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Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse (2022)

Aggiornamento: 29 gen


Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse

(Armageddon Time) USA/Brasile 2022 dramma 1h54’


Regia: James Gray

Sceneggiatura: James Gray

Fotografia: Darius Khondji

Montaggio: Scott Morris

Musiche: Christopher Spelman

Scenografia: Happy Massee

Costumi: Madeline Weeks


Banks Repeta: Paul Graff

Jaylin Webb: Johnny Davis

Anne Hathaway: Esther Graff

Anthony Hopkins: Aaron Graff (Rabinowitz)

Jeremy Strong: Irving Graff

Tovah Feldshuh: Mickey Graff (Rabinowitz)

John Diehl: Fred Trump

Andrew Polk: prof. Turkeltaub

Ryan Sell: Ted Graff

Jacob MacKinnon: Edgar Romanelli

Marcia Jean Kurtz: zia Ruth

Domenick Lombardozzi: serg. D'Arenzio

Dane West: Topper Lowell

Jessica Chastain: Maryanne Trump Barry


TRAMA: Nel Queens degli anni Ottanta, il dodicenne Paul sta crescendo in una famiglia tanto amorevole quanto turbolenta di cui fa parte anche il nonno Aaron, che incoraggia le sue aspirazioni artistiche. Il suo migliore inseparabile amico è Johnny, un ragazzino afroamericano che vive solo con la nonna. I ragazzi escogiteranno un piano rischioso per sfuggire a un’esistenza che non vogliono per tentare di scappare in Florida.


Voto 7

Se in quasi tutti i sette precedenti film James Gray ha scelto l’ambientazione nei quartieri di New York che conosce bene avendovi vissuto e ha (quasi, ancora) utilizzato personaggi di immigrati come protagonisti delle sue storie (anche sempre sceneggiate da sé), ora, a 28 anni di distanza dal suo eclatante e bellissimo esordio (Little Odessa), eccolo al redde rationem (in senso positivo ed evidentemente necessario): erano, quei film, grossolanamente autobiografici ma ora mette in scena la sua adolescenza, il suo coming of age, la nascita e l’evoluzione della personale storia di formazione. Che esposta drammaticamente in codesta maniera il regista definisce sin dal titolo un armageddon, uno conflitto esistenziale che deve forzatamente terminare in una soluzione definitiva: ognuno di noi, crescendo, decide qual è la strada che deve intraprendere, deve decidere il proprio futuro, non ci possono essere rimandi. Sembra una strana coincidenza che nel breve giro di pochissimi anni, molti autorevoli registi abbiano messo nero su bianco e immagini su schermo della loro infanzia e adolescenza, per raccontarci i momenti più importanti della loro vita in cui hanno deciso cosa fare da grandi, dopo averci illustrato come e dove sono cresciuti e diventati giovanotti. Un corposo elenco che vede Alfonso Cuarón (Roma), Kenneth Branagh (Belfast), Paul Thomas Anderson (Licorice Pizza), Steven Spielberg (The Fabelmans), Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio) e chissà chi altro sfugge: tanti arrivano ad un certo punto della loro vita e carriera per aprirsi allo spettatore e dire: ecco, da qui vengo e qui avevo la passione di fare film.

Ognuno descrive l’habitat, la famiglia, le amicizie e quindi l’ambiente, il tempo storico, la mentalità del momento e di quella gente, ma forse nessuno così profondamente e ripetutamente come James Gray, che negli altri film (e sottolineo il primo) pare parlare di trame anonime ed invece lui ci disegna (non) sempre gli immigrati ebrei ucraini, che sono la sua stirpe, la sua provenienza, e ci mostra i gravi ostacoli all’inserimento nella società, le sofferenze sopportate per la discriminazione, le difficoltà a fare amicizia tra coetanei, la disoccupazione, la scarsità finanziaria, la criminalità piccola e media nei quartieri che ha conosciuto: Queens, Brooklyn, i quartieri in cui barcamenarsi per sopravvivere, anche psicologicamente.

Negli anni in cui i Beatles si sono sciolti ma si parla (più che altro si spera) di una loro riunione, in cui i sondaggi prevedono la vittoria repubblicana di Reagan e brilla l’ascesa prepotente della famiglia Trump (in realtà Trumpf, originari della Renania tedesca), immigrati anche loro (!), la trama ci parla di Paul Graff (Banks Repeta), un ragazzo di 12 anni che cresce nel Queens di New York con il sogno di diventare un artista. Il padre, idraulico con pochi mezzi, non approva il suo comportamento e lo rimprovera di non andar bene a scuola. Egli trova conforto solo nelle parole incoraggianti del nonno Aaron e l’amicizia con il compagno di classe, un altro ragazzino, Johnny, nero, ripetente, orfano e non adatto alla disciplina scolastica. Solo la loro presenza lo rende felice. Col passare del tempo nel viaggio della sua vita, le esperienze buone, cattive e indifferenti continuano a educarlo e ad affascinarlo. Come tanti adolescenti con aspirazioni artistiche, è spesso distratto e col pensiero vaga nei suoi sogni di affermazione disegnando di continuo, preferibilmente razzi che si levano verso il cielo, o i visi dei professori, le sue mani. Difficile sapere se davvero il piccolo James sognasse di avere successo nel campo pittorico, ma sicuramente la dote del personaggio sostituisce la sua per il cinema. La famiglia non è benestante e solo la pensione dei nonni riesce a mandarla avanti, anche con i salti mortali che fa l’amorevole mamma Esther (Anne Hathaway), ma nello stesso tempo Paul può ritenersi fortunato rispetto alle altre famiglie che invece se la cavano maluccio. In special modo l’amico del cuore Johnny, che oltretutto, da nero, bistrattato da un razzismo mai sopito neanche in quegli anni ’80. Sognando l’evasione liberatoria e l’affermazione dei loro progetti, attuano un piano da piccoli criminali di infimo livello, finendo alla stazione di polizia, dove Paul se la cava per il rotto della cuffia, ma non il suo compagno. Lo aveva protetto e salvato in una delle prime occasioni, ora invece fa affidamento al suo sacrificio di per poterne uscire indenne e anche questo costituisce una importante esperienza per il futuro.

È un film di formazione, una sorta di autofiction biografica ma è prepotentemente un film politico, perché preponderante è l’ambientazione sociopolitica della storia, un momento in cui appaiono evidenti le motivazioni razziali che spingono alcuni ragazzi e comportarsi in una certa maniera, in cui la famiglia dei suoi avi, una volta arrivata ad Ellis Island, intuisce che è meglio cambiare il cognome da Rabinowitz in Graff. Paul è un bambino ma vive sulla sua pelle il cambiamento in corso, in una nazione dove già sono presenti le basi del trumpismo (e non solo perché Fred Trump, finanziatore della scuola elitaria dove viene iscritto per allontanarlo da Johnny, e la figlia Maryanne sono effettivamente personaggi attivi nella pellicola) e per la forte ascesa di Ronald Reagan che all’inizio del film sta parlando in TV ed usa un termine che dà anch’esso occasione al titolo: “Se lasciamo che l’America sia un’altra Sodoma e Gomorra, forse potremmo essere la generazione che vedrà l’Armageddon.”. Pare, purtroppo, di sentire i politici italiani di oggi che paventano la “sostituzione etnica”. Facile immaginare le forti reazioni negative della famiglia Graff a tali affermazioni.

Paul deve trovare la sua strada, che non coincide mai con quella che gli indicano il padre e la madre, i professori, gli adulti. Solo, e per fortuna, il generoso nonno ha sempre una parola di incoraggiamento a perseguire le sue aspirazioni. E non solo. Oltre a questo aspetto di educazione e mentalità, l’anziano gli insegna il rispetto verso gli altri, a reagire contro le ingiustizie sociali dovute alle diversità, a ribellarsi al conservatorismo politico che va affermandosi. Tra le tante scene importanti, forse la primaria, quella più polemicamente politica è senza parole o, meglio, con le parole della famiglia Trump - durante una importante cerimonia nella scuola privata frequentata da studenti bianchi, ricchi, viziati e pieni di pregiudizi – ma con il silenzio del giovanissimo Paul che, nel bel mezzo dei discorsi “orgogliosi” di Maryanne Trump Barry (Jessica Chastain) - avvocata e magistrata statunitense, giudice emerita presso una corte d'appello e sorella di Donald - e del padre Fred, si alza ed esce dall’aula magna. L’irrequieto giovinetto non è mai a suo agio in questa vita vivendo sulla sua pelle il cambiamento in corso, in una nazione dove già sono presenti le basi del trumpismo: sorride, gioca, ma sta bene solo con l’amichetto e con il buono e comprensivo nonno, ribelle come lui, ma sta cominciando a percepire che, sebbene ancora acerbo, le condizioni sono pronte affinché cominci a prendersi le sue responsabilità: gli avvenimenti che seguiranno, la disgrazia in famiglia e la brutta disavventura delinquenziale, lo spingeranno ad affrettare il passaggio alla fase successiva della crescita morale. Il Queens è un luogo dove nessuno è veramente a suo agio, nessuno appare davvero soddisfatto, in una corsa infinita che coinvolge tutti senza dare il tempo di guardarsi indietro. Secondo Gray, era il tempo dell’apocalisse. Paul, uscendo, va ad affrontare il destino in un’America strutturata come non gli piace. È giunto il momento che l’alter ego del regista vada.

Come ogni altra sua opera, James Gray affronta temi importanti ed essenziali della vita ma sempre con la giusta dose di drammaticità, senza mai esagerare, in modo appassionato e lento, come per accompagnarci piano nel percorso di maturazione, delle decisioni importanti. Come tutte le altre volte. Ricreando un’ambientazione completa, esaustiva, in cui ci trasporta in maniera totale, con le passioni della sua etnia ucraina (le tradizioni non le sopporta) e con l’atmosfera americana, scrivendo dialoghi sempre efficaci, con personaggi caldi, istintivi, combattenti del Nuovo Mondo, scegliendo con cura gli attori: Banks Repeta è un bel ragazzino vivace e anche se dà l’impressione di essere acerbo entra bene nel personaggio; Anne Hathaway è racchiusa nel suo ruolo diminuente e non ha modo di primeggiare; Jeremy Strong è bravo in Irving, il papà; Jessica Chastain appare per pochissimi minuti ma sa dare, come al solito, solidità alla figura di Maryanne: chi emerge (e come poteva essere diversamente?) è l’inossidabile Anthony Hopkins, un gigante della recitazione che anche in questa occasione sovrasta il set con la sua modulazione dei toni, lasciando farsi invecchiare per motivi di scena, lui che è così giovanile e sprizzante vitalità.

Non ho idea di quanto possa piacere il film nel complesso agli spettatori, ma chi ama le narrazioni di James Gray non può sottrarsi ad accettare un’altra puntata del filo conduttore che sono i suoi lavori (il razzo di qui richiama Ad Astra, per esempio), che direttamente o no sono la sua personale esperienza. Se fino ad oggi ci girava intorno per protagonisti interposti, oggi è lì, sullo schermo, tramite il suo sosia chiamato Paul Graff.


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