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Benedetta (2021)

Benedetta

Francia/Belgio/Olanda 2021 dramma biografico 2h11’

 

Regia: Paul Verhoeven

Soggetto: Judith C. Brown (saggio)

Sceneggiatura: David Birke, Paul Verhoeven, collaborazione di Pascal Bonitzer

Fotografia: Jeanne Lapoirie

Montaggio: Job ter Burg

Musiche: Anne Dudley

Scenografia: Katia Wyszkop

Costumi: Pierre-Jean Larroque

 

Virginie Efira: Benedetta Carlini

Charlotte Rampling: la badessa Felicita

Daphné Patakia: Bartolomea

Lambert Wilson: il Nunzio

Olivier Rabourdin: Alfonso Cecchi

Louise Chevillotte: Christina

Hervé Pierre: Paolo Ricordati

Clotilde Courau: Midea Carlini

David Clavel: Giuliano Carlini

 

TRAMA: XVII secolo: Benedetta Carlini entra in convento a Pescia da bambina, e lì cresce, prende i voti e diventa una fervente sposa di Cristo. Finché non viene accolta la giovane Bartolomea, una ragazza che sceglie la compagnia delle devote per sfuggire alle violenze del padre. La visione di questa ragazza risveglia i sensi e i desideri di Benedetta, ma anche la sua sete di potere, alimentata dal fanatismo e dalle sue presunte visioni di Gesù.

 

Voto 7



Imperturbabile nel suo viaggio artistico, Paul Verhoeven continua l’esplorazione provocatoria e ribelle delle donne indipendenti e sensuali, che hanno tutte atteggiamenti con le medesime caratteristiche e ragioni di sfida al suprematismo maschile. Sfidando l’uomo con l’esposizione della libertà di pensiero e di comportamento provocante, le sue eroine – che all’opposto di quelle di Luc Besson non sono atletiche – sono coraggiose suffragette che cercano l’affermazione anche con l’uso deliberato e sfidante del loro corpo. Esibito fieramente. Tanto per fare un esempio eclatante, come quando Catherine Tramell accavalla le gambe davanti ai sudati poliziotti, qui il corpo attoriale dalla sensualità dirompente di un’attrice dalla gamma espressiva sempre sorprendente, Virginie Efira, dalla bellezza magnificente e provocante e sempre pronta a recitare senza alcun velo, diventa un’arma per destabilizzare il mastodontico edificio della religione cristiana.



Visto come una scelta, egli diventa un picconatore che intende abolire, tramite quel corpo ma soprattutto quell’atteggiamento sfrontato, le frontiere tra carne e spirito, costruendo alla sua maniera, con una protagonista forte, una religiosa che è un insieme di mistica ed eros, per giunta saffico, in modo da scuotere vieppiù i giudizi e gli sguardi del pubblico: un personaggio chiaramente ambiguo, sempre a cavallo tra la santità e il diabolico, manipolatrice o manipolata, furbissima oppure ingenua pervasa dalla dedizione assoluta a Dio, fino ad arrivare alle visioni mistico-materiche di Gesù che le parla e le preannuncia gli eventi. Scatenando ovviamente gli schieramenti opposti, sia nella plebe che nell’ambito religioso, con alcuni prelati che le credono o almeno sono cauti nel giudicarla, avendone forse paura, e con altri, come il Nunzio, che la condannano senza mezzi termini. Anche e soprattutto vedendola come una minaccia al loro predominio maschile.



La pellicola, basata su un libro scritto dalla scrittrice e storica statunitense Judith Cora Brown, narra di una storia ambientata nel tardo Seicento, quando la piccola Benedetta Carlini, figlia di una facoltosa famiglia toscana, pronta a pagare qualsiasi cifra (emblematica la trattativa mercanteggiante con la Badessa Felicita per stabilire le donazioni abbondanti che il padre Giuliano deve pagare per farla accettare) entra nel convento teatino di Pescia per intraprendere il percorso monacale. Da sempre propensa ad avere visioni e comunicare direttamente col Cristo, questi episodi sembrano intensificarsi quando conosce la giovane Bartolomea, umile popolana entrata in convento per sfuggire alle angherie del padre vedovo e dei fratelli, della quale si invaghisce. I prodigi vissuti da Benedetta, almeno agli occhi di chi le crede, la faranno nominare badessa del monastero in sostituzione di chi l’ha fatta entrare in convento (che reagisce cercando vendetta) e da quel momento viene venerata sempre più, quasi come una santa. Ben presto, però, la sua figura finirà sotto accusa da parte dell’alto prelato che si reca sul luogo per poter indagare e con i chiari intendimenti di bloccare l’ascesa e la popolarità, ritenuta pericolosa per la fede. Questi si è recato infatti con la documentazione già pronta per accusare la monaca, ora badessa, di blasfemia, eresia e bestialità (chiaramente riferendosi al saffismo che è stato accertato dalla vecchia badessa che le ha spiate). Intanto, fuori, imperversa la peste.



Il lavoro che ha effettuato il regista con lo sceneggiatore David Birke è stato quello di trovare un equilibrio tra religione, sessualità e intrighi politici della Chiesa, cosa non facile, ovviamente, ma che ha spesso stimolato la creatività di molti scrittori. Il risultato è che non hanno voluto trascurare, anzi esaltare, in molti momenti i lati del racconto con scene altamente erotiche tra le due donne, Benedetta e Bartolomea, anche con “strumenti” fortemente blasfemi, come l’uso di una statuetta di legno della Madonna la cui base era stata adattata dalla seconda a mo’ di fallo. Se la volontà era quella di sfondare il muro delle oscenità, i due hanno sfruttato ogni iniziativa allo scopo, spinti anche dalla scoperta dell’imbarazzo del cancelliere – come risulta agli atti storici dal documento originale – nel trascrivere le testimonianze durante il processo che il Nunzio imbastì contro la monaca. Cancelliere che era così sconvolto dai dettagli sessuali descritti dalla suora che dormiva con Benedetta, da riuscire a malapena a trascriverli, lasciando degli spazi vuoti, delle parole cancellate e altre riscritte. Bartolomea era stata molto esplicita nel raccontare come si erano intrattenute a vicenda. Le scene descritte sono diventate così sequenze in cui il regista non lascia nulla all’immaginazione, con una partecipazione delle attrici degna di un film porno. Ma il film, sia chiaro, non è tale.



Un altro aspetto che ha spinto a realizzare il film in questa maniera è che Benedetta era una donna del Seicento che aveva acquisito un potere vero, sia all’interno delle mura del convento di suore teatine sia nella città di Pescia (il film è stato girato tra Toscana, Umbria e Francia). Era famosa come santa e come badessa e aveva raggiunto tale potere grazie alle visioni, alle manipolazioni, alle bugie e alla creatività. Specialmente grazie al suo talento. Qualunque siano stati i mezzi usati, fu in grado di ottenere e gestire potere in una società e in un’epoca totalmente dominata dagli uomini. Allora le donne non contavano nulla, servivano solo per la gratificazione sessuale maschile e la riproduzione e non occupavano di certo posizioni di potere. Sotto questo profilo, il film può considerarsi anche come un potente atto di femminismo antelitteram.



È in scena, quindi, il conflitto tra la fede, nella sfera privata, e il clero, come componente di un sistema di potere. Ciò che salta all’attenzione è che si vede chiaramente che la protagonista assoluta del film si mostra come una credente convinta: le sue visioni di Gesù le racconta qui come vere ed autentiche, pur suscitando nello spettatore il sospetto che stia mistificando, che le sue parole siano un mezzo per ottenere ciò che vuole. Ella credeva davvero di essere la sposa di Gesù e tante volte spiega, alle colleghe e al Nunzio, che considera il suo Gesù come un pastore che guida il suo gregge secondo l’immaginario evangelico di San Giovanni. Nel contempo, buona parte iniziale del film è dedicata alla graduale nascita e consolidamento di questa storia d’amore lesbica, alternando anche scene di preghiere e di ricerca da parte di Felicita per trovare le prove da portare nell’alta gerarchia della Chiesa e far punire le due donne peccaminose, oltre a farla tacere nella sua esibizione di falsa devota che tanto clamore stava sollevando tra la povera popolazione.



Ma qui e là, il regista semina dubbi rappresentati dai cocci di vetro con cui la donna si procurava (?) le stimmate di cui si vantava di essere stata contaminata per volontà divina. E quindi il film si sviluppa tra scene di sesso e rivelazioni mistiche, persino con le reazioni violente dell’accusata che, come una invasata, iniziava a parlare con una voce spaventosa maschile simile ad un diavolo o a un Dio iratissimo che rivolgeva aspri rimproveri agli astanti che non le credevano e che cercavano di farle confessare sia gli atti impuri che la falsità delle parole relative alla fede e alle visioni. Portandoci poi nel finale tumultuoso della condanna al rogo e alla rivolta popolare, schierata apertamente dalla parte della donna. Un finale degno di un film di avventura e rovina come spesso il cinema ci ha abituati nei racconti medievali. Tutto vero, tutto falso? Non è questo che interessa a Paul Verhoeven, che come al solito viaggia tra la figura sensuale della donna e il thriller, tra la provocazione e il mistero.



Vicenda (reale) che rispecchia l’antica tradizione delle spose bambine di Cristo, della missione fideistica come lavoro, del maschilismo della Chiesa, del conflitto tra la fede intima e quella proclamata del clero come istituzione immobile e sorda, della sessuofobia imperante: un summa del cinema di Verhoeven, con una Benedetta rapportabile alle sue celebri showgirls o alla forza caratteriale della protagonista di Basic Instinct, luogo mentale e artistico in cui lui si trova a suo agio e in cui ha sempre navigato con piacere e convinzione. Perché il film può pure risultare inutile, ma non superficiale, che qualcuno ha definito nunsploitation (il film erotico con suore discinte), ma che ha dato nobiltà a quella serie di film italiani di quarta categoria degli anni ‘70 dai titoli più improbabili (esempi come La monaca di Monza, Interno di un convento, Suor Emanuelle, che poi sfociavano in peggiori come Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno per riecheggiare termini religiosi). È Paul Verhoeven e lui, ormai 83enne al momento dell’uscita del film, non è mai cambiato, anzi, si è tenuto al passo coi tempi.



Con qualsiasi attrice, probabilmente, il film sarebbe stato sempre lo stesso, ma la presenza magniloquente di Virginie Efira è davvero magica. L’autore, per sfruttare la sua presenza, ha evidenziato la straordinaria capacità dell’attrice di incarnare un personaggio complesso e sfaccettato. Con la sua interpretazione, ha dato vita ad una figura storica controversa, portando sullo schermo una performance che è stata definita da molti critici come intensa e memorabile. La sua presenza nel film non solo ha arricchito la narrazione con una profondità emotiva, ma ha anche contribuito a creare un ritratto vivido di una donna la cui storia si intreccia tra fede e desiderio, potere e vulnerabilità. E lei, in questo, è superlativa, dando se stessa come artista e come corporalità, dandosi totalmente come altre volte, esponendo le sue doti artistiche, indubbie, e fisiche, dotata com’è. Desiderabile e cercata, è un’attrice molto richiesta e viaggia al ritmo di un paio di film all’anno, carnale fin dal modo di recitare. Al suo fianco, Daphné Patakia non poteva essere da meno, pena la mancata riuscita delle scene e del film intero. Ma la assoluta protagonista è l’attrice belga, che non passa inosservata. Che la sua Benedetta sia angelo o demone, santa o strega, lei mantiene viva l’attenzione.



Confesso che il mio giudizio è stato fin dalla parola Fine nel dubbio, oscillando tra una sensazione di film inutile o benefico, tra un divertissement del solo regista o un’opera da considerare, tra appena sufficiente o film memorabile. La conclusione è che è fatto benissimo, con grande mestiere, con idee chiarissime, senza titubanze, scritto con grande efficacia e con dialoghi prevedibili ma ineccepibili. Una regia che ha badato piuttosto alla sostanza e all’atmosfera da ricreare, senza badare a orpelli o inquadrature d’autore, guidando adeguatamente con mano esperta ottimi attori (parliamo di Charlotte Rampling, Lambert Wilson, Olivier Rabourdin, il che non è poco), che hanno recitato da par loro in un film che non doveva perdere la bussola, altrimenti cadeva nel banale e nel facile cinema piccante.



Il voto non è basso proprio per le ultime osservazioni, sennò era una semplice sufficienza. Ripeto, è Paul Verhoeven, un sovversivo, direi, ma non qualunque: è anche teologo, membro di una società che studia le Scritture! Quindi lo si conosce già come cineasta e se non interessa meglio non perdere tempo.



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