Campo di battaglia (2024)
- michemar
- 6 feb
- Tempo di lettura: 7 min

Campo di battaglia
Italia 2024 dramma/guerra 1h44’
Regia: Gianni Amelio
Soggetto: Carlo Patriarca (La sfida)
Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio
Fotografia: Luan Amelio Ujkaj
Montaggio: Simona Paggi
Musiche: Franco Piersanti
Scenografia: Beatrice Scarpato
Costumi: Luca Costigliolo
Alessandro Borghi: Giulio
Gabriel Montesi: Stefano
Federica Rosellini: Anna
Giovanni Scotti: soldato siciliano
Vince Vivenzio: soldato napoletano
Alberto Cracco: padre di Stefano
TRAMA: Ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, narra l’amicizia tra due giovani medici, Stefano e Giulio, in servizio in un ospedale militare, con opposte visioni politiche e innamorati della stessa donna, Anna.
VOTO 6,5

Presentato a Venezia 2024, il film di Gianni Amelio è ancora un disperato grido contro le guerre, che lasciano solo una enorme scia di cadaveri, di mutilazioni (qui anche accettate per il terrore di tornare in trincea), di orfani, soprattutto di gioventù persa e mai vissuta. Invece che farne una mostra di carneficina generalistica o di parlare dei massimi sistemi governativi che decidono il destino della popolazione, rappresentata dalle famiglie rimaste con i piccoli, le donne e gli anziani, il regista, traendo spunto dal romanzo di Carlo Patriarca, fa uno zoom sulla vicenda intima di due ufficiali medici e della loro comune amica desiderata, sul punto di sposarsi con uno ma meglio predisposta a vivere accanto all’altro. È sicuramente più efficace seguire da vicino la vita dei singoli per scoprire meglio l’assurdità e la ferocia della guerra, e le scorie che lascia per sempre nella vita di tutti. Militari e civili.

Siamo al tramonto della Prima Guerra Mondiale (per rispetto della Storia si scrive con le iniziali maiuscole ma meriterebbe il minuscolo), nel 1918, quando due ufficiali medici, Stefano e Giulio, amici d’infanzia, lavorano nello stesso ospedale militare in Veneto, molto vicino alle prime linee, tanto da udire spesso i cannoni che sparano. Mentre il capitano medico Stefano, proveniente da una ricca famiglia borghese, è un nazionalista convinto e fa di tutto per rimandare i soldati feriti in battaglia appena possibile, oppure intuendo che i militi esagerino con i loro sintomi, il tenente Giulio, con la sempre immutata passione per la biologia, si lascia invece impietosire da quei giovani rimasti feriti ma soprattutto terrorizzati dall’esperienza appena passata.

I due condividono, oltre all’attività di operare e far guarire i malmessi ricoverati, anche l’amore per una stessa donna, Anna, crocerossina, più desiderata come futura moglie da Stefano, mentre Giulio pare più tiepido perché più interessato ad osservare quella marea di giovani impauriti all’idea di tornare al fronte. Sono due uomini molto differenti: uno, dal forte senso patriottico, parla sempre di patria e di necessità di combattere fino alla vittoria finale, che si verificò e si ufficializzò l’11 novembre del 1918 con la definitiva affermazione degli Alleati, noti anche come la Triplice Intesa, che includeva Gran Bretagna, Francia, Russia, a cui si aggiunse solo inseguito l’Italia. L’altro è tutt’altro che pomposo, è quieto gentile, attento osservatore dei degenti, così giovani e spaventati. Anzi, presto lo spettatore si accorge dello strano e anomalo atteggiamento di Giulio verso questi: succede infatti che nelle corsie molti feriti si aggravano per opera sua, stranamente invece di migliorare alcuni peggiorano o aumentano i sintomi rispetto a quando erano arrivati. Risulta evidente che il tenente, con molta cautela offre a loro amputazioni o alcuni accorgimenti per accrescere le infezioni in corso. Lo scopo è chiaro, è quello di farli ritornare a casa come reduci impossibilitati a continuare a stare al fronte. Impossibile mascherare la situazione e ben presto salta agli occhi di Stefano e Anna, i cui dubbi, ovviamente, ricadono proprio su di lui

Per giunta, l’altarino si scopre da sé, quando un ricoverato, sbagliando dottore, chiede proprio a Stefano di avere un trattamento simile a quello che ricevono gli altri codardi. Ormai è lampante, ma il capitano è troppo amico del tenente e non riesce a prendere la decisione che gli spetterebbe: una denuncia al Tribunale Militare, con tanto di prevedibile pena di morte. Nel frattempo, accade l’impensabile con la diffusione della mortale influenza spagnola, che causò in quegli anni varie centinaia di decessi in Italia e in Europa. Stefano è costretto a far trasferire gli infetti lontano dall'ospedale per contenere la malattia. Tra di loro vi è anche Giulio, che Stefano considera l’unico in grado di comprendere cosa stia succedendo per via delle sue conoscenze di biologia, a cui questi si dedica anima e corpo nella speranza di ricavare almeno un rimedio, una cura che possa almeno frenare la mortalità. Ed invece sarà una strage.
Gianni Amelio non fotografa la guerra, non è quello il suo mestiere. Lui si dedica, con la consueta delicatezza di dialoghi, di trame e di immagini al senso vero del suo lavoro. Non ci sono fili spinati, spari, cannoni, fucili, trombettieri che suonano la carica. Qui si vedono solo gli effetti delle pallottole e delle cannonate, le conseguenze psicologiche sui soldati italiani, che non sono differenti da quelli dei nemici. Tanto, le armi non fanno distinzione tra ferite e amputazioni, che da sempre rappresentano il reduce (o il veterano, come dicono gli anglosassoni). Nei titoli di coda ce n’è un facile riassunto: Nella Prima Guerra Mondiale persero la vita tra militari e civili, più di 16 milioni di persone. I soldati italiani caduti furono oltre 650mila. È mai giustificabile per un riordinamento della cartina geografica? Trieste e le altre città di confine sono sufficienti? La prima sequenza ci offre una risposta, con un soldato che fruga nelle tasche dei cadaveri ammassati in lugubri mucchi di carne e ossa, traendo ricordi personali, oggetti privati, un pezzo di pane sbocconcellato. Lì, ma anche prima, al fronte, sono tutti uguali.
Nelle retrovie esistono ancora privilegi e miseria. Basti osservare i due protagonisti. Stefano proviene da una famiglia altoborghese, ha un padre che sogna per lui un avvenire in politica ed è ossessionato dagli autolesionisti che trattano con il suo collega, tant’è che non esita a denunciarli quando ne scopre qualcuno. Con piglio da vero militarista, ne fa fucilare uno senza alcun tribunale, giusto per dare l’esempio e bloccare l’attività dell’amico. Giulio, in apparenza, sembra più comprensivo e tollerante. Strano ma vero, è un dottore a disagio alla vista del sangue, è più portato per la ricerca e avrebbe voluto diventare un biologo. Intorno a loro gira Anna, amica di entrambi dai tempi dell’università, volontaria della Croce Rossa per un lavoro pesantissimo che affronta con determinazione, conscia che è il prezzo da pagare, all’epoca, per essere nata donna. Laurearsi in medicina era infatti difficilissimo in Italia agli inizi del Novecento per una ragazza senza una famiglia influente alle spalle. E lo fa anche presente in un dialogo.
Chi sono tutti questi ragazzi ardimentosi o terrorizzati, autolesionisti, analfabeti, con la sola voglia di tornare a casa dalla loro madre? Hanno differente estrazione ma la maggior parte di loro non sa neanche parlare italiano. E dialogano solo col loro dialetto siciliano, pugliese, veneto, trentino. Ahi voglia ad urlare alla popolazione che stanno arrivando i nemici se glielo dici in sardo! Gli stessi tre al centro della trama parlano italiano ma con chiarissimo accento veneto.
“Qui non muore nessuno” ci si sente ammonire all’inizio del film, ed invece il film vuole solo ammonire in tutt’altra direzione, vuole con spietata calma spiegarci che ogni guerra non ha vincitori, specialmente in un mondo, come quello, fatto di malattia, dolore, morte, incomprensioni, buio, ricerche e certezze tutte più o meno vane. Una guerra come tante, questo scorcio di terra e di guerra come ogni guerra in ogni angolo della terra in questo preciso momento e nel corso dei millenni vissuti dagli uomini. Poco serve distinguere il buono dal cattivo, da Giulio a Stefano, con in mezzo Anna che, quando capisce con chi schierarsi, alza il braccio dei giradischi che trasmette pomposamente una musica nazionalista sul piazzale dell’ospedale e si unisce al povero Giulio confinato con i moribondi di spagnola. Meglio morire per un giusto scopo e per cercare di salvare la vita degli altri, che vestire una divisa per ucciderli, per giunta rischiando seriamente la propria, di vita.
La pace appare così un desiderio utopico, pur restando la guerra la cosa più stupida che un uomo possa fare, come dice Ermanno Olmi nel suo Torneranno i prati al cui termine compare la didascalia che dice “La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”. L’operazione di Gianni Amelio, comunque, è chiara nell’approccio, essendo, come detto, non un film di guerra ma collaterale, per mostrane le brutalità, e sviluppando quasi l’intera durata nelle mura di un ospedale con due personaggi amici ma lontani nei confronti della guerra e con due comportamenti totalmente differenti affinché i loro pazienti-soldati possano sopravvivere. Chi in un modo, chi nell’altro. Due personaggi che sono mossi dagli eventi ma che allo stesso tempo causano gli eventi mentre il campo di battaglia è fuori, lontano dallo schermo, di cui, eppure, si avverte la presenza. Al limite, quel campo è la silenziosa diatriba tra i due modi di affrontare la situazione da parte dei due medici. Il film è anche una delle poche occasioni, parlando di guerra, in cui è in primo piano una donna, Anna, che sembra addirittura anche più brava dei due maschi titolati alle cure, ma anche il personaggio più sfuggente, più misterioso, mai ben chiarita nella sua personalità nascosta, che compie il gesto più importante portando lo spettatore a compiere la scelta assieme a lei. A lei che spalanca gli occhi, come due strumenti che devono osservare tutto e capire, al fine di assorbire gli eventi, elaborarli e decidere e prendere una definitiva posizione.

Perché narrare un pezzo terribile e cruento della Storia dell’uomo ha anche un significato, ha la sua importanza. Dopo la pandemia dell’inizio dei ‘20 che abbiamo recentemente vissuto pareva che ne saremmo usciti migliori ed invece no! E dopo questa maledetta guerra, cosa è successo, il cittadino e soprattutto il politico europeo è migliorato o son bastati solo un paio di decenni per infiammare ancora di più il Vecchio Continente? L’uomo non migliora mai, non impara mai, ed oggi all’inizio del ’25, assistiamo a tantissimi piccoli fuochi che possono ancora infiammare il mondo. È la cosa più stupida che possiamo fare!

Buone le prove dei tra attori. Alessandro Borghi (Giulio) è costretto a cambiare ancora e si trasforma in un tizio timido e introverso, dalla voce sottile e dai toni alti; Gabriel Montesi (Stefano) finalmente in un ruolo drammatico e serio, a dimostrazione che può uscire dal cliché che gli è stato confezionato in questi anni; Federica Rosellini (Anna) è forse la migliore di tutti, avendo assorbito al meglio il delicato compito che il regista le aveva affidato. Gianni Amelio dirige armoniosamente anche se il film è meno incisivo di quello che mi aspettavo, è quasi timido nell’affrontare la durezza del tema bellico, ma questa è evidentemente una scelta. E va accettata così, ma ha fatto decisamente di meglio in altre occasioni.
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