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Back to Black (2024)

Back to Black

UK/Francia/USA 2024 biografico 2h2’

 

Regia: Sam Taylor-Johnson

Sceneggiatura: Matt Greenhalgh

Fotografia: Polly Morgan

Montaggio: Martin Walsh, Laurence Johnson

Musiche: Nick Cave, Warren Ellis

Scenografia: Sarah Greenwood

Costumi: PC Williams

 

Marisa Abela: Amy Winehouse

Jack O’Connell: Blake Fielder-Civil

Eddie Marsan: Mitch Winehouse

Juliet Cowan: Janis Collins-Winehouse

Lesley Manville: Cynthia Winehouse

Sam Buchanan: Nick Shymansky

Pete Lee-Wilson: Perfume Paul

Anna Darvas: Shelley

Tracey Lushington: Jane

Harley Bird: Juliette Ashby

Jonathan Ross:  stesso

 

TRAMA: Vita e musica della musicista londinese Amy Winehouse, che ha iniziato come cantante jazz per poi crescere fino a diventare una superstar della discografia mondiale, vincitrice di Grammy. La sua vita si è interrotta nel 2011 a soli 27 anni, dopo una lunga battaglia con l’alcolismo e la tossicodipendenza.

 

Voto 6



I cantautori scrivono sempre testi autobiografici? Forse, quasi, non sempre, spesso, spessissimo. Amy metteva sul pentagramma la sua vita, totalmente, trovando così un luogo dove parlare di e a se stessa e al mondo, di cui, in verità, non le interessava granché, essendo una ragazza ribelle e indipendente che viveva come credeva e agiva come gradiva, senza condizionamenti. In ogni brano c’è un pezzo della sua vita, per cui ha alternato canzoni con spirito positivo a quelle ispirate dal pessimismo e allo sconforto del momento. Un po’ per motivi familiari, moltissimo per la sua relazione burrascosa (un eufemismo) con il suo unico e grande amore: Blake, scavezzacollo nullafacente, dedito solo a bere e giocare a biliardo nel pub preferito di Londra, tra droghe e alcol.



E così, per girare un biopic su Amy Winehouse, basta mettere in ordine cronologico le sue registrazioni e si scorre l’intera, brevissima vita. Così, penso, avrà fatto Sam Taylor-Johnson, regista dedita ai biografici (su quattro film ne ha firmati tre, con questo) e già nota per quello dedicato ad una figura storica e basilare della musica moderna, Nowhere Boy (2009), sull’adolescenza di John Lennon.  È impressionante come i testi rispecchino lo stato d’animo, le sensazioni, le paure e la felicità momentanea della ragazza nel momento in cui sedeva nella sua camera e, chitarra in mano, metteva giù versi e note, segnata già da ragazzina per la separazione dei genitori. Il successo? La interessava solo parzialmente, perché la primaria prerogativa era cantare quello che aveva dentro, senza vincoli imposti dai produttori, tanto che un giorno rifiutò di andare a lanciare i suoi album in America con le condizioni previste dai produttori discografici. Pensò bene di attendere il momento e il modo che lei preferiva. “Sai che cos’è per me il girl power? Sarah Vaughan, Lauryn Hill… Devi capire una cosa: non sono una Spice Girl!



You went back to what you knew / So far removed / From all that we went through / And I tread a troubled track / My odds are stacked / I’ll go back to black” [Sei tornato a ciò che conoscevi / Così lontano / Da tutto ciò che abbiamo attraversato / E io percorro una pista travagliata / Le mie probabilità sono accatastate / Tornerò all’oscurità], canta nella meravigliosa Back to Black che dà il titolo al film per raccontare come Blake l’abbia abbandonata per tornare alla ragazza precedente, facendola piombare nel buio e nella assoluta tristezza. “We only said goodbye with words/ I died a hundred times/ You go back to her/ And I go back to black” [Ci siamo salutati solo con le parole/ Sono morta cento volte/ Tu torni da lei/ E io torno all’oscurità]. Non sapeva fare a meno di quel giovanotto, nonostante i primi disaccordi sulle sostanze da assumere, dato che lui usava cocaina mentre lei non andava oltre l’erba, ma erano d’accordo su come e quanto alcol bere. Lei era già dedita a buttar giù bicchieri uno dietro l’altro e quando la situazione peggiorava il padre cercava di convincerla ad andare in un centro di riabilitazione.



E rieccola, quindi, in Rehab: “They tried to make me go to Rehab / But I said no, no, no / Yes I’ve been black, but when I come back / You’ll know, know, know / I ain’t got the time / And if my daddy thinks I’m fine / They tried to make me go to Rehab / But I won’t go, go, go” [Hanno provato a farmi andare in riabilitazione / Ma ho detto no, no, no / Sì, sono stata nel buio, ma quando torno / Lo saprai, lo saprai, lo saprai / Non ho tempo / E se mio padre pensa che sto bene / Hanno provato a farmi andare in riabilitazione / Ma non andrò, andrò, andrò]. Era quando si rifiutava, fino al momento in cui si decise e ne uscì ovviamente pulita. Ma, purtroppo, dopo il successo americano e i 5 importantissimi Grammy Awards, quando Blake - forse spinto dall’amico per i vantaggi che ne avrebbe ricavato - tornò da lei ma andò in prigione per aggressione e, diceva, che per guarire doveva lasciarla per sempre, lei si ritrovò sola in maniera definitiva, iniziando così la sua discesa agli inferi di droga e alcolismo.



Amatissima dai fans ma anche dai grandi artisti (vedi Tony Bennett), la sfortunata giovane chiamata Amy (Marisa Abela) non ha avuto l’affetto stabile di Blake (Jack O’Connell) di cui aveva fortemente bisogno, che le dava saldezza e certezze, pur se nell’inferno degli stupefacenti e delle bottiglie bevute come acqua. I concerti erano esibizioni acclamate ma instabili, incerti e condizionati dalle condizioni fisiche e dalla lucidità mentale. Traballante e ubriaca, faceva felice la marea di fans che la andava ad ascoltare, senza immaginare che in poco tempo il fisico non avrebbe retto, morendo all’età maledetta che ha segnato la fine di tanti artisti come lei: Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain. Un destino.



Tra i tanti biopic di questi anni (Rocketman, Elvis, Bohemian Rhapsody), chi si è lanciato nell’operazione ha raccontato i momenti felici degli artisti ma maggiormente le sofferenze, come quasi a voler significare che, se ad un regista si dà l’opportunità di raccontare la vita di un idolo pop (ma Amy non era questo, era una jazzista geniale con una voce straordinaria), ne canterà i dolori. Fuori di dubbio, e ciò Sam Taylor-Johnson lo mette in evidenza, ma non in senso negativo ma come particolare del carattere, perché Amy è di certo arrogante, sboccata, talentuosa e menefreghista, ed è anche tanto romantica, estremamente bisognosa di affetto, tanto da trarne il massimo non tanto dalla mamma quanto da sua sorella, la zia Cynthia (la bravissima Lesley Manville). In fondo, solo il padre Mitch (il sempre più artisticamente maturo e finalmente stimato Eddie Marsan) non le fece mai mancare il sostegno morale e amorevole.



Il cast se la cava molto bene, soprattutto nel reparto degli interpreti più maturi, ma tutto il film verte sia sul grintoso ed efficace Jack O’Connell, in netta crescita rispetto ai soliti ruoli minori datigli, sia – e qui risiede la maggiore curiosità dello spettatore – sulla notevole Marisa Abela, che, va detto, è semisconosciuta. L’attrice ce la mette tutta e anche di più, fisicamente e vocalmente, cercando di imitare l’iconica figura ma - qui vengono i nodi al pettine - dando l’impronta al film di una emulazione eccessiva, prima esagerando i movimenti (per farli notare? era inutile), poi provando con tutti i mezzi di imitare una voce inimitabile, essendo una delle più belle degli ultimi decenni. Con ovvi scarsi risultati, se non il fatto di scoprire un’attrice che sa cantare. In ogni caso, performance apprezzabile, perché il compito era proibitivo. Ma questo è il classico lato negativo che si riscontra nei film di questo genere, riferito a personaggi famosi dalle voci quasi uniche: è qui che cascano tutti. La differenza la si può fare se si punta più sull’aspetto narrativo o su quello artistico, dove non ci può essere partita. L’ostentata ricerca di verosimiglianza porta solo ad esagerare e sbagliare approccio al personaggio, anche da parte di chi dirige.



Se ci si accontenta e ci si limita ad imparare qualcosa sulla travagliata vita della povera Amy, va bene e si può provare ad essere anche sufficientemente soddisfatti, se ci si aspetta di più è meglio essere prevenuti e non entusiasmarsi. Come è successo, con alterne fortune e risultati, ultimamente con i biopic su Judy Garland, Ray Charles, Johnny Cash, Charlie Parker, Nico, Jerry Lee Lewis, oltre a quelli già citati.



Il giudizio sugli interpreti è discretamente positivo, non c’è dubbio. La regia è ordinaria e senza acuti, a cui va riconosciuto comunque l’impegno di trasporre una biografia di una vita sempre al limite e di dedicare tutto il tempo necessario all’aspetto artistico, con molte esibizioni della cantante, preferendo, giustamente, uno sguardo piuttosto vintage pur se le vicende sono ambientate nei primi anni Duemila, perché era proprio lo stile che Amy esprimeva con la sua cultura jazzistica innata. A latere, è affettuoso il contributo degli artisti che hanno amato la protagonista, visto che le musiche del film e il brano sui titoli di coda sono opera di Nick Cave e Warren Ellis, coppia di grandissimi musicisti che spesso lavorano assieme, anche nel cinema per titoli importanti come L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, The Road di John Hillcoat e I segreti di Wind River di Taylor Sheridan.



Due album di brani (Frank, del 2003, e Back to Black, del 2006) più un terzo postumo del 2011 (Lioness: Hidden Treasures, che contiene demo e brani inediti tra cui Body and Soul, con l’amato Tony Bennett) per racchiudere una vita rimasta nel ricordo vivissimo di chi la ama.



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