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Carl Mørck - 87 minuti per non morire (2013)


Carl Mørck - 87 minuti per non morire

(Kvinden i buret) Danimarca/Germania/Svezia/Norvegia 2013 thriller poliziesco 1h37'


Regia: Mikkel Nørgaard

Soggetto: Jussi Adler-Olsen (romanzo)

Sceneggiatura: Nikolaj Arcel

Fotografia: Eric Kress

Montaggio: Morten Egholm, Martin Schade

Musiche: Patrik Andrén, Uno Helmersson, Johan Söderqvist

Scenografia: Rasmus Thjellesen

Costumi: Stine Thaning


Nikolaj Lie Kaas: Carl Mørck

Fares Fares: Assad

Mikkel Boe Følsgaard: Uffe Lynggaard

Sonja Richter: Merete Lynggaard

Patricia Schumann: Søs Norup

Troels Lyby: Hardy Henningsen

Søren Pilmark: Marcus Jacobsen

Marijana Jankovic: Tereza


TRAMA: La strana coppia di poliziotti formata da Carl Mørck e Assad lavora al Dipartimento Q, un reparto che si occupa di casi ormai prossimi all'archiviazione. Coinvolti nella vicenda di Merete, una donna scomparsa cinque anni prima, Carl e Assad si ritrovano ben presto a viaggiare negli angoli più bui della Scandinavia per rintracciare un killer psicopatico. La verità che li attende sarà però ancora peggiore di quella che immaginavano.


Voto 7



È la pellicola che ha dato il via alla serie sulla coppia dei detectives Carl Mørck, in primis, e Assad, frutto dello scrittore danese Jussi Adler-Olsen (Copenaghen, 2 agosto 1950) che per le storie della ormai mitica Sezione Q ha pubblicati ben otto romanzi, da cui poi il cinema ha continuato a prendere spunti fino ad oggi per altri tre film. Infatti, sono seguiti The Absent One - Battuta di caccia (2014) sempre con la regia di Mikkel Nørgaard (recensione), A Conspiracy of Faith - Il messaggio nella bottiglia (2016) di Hans Petter Moland (recensione) e Paziente 64 - Il giallo dell'isola (2018) stavolta di Christoffer Boe (recensione). (Avete notato? Tutti titoli con sottotitoli!)

Questo primo film, tratto da Una donna in gabbia, è quello che ci introduce nell’ambiente del distretto di polizia e ci fa conoscere per la prima volta i personaggi che rimarranno fissi per tutta la serie, dando un po’ l’idea di un vero e proprio serial e in verità quel tocco caratteristico, quell’atmosfera e quelle regie ricordano quel tanto che basta per credere di guardare una serie come quelle che vanno tanto di moda sulle piattaforme streaming. È la prima occasione per capire il caratteraccio di Mørck, della disponibilità sempre pronta di quel ragazzone buono che è Assad, degli attriti sempre ruvidi con il capo della stazione di polizia e con il suo vice, ma soprattutto si ha modo di dedurre – elemento che nei film seguenti era un mistero non del tutto spiegato – il motivo per il quale il detective protagonista soffre di alcuni disturbi fisici e del suo umore sempre nero, la sua scontrosità, la sua espressione corrucciata. Carlo Mørck non si perdona l’irruzione nella casa di un ricercato con altri due colleghi che causò la morte di uno ed il ferimento gravissimo dell’altro, che è un suo caro amico (ebbene sì, aveva amici), che riporta lesioni perenni che lo hanno relegato sul letto per sempre.


La trama inizia infatti proprio con quella irruzione, dovuta anche al fatto che il detective si è mostrato come al solito impaziente e la sua perenne voglia di non temporeggiare e non aspettare quindi i rinforzi ha forzato l’azione fino a forse fallire l’intervento e la cattura dell’omicida. Un morto, un ferito grave, lui ferito ma meglio sopravvissuto, pur con conseguenze psicologiche che lo faranno sentire continuamente responsabile dell’accaduto. Da quel giorno è diventato un solitario e un uomo intrattabile, che ha dimenticato le buone maniere e il sorriso. Al suo rientro, il capo lo assegna al Dipartimento Q, un reparto che sa di punizione, in quanto si tratta di un ufficio sotterraneo in cui sono accatastati i numerosi casi praticamente irrisolti o risolti grossolanamente: il suo compito sarà quello, molto burocratico e poco investigativo, soprattutto da topo d’archivio, di catalogare i cosiddetti cold case, cioè casi raffreddati dal tempo, e archiviarli. Chiusi per sempre. Lui si ribella ma la decisione è presa, anche perché dai superiori è arrivato la perentoria disposizione di mettere finalmente ordine in quel polveroso archivio. Gli viene assegnato come collaboratore il buon diavolo di Assad, che già conosce il lavoro e che accoglie il collega con un sorriso, intuendo le difficoltà caratteriali e psicologiche che il poliziotto si trascina da qualche settimana, il tempo cioè della sua convalescenza. Non c’è ancora alcuna segretaria che li aiuti: la incontreremo infatti nel film successivo, la simpatica Rose, che si rivelerà di grande aiuto.


I battibecchi del poliziotto con il suo capo saranno continui e aspri, fino al ritiro del distintivo ai due investigatori da archivio, perché, come si verificherà di frequente, essi non resisteranno alla voglia di indagare sul primo caso che stanno studiando. Invece di archiviarlo, infatti, si mettono sulle tracce dei testimoni e scoprono evidenze chiarissime: come nell’indagine che riguardava una donna, Merete Lynggaard, dispersa cinque anni prima, apparentemente suicida quando si è gettata nelle acque gelide del mare da un traghetto su cui viaggiava con il fratello Uffe, portatore di handicap mentale. Un gesto inspiegabile dal momento che era una donna molto attiva e in carriera, senza alcuna predisposizione alla depressione o a gesti insani. Una donna che non avrebbe mai fatto un gesto del genere e poi, come osserva prontamente il sempre lucido Carl Mørck, una persona così intenzionata non porterebbe mai con sé un fratello in quelle condizioni su un’imbarcazione per cercare la morte. Le prove che cominciano a trovare li spingono vieppiù ad approfondire il caso interrogando la gente che aveva contatti e relazioni con la donna, risalendo, come fa ogni buon investigatore, fino ai tempi dell’adolescenza, sua e del fratello sfortunato. E dell’amico di collegio di Uffe, un tipo, a quanto sembra, strano e dal passato difficilissimo, in cui da orfano fu adottato da una famiglia in cui subì abusi. Quando il fatto si fa sempre più chiaro e dopo essere andati sino in Svezia, dove cioè portano le tracce seguite, creando un piccolo caso diplomatico, è inevitabile l’ennesima reazione del capitano, che non ha altre opzioni che punirli e sospenderli fino a nuovo ordine. Ovviamente i due non si fermano, facendo diventare la trama una corsa contro il tempo, perché in effetti, come percepivano, Merete è ancora viva e tenuta prigioniera per vendetta in una camera iperbarica nella campagna danese. dove il suo carnefice ha ormai deciso di eliminarla. Con un finale al cardiopalma, i due compagni poliziotti intuiscono che tutto dipende dal loro intervento.


Il regista Mikkel Nørgaard aveva probabilmente capito che dai racconti dello scrittore si potevano ricavare buonissimi thriller polizieschi, ottimamente architettati fra deduzione e azione, che sia l’atmosfera dei libri come quella della grigia campagna danese potevano essere degli ottimi terreni dove coltivare trame avvincenti come poi si è rivelato. Un altro ingrediente intelligentemente utilizzato è la sostanziale diversità dei due uomini protagonisti: Carl è quello su descritto e basta guardarlo per capire il caratteraccio che lo caratterizza, Assad è l’opposto: di evidenti origini arabe sia somatiche che mentali, oltre ad essere un buon musulmano che vediamo pregare negli attimi di sosta, è una persona fondamentalmente buona e generosa, sempre propenso ad proteggere il collega, sorridente e aperto agli altri. Fino ad arrivare a ringraziare la gente al posto dello scorbutico collega, fino a fargli da complice nelle piccole irregolarità fuori dal regolamento. È la classica coppia buddy-buddy come due rette divergenti, che però alla fine sanno di poter contare l’uno sull’altro. È la vera chiave di successo della serie, perché di gialli ne è piena la storia del cinema e prima o poi qualche trama simile si trova sempre. La novità è proprio nei due uomini, sempre solitari (è il destino degli eroi anche piccoli) senza mai pescarli in compagnia di una donna. A dir la verità Carl ogni tanto ci prova ma va sempre a finire buca, mentre invece Assad risulta sempre simpatico al genere femminile.


Il finale ci pare per forza aprire ad un seguito, alla pari dei romanzi scritti: Carl, che chiedeva inizialmente fondi e collaboratori per la sua sgradita mansione di archivista, accetta di buon grado, dopo la riconoscenza e la lode del capitano, di tornare nel magazzino con il suo braccio destro arabo, ma chiede e otterrà una donna per le pratiche cartacee e pretenderà anche che quel maledetto Dipartimento Q rimanga circoscritto a loro tre. Che è solitamente il numero perfetto. I casi abbandonati e raccolti nei faldoni sono tantissimi, sono quelli degli ultimi tre anni e quindi il lavoro non mancherà, dal momento che i tre non sono affatto disposti ad archiviarli: se son “freddi” li riscalderanno e li riapriranno per arrivare a conclusioni concrete.


Nikolaj Lie Kaas e Fares Fares sembrano subito perfetti: dopo averli visti in tutti i film non riesco ad immaginare nessuno al loro posto. Il primo ha proprio la faccia giusta per essere un personaggio difficile da trattare (ed infatti se l’è cavata bene anche nel Non desiderare la donna d'altri di Susanne Bier, rifatto negli USA con Brother, di Jim Sheridan) mentre il secondo esprime fiducia sin dal primo sguardo ed è sempre bravo nei thriller, genere in cui evidentemente gli riesce meglio.

Buon film.



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