord, ma nello stesso tempo rifiutano i vicini ungheresi o le etnie rom che cercano casa e lavoro. Alla pari di come il regista ha trattato i temi dell’aborto clandestino, l’oppressione psicologia della religione, l’affermazione con ogni mezzo nella società borghese, tutte problematiche dei film precedenti indicati, rieccolo all’opera per indagare e mostrare con grande efficacia narrativa la diffidenza e la paura verso l’estraneo, quindi il tema dell’immigrazione. Persino questa, rappresentata da soli tre uomini dello Sri Lanka arrivati nel paese per essere stati assunti nel grande panificio della signora Dénes.



Mungiu non ha mai sbagliato un film e ha sempre fissato un paletto nella storia artistica del suo Paese. Questo film ne è l’ennesima dimostrazione, non avendo mai timore nel toccare i tasti dolenti oggetto delle sue mai velate critiche. Questa volta, per esempio, parte da una storia ambientata in un villaggio transilvano, concentrandosi in particolare su un padre di famiglia, Matthias, tornato a casa dopo un’esperienza di lavoro all’estero. O meglio, lui lavorava in una impresa di macellazione di ovini, un mattatoio in Germania, e siccome era preoccupato per le notizie riguardanti la salute del piccolo figlio Rudi che ha lasciato in patria con la moglie Ana, è pensieroso e deconcentrato. Per un diverbio, reagisce con violenza verso un superiore ed è costretto alla fuga. Coglie così l’occasione, essendo vicino il Natale, per tornare di corsa al paese, dove, oltre ai consueti litigi con la moglie, cerca di far guarire il bambino che, dopo uno spavento capitatogli nel bosco, non parla più. Nel frattempo ha modo anche di reincontrare la cara Csilla, la vecchia fiamma che ha funzioni dirigenziali nel moderno panificio di proprietà di Dénes che fornisce tutta la zona.



La signora, efficientemente coadiuvata da Csilla, sta assumendo operai stranieri per poter usufruire dei fondi europei, che agevolano l’arrivo e l’impiego di immigrati in cerca di lavoro. Tutto pare filare liscio e quelli giunti sembrano subito bravissime persone, molto predisposte a imparare il lavoro e a integrarsi. Pare filare liscio, ed invece la popolazione, ipocritamente cristiana e frequentatrice della chiesa, davanti alla situazione creatasi reagisce con veemenza, chiedendo che questi non tocchino la pasta che diventerà pane per tutti. È solo un pretesto per svegliare antichi torpori dettati dalla chiusura mentale e dall’evidente razzismo, mai estinto anche nei riguardi di quelli che definiscono zingari e i quegli ungheresi che sono venuti ad abitare lì ormai da anni. La pace della comunità viene messa così a dura prova. Non serve la tenacia con cui le due donne vogliono contrastare le reazioni eccessive dei concittadini, non serve contattare il parroco per un compito di mediazione, il quale, anzi, per pigrizia e tornaconto personale, preferisce non rischiare e sceglie tacitamente di schierarsi con i fedeli. Né serve rivolgersi alla pigra polizia locale. Le minacce non più velate ai tre cingalesi e alcuni atti di violenza fanno precipitare la situazione, mentre Matthias cerca di barcamenarsi falsamente tra la riavvicinata Csilla, ormai sua amante, e i cittadini, essendo anch’egli intimamente intollerante verso i nuovi arrivati.



Potente parabola sulla genesi del razzismo e su quanto ci si possa ritrovare soli se ci si chiude al resto del mondo, il film, come nelle altre occasioni precedenti, è un progetto ambizioso e ricco di stimoli e simbolismi, capace di scuotere e di rimanere impresso. Il titolo originale, R.M.N., non è casuale e fa riferimento all’acronimo della risonanza magnetica nucleare sulla malata Romania ed è un chiaro rimando al paese natale di un autore che ha sempre cercato di raccontare le sue ombre e le sue contraddizioni. Vari sono i simbolismi e le metafore ma nessuna è pari ad un finale allegorico che sconcerta e che non è detto che venga colto nel suo vero significato, prestandosi a non poche interpretazioni. Ma altrettanto chiara è l’aspra critica che il regista rivolge ai suoi connazionali e alla loro mentalità razzista e retrograda.



La vera sequenza clou, che dura ben 14 minuti con la camera da presa immobile che inquadra i cittadini nella sala del centro culturale del paese, è l’essenza del film, è il cuore dell’operazione artistica di Mungiu. Tutti lì a discutere sempre più animatamente per spiegare tutta la loro diffidenza verso i poveri tre immigrati e di quale sistema adottare per farli allontanare, pena nessuno avrebbe mai più acquistato il pane prodotto dalla ditta in questione. Batti e ribatti, con la quasi totalità della cittadinanza schierata contro Csilla e Dénes che difendono le loro scelte, mentre il violento e incoerente Matthias cerca in ogni modo di non perdere i favori della prima. Tra queste due trincee vaga la piccola figura di Rudi, il bimbo traumatizzato che non parla, che non può capire questi dissidi, l’intolleranza, la violenza del padre, il dolore e lo spavento della madre, i pericoli del bosco e di ciò che aveva visto.



Mungiu fa, quindi, una immaginaria ma toccante risonanza magnetica al suo Paese e i risultati non sono buoni e confortanti: ogni casa ha ancora un fucile, ogni abitante è pronto a gridare le sue paure e le sue pretese, le donne, pur se imprenditrici o valenti manager, vengono sovrastate dal maschilismo e dalla società patriarcale. A quanto pare, la donna va bene solo quando asseconda la rabbia razzista degli uomini, che, tra l’altro, non vogliono ascoltare coloro che ricordano quanti di loro hanno dovuto emigrare negli anni precedenti, quanti di loro oggi parlano bene il tedesco essendo stati tanti a lavorare in Germania. Come sempre, dimentichiamo il noi migrante per respingere il migrante che arriva e a cui non vogliamo dare ospitalità e quel lavoro che l’indigeno non vuole fare perché poco retribuito e troppo faticoso. E la Romania fotografata e narrata, almeno in questa zona remota dai toni cupi, è una terra di confine in conflitto di sentimenti, dove ignoranza e paura sono terreno fertile per un’assemblea pubblica piena di tensioni. 14 minuti che condensano l’intero film giunto all’apice. Cos’ha vito Rudi nel bosco? In cosa consiste la malattia del padre di Matthias esaminata dalla vera apparecchiatura della risonanza magnetica? L’indifferenza rappresentata dall’uomo tornato al paese si è tramutata nella rabbia della collettività.



Questo quadro pessimista di Mungiu è, in piccolo, quello generale che appare nel mondo intero. Il regista lo rappresenta tra la vita quotidiana che apparentemente sembra tranquilla e le inquadrature profonde della campagna, dei boschi e delle montagne che sovrastano il panorama invernale. I fedeli pregano tutti assieme al parroco, ma con lui imbastano un rigurgito che sa di medioevo. I riferimenti all’Europa tutta sono evidenti e lo ribadisce lo stesso regista quando afferma, con dispiacere, che nel nostro continente “l’idea del creare pace eliminando i confini è per ora la migliore che si poteva avere. Ma non è una nazione, quindi è inevitabile che ci siano molte differenze incluse in questo concetto. E queste creano inevitabilmente visioni diverse. Si tratta di differenze di educazione, cultura, sviluppo e ruoli storici differenti nello sviluppo del mondo. È molto difficile prendere decisioni oggi e aspettarsi che tutti la pensino allo stesso modo.” È la solita situazione che si è venuta a creare quando il capitalismo ha prodotto una crepa maggiore tra ricchi e poveri, tra le classi abbienti e le altre, e quando i politici di oggi hanno fatto sì che il cittadino meno dotato possa additare le colpe della sua indigenza non a fatti obiettivi o a politiche economiche ingiuste, ma ai nuovi arrivati: invece di guardare verso l’alto, il debole guarda in giù, dando colpa della sua situazione a chi sta peggio. Nessuno dei disoccupati di quel paese immaginario rumeno vuole lavorare nel panificio ma non accetta che ci vada l’immigrato. Senza dimenticare, però e in contraltare, che l’imprenditrice approfittava dei finanziamenti europei per assumere ma a salario minimo. Altro aspetto fortemente negativo della società attuale. Un proverbio arabo dice: Tutti hanno il proprio arabo. Storicamente parlando, cerchiamo qualcuno che sia colpevole di quello che ci succede, perché è molto più facile pensare che siamo innocenti. Qualcun altro dev’essere colpevole. È molto difficile riconoscere che sia tua la colpa della situazione in cui ti trovi ed è un giudizio molto rudimentale pensare che qualcun altro dev’essere colpevole. E spesso è la persona che è più diversa da te, nel colore della pelle, nell’educazione, o qualsiasi attributo fisico. Dev’essere lui il colpevole.



Il cinema di Cristian Mungiu fa sempre riflettere e riflette la vita di sempre, partendo ogni volta dalla sua gente e dalla sua terra per estendere i concetti all’universalità e mette sul piatto una disarmante analisi della natura umana e dei tempi che viviamo, pervasi da tensioni, intolleranza e paura. Lo fa con una scrittura che incide fortemente nella visione, nelle inquadrature, nei caratteri dei personaggi, dirigendo gli attori magnificamente, tralasciando la musica di commento, lasciandoci solo le note del violoncello della appassionata Csilla (In the Mood for Love) e quelle suonate in chiesa o a Natale.



Resta comunque straordinaria e sovrastante la sequenza citata dell’assemblea (tecnicamente spericolata, con persone che parlano davanti o dietro la macchina da presa, sempre fissa), perché l’impressione che si ricava è che alla fine sembra che nessuno abbia ragione. Tutti hanno delle posizioni che sembrano valide e la scena esprime, nello stesso tempo, il bisogno di avere una vera conversazione. Spesso, quello che si fa è lanciarsi in degli scambi con gli altri, convinti di sapere già la verità. E questa non è una conversazione. Quella del film è una scena che parla del bisogno di dialogo e del bisogno di crescere con la propria opinione. Anche contro gli altri. Il film parla inoltre di questo processo attraverso il quale si passa da un individuo con le proprie opinioni a piccola pecora in un gregge che perde la propria personalità e spera di non avere responsabilità perché è parte di un gruppo. Ma ognuno ha la responsabilità di individuo che nessuno può togliere. Probabilmente questa è la cosa principale che il protagonista impara alla fine del film: devi scegliere da che parte stare e partecipare al discorso, non ci sono scuse per restare in disparte. Devi agire!

 

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