Civil War
USA/UK 2024 azione 1h49’
Regia: Alex Garland
Sceneggiatura: Alex Garland
Fotografia: Rob Hardy
Montaggio: Jake Roberts
Musiche: Geoff Barrow, Ben Salisbury
Scenografia: Caty Maxey
Costumi: Meghan Kasperlik
Kirsten Dunst: Lee Smith
Wagner Moura: Joel
Cailee Spaeny: Jessie Cullen
Stephen McKinley Henderson: Sammy
Jesse Plemons: soldato
Nick Offerman: Presidente degli Stati Uniti
Sonoya Mizuno: Anya
Nelson Lee: Tony
TRAMA: In un’America sull’orlo del collasso per una guerra civile, un gruppo di reporter intraprende un viaggio in condizioni estreme, mettendo a rischio le proprie vite per raccontare la verità.
Voto 7,5
Sempre abile a scrivere o/e dirigere thriller fantascientifici molto vicini all’horror (a volte meno, a volte più), Alex Garland ambienta questa violenta storia in un tempo imprecisato, per molti siti in un prossimo futuro, per lo scrivente, perché no, nel presente. Al massimo nel futuro vicino perché quella che si osserva è l’America di oggi, presentata dilaniata da una furiosa guerra civile inizialmente tra due schieramenti: gli stati fedeli al Presidente degli Stati Uniti e gli stati secessionisti, tra cui Texas e California, alleati nelle cosiddette Western Forces, New People’s Army nel Nord Ovest e l’Alleanza della Florida. Però nessuno è certo di questa chiara separazione delle coalizioni, perché il timore di bande armate sbandate che vagano per il territorio è alto. Quando si incrociano soldati non è facilmente distinguibile a chi appartengono e perché sparano. Spesso tocca chiedere loro che intenzioni hanno e contro chi combattono. Non è sicuro che sia il classico futuro distopico di tanti film, potrebbe essere semplicemente un presente distopico, è l’oggi spaventoso causato dalla spaccatura, mai ben precisata nelle cause, nata da fazioni che si combattono senza quartiere. L’unica cosa certa è che i nemici dello status quo avanzano decisi verso la capitale per eliminare senza tentennamenti il Capo dello Stato.
La terra della libertà e delle opportunità, si è trasfigurata in un deserto di dolore e violenza. La terra del sogno americano non esiste più (è mai esistita?). Gli Stati Uniti sono un Paese diviso in due, una nazione al collasso, un luogo che rappresenta un enorme campo di battaglia. Da quando esiste questa situazione non è dato di sapere, ma di sicuro la nostalgia per la vita felice e quieta viene richiamata non poche volte dai personaggi, come ricordi recenti ma ormai persi. Tutti sono terrorizzati e tanti si sono rintanati in isolate case di campagna o in città non ancora toccate dalla rivolta per ignorare la brutta realtà sperando di restarne fuori. Addirittura, durante il loro lungo viaggio, i protagonisti della storia attraversano una cittadina che sta continuando la solita pacifica vita di sempre facendo solo finta di nulla (“Cerchiamo di restarne fuori” dice la commessa di un negozio di abbigliamento) e solo un movimento di macchina da presa mostra in alto, su una terrazza, un paio di cecchini armati di mitra che sorvegliano la strada. La quiete è solo una parvenza, creata ad arte per fingere che niente stia davvero accadendo.
Che io ricordi, è un caso unico nella cinematografia la realizzazione di una storia del genere e forse solo un cineasta britannico poteva raccontarla con tanta efficacia per mostrare una tale catastrofe collettiva. D’altronde cosa c’è di più incivile di una guerra civile? Riferimenti alla campagna elettorale che si è appena conclusa proprio nelle ore in cui scrivo, con la più violenta collezione di comizi di Trump e Harris? Può essere. Di sicuro non si riesce a far a meno di pensarci, con le promesse della destra americana di scendere in strada nel caso di sconfitta del tycoon, come già successo nel 2020. Anche la menzione nel film di una località già nota per fattacci razzisti e sovranisti (Charlottesville) non pare lì per puro caso.
Per sviluppare la trama ed illustrare la disastrosa situazione che va evolvendo verso la conquista della capitale da parte delle numerose truppe infedeli, Alex Garland segue un gruppo di reporter che da New York parte alla volta di Washington D.C. perché una delle più famose fotografe di guerra al mondo, Lee Smith (Kirsten Dunst) si è messa in mente di viaggiare, nonostante i pericolosissimi rischi, alla volta della capitale per fotografare il Presidente prima che sia troppo tardi, accompagnata dal giornalista con cui ha vissuto tante avventure, Joel (Wagner Moura) che lo vuole intervistare.
Scopriamo, dai loro dialoghi, che il Capo dello Stato aveva già sciolto l’FBI e fatto bombardare con raid aerei i civili. Una catastrofe. Il giorno precedente a quello fissato per la partenza, Lee salva miracolosamente la giovanissima Jessie (Cailee Spaeny) da un attentato suicida nei tumulti tra le strade di New York. Occasione che le fa conoscere con l’enorme piacere da parte di quest’ultima, aspirante fotografa di guerra ed entusiasta fan della celebre collega, ragazza che si accoda al viaggio benché non gradita da Lee che non vuole né responsabilità nell’ardua impresa né intralci ai suoi progetti. Un viaggio in condizioni estreme, attraverso terre desolate e città distrutte, mettendo a rischio le proprie vite, in cui basta un militare sovraeccitato e parte una raffica di colpi, e se incontri un nazionalista (uno di loro, tra i più efferati è un soldato interpretato da Jesse Plemons, marito e moglie di fronte con un fucile d’assalto in mezzo) non si capisce da quale parte stia e se ti lascia vivo.
“Se inizi a farti questo tipo di domande, non riesci più a smettere [rivolta alla giovane aspirante collega rimasta sconcertata]. Noi non chiediamo. Riportiamo i fatti, così altri faranno domande. Vuoi diventare giornalista? Il lavoro è questo.” Lee è una professionista che non resta mai scossa, mai, neanche davanti alle scene più cruente e violente. È cinica, sicuramente, ma non in senso negativo e cattivo: è il suo lavoro, che va fatto così. E sa che deve predisporre Jessie ad aspettarsi di tutto quando arriveranno, è meglio che si prepari mentalmente.: “Se mi sparassero, fotograferesti quel momento?” Lee: “Tu cosa credi?”
Il viaggio si svolge purtroppo come previsto, anche peggio, molto peggio. Ci saranno morti, minacce, ferimenti, cecchini nascosti, sbandati senza leggi. Ma si va avanti, fino alla Casa Bianca nella battaglia decisiva, dove non tutti i protagonisti usciranno vivi. Lì, la tragedia patriottica si consuma e giunge al gran finale, lì il Presidente ha già rivolto il suo discorso drammatico alla nazione con la prosopopea e l’arroganza che aveva preparato e provato (pare una copia sbiadita di Trump): il tempo è finito, dopo un calvario che era diventato un mix tra Gangs of New York e I guerrieri della notte, tra il dramma e l’horror che solo la guerra sa far scaturire. E nel mentre, Lee, imitata dalla sua allieva, scattano e scattano con le loro macchine fotografiche scene da incubo, corpi dilaniati, uomini bruciati vivi, incendi, esplosioni, pozzanghere di sangue, parcheggi di centri commerciali come campi di battaglia, autostrade come cimiteri di auto, palazzi solo apparentemente vuoti ed invece trappole mortali, soldati torturati a una stazione di rifornimento, le fosse comuni colme di vittime trucidate.
Ogni scatto di Lee e Jessie è una testimonianza orrorifica, un grido d’allarme per l’umanità, è l’ennesima dimostrazione della stupidità tragica della guerra come inutile metodo per risolvere ogni tipo di rivalità razziale, politica, nazionalista, sociale. Ci si può assuefare a osservare queste scene? Anche un giornalista. esperto e abituato, può restare impassibile a ciò che vede? Impossibile. Joel urla la sua rabbia, la sua impotenza e il suo orrore, fino al cedimento psicologico. Intanto, mentre Jessie è sempre più eccitata e non si ferma davanti ad alcun ostacolo pericoloso e continua a fotografare come in trance senza accorgersi della vita che rischia, salvata anche nell’ultima sequenza da Lee, questa subisce il contraccolpo peggiore ed entra in uno stato comatoso insensibile, non più capace di restare lucida per poter scattare le sue famose immagini che girano il mondo intero. In preda ad una sindrome post-traumatica, pare un automa non più in grado di reagire. Ha soltanto un attimo di lucidità per salvare la giovane collega nell’ultimo corridoio della White House, prima dell’esecuzione in diretta del presidente.
Ma siamo sicuri che Alex Garland abbia voluto raccontarci i motivi insani per cui può scoppiare la guerra civile in un Paese evoluto e moderno, oppure il suo vero intento era portarci “dentro” e vivere alcuni giorni nel mezzo delle truppe e dimostrarci che nemmeno loro avevano chiaramente idea di ciò che stavano facendo? Perché motivi esplicati non ce ne sono, per cui lo scopo del regista e sceneggiatore è quello di turbarci portandoci in mezzo alla furiosa mischia. Perché solo mostrando il peggio si riesce a parlare efficacemente della necessità di vivere in pace. Tant’è che gli si potrebbe anche contestare uno sviluppo e una struttura piuttosto basilari e semplici del suo film e di contare più su una sorta di terrorismo psicologico che su artifizi tecnici o registici e narrativi, ma il risultato è di quelli che non lasciano indifferenti. Un esempio? In questo frangente di XXI secolo in cui le destre sovraniste e suprematiste si stanno imponendo un po’ ovunque, fa impressione la scena in cui il soldato Jesse Plemons chiede al reporter dai caratteri somatici orientali “What kind of American are you?” e, all’espressione perplessa di questo, non esita a centrarlo con un colpo secco di fucile.
In ultima analisi, credo che il film non debba servire a grandi scopi retorici o a una morale da trarre: la bravura di Alex Garland è nel saper girare film che lasciano il segno, che incantano per le inquadrature e i movimenti di macchina, per la direzione degli attori. Fosse anche fine a se tesso, un suo film non è mai banale e se ne resta impressionati. Oltre alla sua innata qualità di scegliere bene gli attori. Kirsten Dunst ha ormai raggiunto una tale maturità interpretativa che se ne resta incantati: qui è trasandata (e non può essere diversamente nel contesto descritto), senza trucco, persino ingrassata, sfatta, distrutta psicologicamente perché stanca ed è la vera assoluta protagonista. Tutto gira intorno a lei, anche nel concitato finale inquadrata più volte nel progressivo ed inaspettato inebetire del volto. Averla vista recitare da ragazzina (non tanto in Intervista col vampiro quanto nell’esplosione di Il giardino delle vergini suicide) ed osservarla oggi salta subito evidente quanto sia maturata come grande attrice.
Wagner Moura è l’attore brasiliano che non mi aspettavo così bravo. Lui, dopo essere diventato famoso per il doppio Tropa de Elite, aveva sempre avuto ruoli secondari ma il suo Joel è recitato molto bene e merita apprezzamento. Stephen McKinley Henderson è l’esperto attore che ben conosciamo e qui si ripete ai suoi livelli, il consueto personaggio anziano e saggio. La vera sorpresa, se serviva ancora, è davvero Cailee Spaeny, la quale dopo alcuni ruoli che le son serviti ad entrare nel giro importante, ha avuto la grande occasione con Priscilla e non l’ha sprecata e ora ha avuto in mano la chiave per la definitiva affermazione: la sua Jessie è un bellissimo personaggio e lei è stata superlativa. Molto carina, espressiva, dai tempi e gesti giusti, ha dato la dimostrazione limpida di una carriera appena iniziata in cui vedremo grandi cose. Tanto Lee si spegneva traumatizzata davanti alla tragedia, ancor più la sua Jessie diventava un robot insensibile e necessariamente freddo, attratta solo dall’attimo da cogliere con il clic sul pulsante della sua Nikon. Momenti sconcertanti e importanti ottimamente interpretati dalle due donne e filmati con maestria dal regista.
A parte le tante considerazioni appena esposte, è necessario aggiungere che il film non è di parte, è piuttosto un resoconto impressionante di una guerra seguito come un reportage da prima linea, ma che può portare il pubblico a schierarsi e a provare sentimenti di parte, perché emotivamente coinvolto. E ciò è solo merito di Alex Garland. Il quale sa alzare continuamente la tensione anche in assenza di una valida contrapposizione ideologica tra le parti in una battaglia che non fa prigionieri. Si ammazzano e basta, come spiega quel cecchino steso sul terreno con il fucile di precisione puntato verso una grande villa di campagna da dove spara un suo simile senza un vero perché: “Qualcuno ci vuole uccidere e noi vogliamo uccidere loro”. Come si fa a spiegare logicamente una situazione come questa? Comunque, è l’idea di un cineasta londinese sulla terra d’America nell’anno delle elezioni più caotiche e scorrette di sempre. Forse persino inquietanti, come il film. Che mi è piaciuto, nonostante non pochi lo abbiano giudicati mediocre (ci sta, se non piace) e irrealistico. Non capisco: ma perché il distopico è realistico? Oggi no, però ci potremmo arrivare. Speriamo di no.
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