Challengers
USA/Italia 2024 dramma 2h11’
Regia: Luca Guadagnino
Sceneggiatura: Justin Kuritzkes
Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom
Montaggio: Marco Costa
Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross
Scenografia: Merissa Lombardo
Costumi: J.W. Anderson
Zendaya: Tashi Duncan
Josh O’Connor: Patrick Zweig
Mike Faist: Art Donaldson
Darnell Appling: arbitro
Nada Despotovich: madre di Tashi
Naheem Garcia: padre di Tashi
Alex Bancila: Victor Grusu
TRAMA: Tashi, ex tennista diventata allenatrice, è riuscita a trasformare la carriera del marito Art da giocatore mediocre a fuoriclasse in grado di conquistare un torneo del grande slam. Ultimamente, però, Art non riesce più a vincere. Per iniettargli una dose di fiducia, la moglie lo convince a giocare un torneo minore. Il problema è che, a insaputa dei due, a quel torneo partecipa anche Patrick, un tempo grande promessa del tennis, nonché ex migliore amico di Art ed ex fidanzato di Tashi, che oggi tira a campare come può.
Voto 7,5
Quando il cinema si occupa di argomenti sportivi o della vita di un qualsiasi atleta i casi sono sempre due: o si celebra un episodio facendolo diventare un avvenimento epico e la persona un eroe, e quindi la trama è incentrata sul gesto atletico che resta nella memoria; oppure è solo un pretesto per una storia personale o sociale rivestendola come metafora della vita. Nella seconda ipotesi si tratta sempre di un dramma, che è quello che ha interessato essenzialmente questo lavoro di Luca Guadagnino. Regista che, pur non essendo appassionato di sport, e di tennis in particolare, ha accettato l’offerta della prestigiosa produttrice Amy Pascal (ex presidente della Columbia Pictures) riguardante un copione scritto da Justin Kuritzkes e ha voluto girare il film con un occhio forse diverso di come era partito il progetto. Lo ha usato, infatti, con l’idea di quanto il tennis fosse un pretesto, un’espressione figurata per raccontare qualcos’altro, un confronto di personalità che fosse anche una battaglia di supremazia e di confronto sensuale. Ed è stato anche particolare il modo di raccontare una storia apparentemente classica, secondo una progressione cronologica non lineare, andando avanti e indietro nel tempo, rendendo anche la messa in scena molto più interessante.
Il regista ha improntato il film con una narrazione ellittica, che mette anche a dura prova l’attenzione con continui e insistenti passaggi temporali che racchiudono il primo e l’ultimo impatto in un lungo lasso di tempo, ben 13 anni. Si inizia, difatti, con una finale, mentre si rimbalza immediatamente a quando compaiono i tre protagonisti nel 2006 ed esattamente quando i liceali e migliori amici d’infanzia Patrick Zweig (Josh O’Connor) e Art Donaldson (Mike Faist) vincono il titolo di doppio junior all’US Open. In seguito, incontrano Tashi Duncan (Zendaya), una giovane promessa del tennis, ed entrambi ne restano irrimediabilmente attratti. I tre si incontrano nella camera d’albergo e, al di là di qualche bacio condiviso e dopo che lei ha portato i due ragazzi a baciarsi appassionatamente, lei blocca bruscamente l’incontro ormai nel momento del sesso con una promessa che è anche una scommessa: chi dei due vincerà la finale l’uno contro l’altro potrà dare a Tashi il suo numero di telefono. La partita se la aggiudica Patrick, che in seguito confesserà all’altro che è stato a letto con la ragazza, facendogli un segnale concordato ben preciso con palla e racchetta durante un allenamento.
Ci siamo: il momento importante che dà il via alla competizione sia sportiva e ancor più amorosa, la sfida in realtà più importante tra i due, è scattato e da quel momento l’armonia fraterna tra Patrick e Art non esisterà più e saranno in continua e imperterrita guerra nel corso degli anni, pur dopo essersi persi ognuno per la sua strada e non ricevendo più notizie dell’altro. Cambiando notevolmente le cose per entrambi. Intanto, un infortunio gravissimo al ginocchio obbligherà ben presto Tashi ad abbandonare l’attività e a ripiegare sul lavoro di allenatrice proprio di Art, il quale così spiccherà il volo diventando uno dei miglior tennisti del circuito mondiale. Nel frattempo, colui che forse era più dotato ma non nella volontà, Patrick, si perderà, squattrinato fino a non potersi concedere neppure una camera d’albergo, per giunta nella bassa classifica ATP giocando solo tornei di scarsa importanza. Trasandato e allenato male, ma con la forza di riderci sempre su.
Si ritroveranno per puro caso in un torneo challengers, cioè uno di quelli secondari che servono per essere ammessi, se vinto, a quello ufficiale dei campioni, come uno slam, perché, nel frattempo, il talento di Art si è appannato e Tashi non riesce più a fargli risalire la china. Sfiduciato e senza grinta, nonostante le pressanti richieste della ragazza– che lo ha sposato e dato una figlia – che cerca di spronarlo a reagire all’apatia che lo ha investito, il rosso tennista ha perso il mordente e lei minaccia di mollarlo, nella vita e nel campo.
Ellitticamente, il film è iniziato durante la finale di quel challenger del 2019 e la narrazione viene interrotta più e più volte per raccontare ciò che è accaduto ai tre da quando si erano conosciuti, con un continuo rimbalzo temporale per riempire ogni buco con i tanti tasselli che Guadagnino semina per tutto il film. Il tennis, appunto, serve solo come pretesto e la sfida tra i due non è sostanzialmente quella sul campo di cemento, prima dell’Università di Stanford e poi di tutto il circuito, ma diventa un duello psicologico su chi riesce a conquistare il cuore della ragazza, la quale, da parte sua, si diverte sadicamente a tenere in soggezione i due maschi e illuderli e disilluderli di continuo, ad ogni occasione. È una sfida nervosa che si interrompe solo quando i due si allontanano e ritorna prepotente nella finale di quel challenger di New Rochelle a New York, dove ogni punto pare il decisivo sia per vincere l’incontro che per conquistare l’attenzione – anche sessuale – di Tashi. Finale che dura un’eternità per l’equilibrio tra i due e per i persistenti flashback, fino al momento culminante del tie-break del terzo e decisivo set. Va da sé che l’ultima sequenza è molto spettacolare e ribalta le aspettative. Perché, in fondo, sono il cameratismo e l’amicizia che prendono il sopravvento, sono i sentimenti che riavvicinano i due amici, che si sono odiati, pungolati, combattuti nella vita e sul piano agonistico. Il match point se lo giocano come non mai, volando e abbracciandosi in maniera incredibile. Come quell’incontro.
Non è un film che si possa definire, classicamente, del genere sportivo, tutt’altro. È solo, come detto, un alibi per parlare della rivalità di una coppia fortemente unita che una terza persona si stava divertendo, per egoismo, a “sfasciare”, un gioco pericoloso nell’ambito di un ménage a trois sempre sul filo del rasoio. Come un thriller mentale, un match nel mondo di uno sport che si gioca in due o in quattro, mai in tre. Ed invece Tashi rompe gli schemi e le regole, sempre con enorme impegno e senza mai preoccuparsi dei danni che poteva procurare. Facendo la spola tra Patrick e Art, faceva felice uno e scontentava l’altro, e viceversa, a turno. Un’altalena emotivamente forte per i maschi ma fredda per la protagonista. Il proprio tornaconto era quello di emergere: se non le è stato possibile in campo, ci prova fuori, solo per il proprio tornaconto, quasi come una vendetta verso la sorte che le ha frantumato i legamenti del ginocchio. Il challenge, la sfida, non è nel rettangolo di cemento, non è tra due braccia che stringono la racchetta divise dalla rete, ma è una triangolazione tra i due in campo e la donna seduta in prima fila sugli spalti. Entrambi, a seconda dell’andamento della partita, la guardano per mostrarsi e per carpire da quel volto enigmatico l’apprezzamento: ti è piaciuto il colpo? sono io il migliore? è con me che andrai a letto, ora? Il che, inevitabilmente, li aizza ancor più l’uno contro l’altro, come osservarsi in uno specchio che rimanda un’immagine distorta o fedele di se stessi. Dopo, chi vince, porta via la coppa o la donna? Lei non se ne preoccupa, lei vuole vincere senza scendere a rete. Come vincere il punto sull’errore dell’avversario. Errore gratuito, si chiama in linguaggio tecnico.
Sesso e colpi, baci e smash, carezze sensuali e ace. Il gesto sportivo come amplesso, la sensualità, già provocata sul bordo del letto dell’albergo al primo appuntamento a tre, usata come arma, come un colpo incrociato imprendibile. Una finale che dura un intero film, che si allunga per 13 anni tra andirivieni e motteggi, tra il sorriso cameratesco di Patrick e il silenzio amareggiato di Art: ad osservarli, vicina o lontana, domina l’ombra persistente di Tashi, che non gradisce imposizioni, che deve comandare il gioco come se stesse ancora alla battuta per un perenne serve & volley. Se uno dei due prova a imporle il ritmo o le scelte, reagisce come una tigre ruggente.
Per rendere tutto ciò vibrante serviva un regista abile a trasmettere agilità e tensione e Luca Guadagnino svolge un lavoro eccellente, dando ritmo e sostanza anche quando il film pare rallentare. Invece è solo una parvenza di pausa dettata da Tashi per irritare gli altri due, per indurli all’errore. Come una dura lotta tra potenziali capibranco. Il problema è che nessuno sa condurre le danze come lei e gli altri paiono soccombere in ogni situazione, tranne che nel gran finale. Che il regista sa sovreccitare con notevolissimi movimenti di macchina e soprattutto con riprese soggettive da capogiro, sia dei protagonisti che degli oggetti in campo: una volta siamo l’occhio della racchetta, un’altra addirittura quello della pallina, venendo colpiti e proiettati da un giocatore all’altro. Con un crescendo di tensione pari solo ad un thriller ansiogeno, alimentato da riprese dal basso, dall’alto, primissimi piani, giravolte e capovolgimenti. E poi sudore, smorfie, dolori, sorrisetti sarcastici. La t-shirt “I Told Ya”, lo split-screen. Virtuosismi da regia anche divertita.
Attrazione e repulsione, quindi, l’amore e il sesso con il loro doppione, due uomini ed una donna androgina di carattere e di fisico, bellissima e corrucciata con le labbra all’ingiù, sensuale e respingente, attraente e odiosa. Un trio (un triello) che regola i conti in una sola partita, come fosse un Il buono, il brutto, il cattivo con le racchette che sparano palline, una sfida tra di loro, se stessi e le proprie ambizioni. Il che porta a farsi alcune domande. Quale è il prezzo che si paga per le proprie ambizioni? In che modo si riesce a coltivarle e a ottenerle? Quanto si è realisti o illusi? Situazione e stato d’animo che portano a pensare che, se per poter ottenere quello che si crede di volere, si può decidere di compiere delle azioni che soffocano una parte di sé o di qualcun altro, perché, diciamolo, l’ambizione tante volte vuol dire solo opportunismo, l’uso degli altri.
La dimostrazione di questa tesi è la Tashi della bravissima Zendaya, personaggio di donna libera, forte e determinata, quasi prigioniera di se stessa e della sua ambizione. Il talento interpretativo dell’attrice ci comunica chiaramente i lati del suo difficile carattere, come la smania di autocontrollo e verso gli altri, come pure lo smarrimento finale nel rendersi conto che la situazione le stia sfuggendo di mano, che le “sue” due creature si stanno riprendendo la libertà e l’autonomia. È forse persino crudele nella freddezza che la domina, ma è evidente anche quanto possa essere fragile, motivo per cui si è costruita un’armatura che la difenda. Se osserviamo con attenzione il pubblico sugli spalti della finale, si nota che tutti i presenti seguono con lo sguardo e la testa la pallina (tic – tac – tic – tac) mentre lei, al centro della fila, guarda dritto al centro, pensierosa: sa che i due le stanno sfuggendo, lei è la perdente dell’incontro.
Lo straordinario Josh O’Connor interpreta Patrick, un giovanotto che è davvero innamorato di Tashi e ne viene attratto e la respinge in quanto è simile a lei, quanto a carattere non facile. La sua specialità è l’essere sempre giocoso e sorridente, che ama giocare con e contro l’amico per poi scherzare per i premi vinti e persi ma poi, quando arriva, lei diventa il trofeo più ambito da conquistare. Come e più duramente di una gara.
Al contrario di Art, del buon Mike Faist, che invece cerca qualcuno che lo domini probabilmente perché vive una forma di terrore del sé e della propria realtà, conscio della sua debolezza, insicurezza, tanto da sentirsi terrorizzato quando lei minaccia di abbandonarlo. Nel contempo, è affascinato dalla personalità della donna e le invidia la classe innata di tennista.
Luca Guadagnino gira benissimo un gran film, scegliendo con cura non solo il trio centrale del cast (davvero bravi) ma anche il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, già noto per film importanti e per la collaudata collaborazione in Chiamami col tuo nome, Suspiria ed il recente Queer; ottimo e determinante il montaggio di Marco Costa e notevolissime le musiche bellissime di Trent Reznor e Atticus Ross (candidati per questo ai Grammy), i quali danno uno straordinario contributo alle scene con un ritmo incessante, non invadente ma ben presente, come fossimo ad un rave party con tanto di scansione ripetitiva, ossessiva e martellante, molto adeguata al ritmo del film. A proposito del commento musicale, da notare che il regista sceglie di assegnare ai singoli personaggi una connotazione sonora come faceva Ennio Morricone, oltre all’utilizzo di brani celebri negli anni Ottanta (vedi Bruce Springsteen, Fine Young Cannibals e altri). Ottimo film, grande regia, tre attori splendidi, Zendaya è uno spettacolo a sé, Josh O’Connor il più bravo di tutti.
Qualche appunto tecnicistico, quale appassionato di tennis, devo farlo a proposito di alcuni movimenti o regole non pienamente rispettate (vedi le lunghe pause prima della battuta o durante il cambio campo, oppure gli scambi che vengono presentati sempre troppo veloci e violenti senza variazioni di colpi) ma sono non solo perdonabili ma anche giustificati dalla forte rivalità messa in campo, come se i due volessero colpirsi a vicenda per distruggere l’avversario. Sicuramente è preponderante l’utilizzo di effetti speciali perché gli attori non potevano essere così bravi e perfetti nello stile e nella tecnica, che comunque hanno dovuto imparare in breve tempo (per esempio, si racconta che Zendaya ha passato tre mesi a prepararsi con l’allenatore ed ex tennista Brad Gilbert, e senz’altro non solo lei). Innegabile poi l’accostamento tra la zazzera riccioluta del rosso Mike Faist e quella del campione Sinner, chissà se cercata o casuale. Come è innegabile anche che il regista abbia voluto rendere più appassionante e tesa l’atmosfera della partita decisiva con riprese in primi piani o qualche ralenti. Resta però spettacolare l’idea della soggettiva della palla.
Buonissimo cinema, ottimi attori.
“Non è un caso, penso, che il tennis usi il linguaggio della vita. Vantaggio, servizio, errore, break, love (lo zero del punteggio), gli elementi basilari del tennis sono quelli dell’esistenza quotidiana, perché ogni match è una vita in miniatura. Perfino la struttura del tennis, il modo in cui i pezzi entrano uno nell’altro come in una matrioska, rispecchia la struttura delle nostre giornate. I punti diventano game che diventano set che diventano tornei, ed è tutto collegato così strettamente che ogni punto può segnare una svolta. Mi ricorda il modo in cui i secondi diventano minuti che diventano ore, e ogni ora può essere la più bella della nostra vita. O la più buia. Dipende da noi.” (Andre Agassi)
Le parole del grande campione degli anni ‘90, soprannominato il Kid di Las Vegas o Flipper, per il suo stile di gioco rapido, quindi quello mostrato nel film, ne rispecchiano moltissimo il contenuto.
Comments