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Dieci minuti (2024)

Dieci minuti

Italia 2024 dramma 1h42’

 

Regia: Maria Sole Tognazzi

Soggetto: Chiara Gamberale (romanzo “Per 10 minuti”)

Sceneggiatura: Francesca Archibugi, Maria Sole Tognazzi

Fotografia: Luigi Martinucci

Montaggio: Chiara Griziotti

Musiche: Andrea Farri

Scenografia: Giada Calabria

Costumi: Rossano Marchi

 

Barbara Ronchi: Bianca

Fotinì Peluso: Jasmine

Margherita Buy: dottoressa Brabanti

Alessandro Tedeschi: Niccolò

Anna Ferruzzo: madre Bianca

Marcello Mazzarella: padre Bianca

Mattia Garaci: Lorenzo

Barbara Chichiarelli: Gloria

Matteo Cecchi: Zulli

Alessia Spinelli: Marisa

 

TRAMA: Una donna da sempre a suo agio nella sua fragilità è costretta dalla vita a fare i conti con sé, la sua storia, i suoi legami, i suoi fallimenti. È la fine del rapporto di sempre col suo compagno ad innescare la crisi e sarà la terapia che le propone la psichiatra a indicarle la faticosa strada per la rinascita: fare per dieci minuti ogni settimana qualcosa che non ha mai provato prima.

 

Voto 6



Una storia di rinascita al femminile (ma non solo) che vede assoluta protagonista Bianca (Barbara Ronchi), una donna in forte crisi anche per l’abbandono del marito Niccolò (Alessandro Tedeschi) che l’ha gettata in un vortice di depressione. Dopo aver tentato il suicidio, la donna viene presa in cura dalla psicologa Brabanti (Margherita Buy), che le affida una terapia del tutto particolare, strana, che pare un gioco assurdo e inutile alla paziente, molto scettica sia di andare dalla dottoressa che di seguire le indicazioni: impiegare dieci minuti alla settimana a fare qualcosa di assolutamente nuovo e insolito per lei. Un approccio che piano piano si rivelerà invece rivoluzionario, capace di infrangere le incrostazioni personali della donna, aprendola a nuovi incontri, tra cui quello speciale con una sorellastra minore Jasmine (Fotinì Peluso) di cui il padre non le aveva mai parlato e che quindi non sapeva di avere. Grazie alla terapia di quei minuti, quel poco tempo che pareva sprecato, pur nella sua assoluta inazione, Bianca troverà la forza di rimettersi in gioco e ricominciare a vivere.



Lo si nota immediatamente come stia vivendo male la sua vita: la prima sequenza è un pranzo tra artisti circensi in cui lei, redattrice di un magazine, deve osservare e ascoltare gli artisti per trarne un piccolo reportage per la rivista: il suo viso indica però assenza, inadeguatezza, ascolto distratto e estraneità a quello che vede. Tant’è che va via delusa e scrive un articolo così di malavoglia che la telefonata del suo capo rivela non solo che è stato cestinato ma che, dovendo operare un rimaneggiamento del personale (forse solo un pretesto), è stato deciso dai superiori il suo licenziamento, scaraventandola ancora di più nella sempre più profonda depressione. È per questo che poi la troviamo seduta nello studio di una psicologa della ASL, la cui sedia sembra sgangherata e mai riparata come il Servizio Sanitario del nostro Paese. Donna, questa dottoressa Brabanti, alquanto scostante, nervosa, poco gentile, che urla nel corridoio dell’ospedale per rimproverare aspramente una caposala a suo giudizio inadatta.



Bianca è stritolata tra i suoi fallimenti, l’abbandono da parte del marito Niccolò (improvviso solo per lei, che non si era mai accorta del distacco creatosi e non ricucibile) e l’incapacità di affrontare la vita come le altre persone. Una situazione, in verità, non rara tra le persone, e in cui lei si è lasciata sprofondare senza la minima reazione positiva. Tra le quasi comiche esperienze vissute nei dieci minuti trascorsi a fare cose strambe (partecipare al funerale di una sconosciuta, fare sesso occasionale con una vecchia fiamma, deludente, e così via) incappa in un gesto che si rivela un furto e con i carabinieri alla porta. È in questo momento che, con il soccorso della irrequieta ma sincera amica rivelatasi sorellastra sconosciuta, la regista ci regala finalmente un decisivo e chiarificatore flashback: ora sappiamo cosa era veramente accaduta nella vita di Bianca. Saltano fuori allora i genitori siciliani da cui era totalmente distaccata, i problemi del marito, l’efficacia della strana terapia, chiarimenti, il carattere impetuoso e simpatico di Jasmine che contribuisce non poco alla risalita psicologica. Alla visione differente che le dona la forza di reagire. E magari riprovare a realizzare il sogno di sempre: diventare una scrittrice.



È un film che stenta a decollare e quando lo fa non è che il volo sia bello come quello di una rondine libera e felice della primavera. È piuttosto convenzionale con i suoi pianti, le liti, i crolli che si vedono puntualmente nella esistenza delle persone che si trovano in quelle situazioni e la scrittura non inventa nulla di nuovo o di notevole, ma prendendosi delle libertà rispetto al romanzo di Chiara Gamberale (libro che non conosco, chiarisco) si inventa (e fa bene) il personaggio di Jasmine, figura femminile più forte e più agile con gli uomini senza farsi patemi, che si prende buona parte della scena in diversi momenti. Sicuramente il film prende quota una volta riempito il buco narrativo colmato con il lungo flashback chiarificatore, e dopo il film pare più sostanzioso, facendo appassionare di più, senza però mai eccellere. Un altro passo narrativo importante è rappresentato dalla spiegazione del comportamento del marito Niccolò, che è sì un discreto maschilista che chiedeva maggior peso nella vita coniugale, ma che ha buoni motivi per essere compatito, per via di un problema serio di salute. Inoltre, la sceneggiatura a quattro mani ci fa planare verso un finale riconciliatorio con un gradito ritorno in Sicilia, dove si deve ripacificare con una madre (Anna Ferruzzo) con cui la protagonista non ha mai avuto un rapporto idilliaco.



I famosi dieci minuti son serviti? Beh, forse, anzi in riva al lago la psicologa tira delle interessanti somme sia della terapia che del rapporto dottoressa-paziente, svelandosi molto più affabile di quanto pareva e aprendosi amichevolmente. Maria Sole Tognazzi racconta senza fretta, senza forzature, senza artifici narrativi – se non, qua e là, con qualche sprazzo di dialoghi mediocri – il gioco della scomposizione temporale di qualcuno dei fatti, alla ricerca di risposte a domande che prima o poi tutti ci facciamo o vediamo porci, a volte con dolore, dalle persone che ci vivono accanto. Perché – lo sappiamo - a volte basta poco per ricominciare. Anche nel caso di quelle donne che si ritrovano inermi, incapaci di guardare oltre un rapporto coniugale in cui si sono fossilizzate, a prescindere di chi sia stata la colpa. Spesso di entrambi. Ma al di là della facile considerazione retorica e tradizionale, il caso trattato dal romanzo e dal film è serio e tale va trattato, ed è proprio questo che ha provato a fare, diciamo pure in maniera sufficiente, la nostra regista. Se poi il titolo sia così centrale non è detto, perché dà l’impressione che sia solo un pretesto per esporre un ritratto, quello di una donna a pezzi, che è senz’altro scritto e preparato bene ma dai toni incerti, sfiorando anche momenti ironici. È forse il caso di usare quel termine anglosassone che da solo esprime la scarsa importanza di un elemento di una sceneggiatura che vorrebbe essere preponderante e che invece è semplicemente un MacGuffin.

[È necessario specificare il significato? MacGuffin (o anche McGuffin) è un espediente narrativo utilizzato in opere di finzione, dove solitamente si tratta di un oggetto o un evento che motiva le azioni dei personaggi ma ha scarso significato per la trama complessiva. Il termine fu coniato da Alfred Hitchcock e rappresenta un dispositivo cruciale per la progressione della storia, ma che non riveste importanza reale per lo spettatore.]. Ed infatti di quei 10 minuti si parla all’inizio e vengono ripescati dalla psicologa per pianificare l’organizzazione dei parenti al fine di aiutare la protagonista all’indomani del tentativo di suicidio. Pare, comunque, che oggi (non so se sia vero o no) sono diventati per davvero una modalità ufficiale nell’ambito terapeutico.



Dare giudizi positivi su Barbara Ronchi è la cosa più facile di questi tempi: sempre brava, attenta e competente, precisa, che ha saputo capire bene il suo personaggio, ammettendo, perfino, che “È stato strano perché ti senti guardata da una persona che ti conosce molto bene e non puoi fingere più di tanto. Ma in questo caso non fingevamo: le cose dette da una parte ci risuonavano nella nostra vita. La storia di Bianca è anche la mia storia, il suo percorso l’ho affrontato anche io. Le ho voluto bene come una sorella, capivo che non c’era dolo in quello che faceva.” Ammetto che non mi è piaciuta molto quando si è mostrata troppo remissiva, perché, più che in sottrazione, mi è sembrata sottotono, con una dizione così bassa che si fa fatica a percepire alcune parole (soprattutto quelle finali quando si recita in calando – ah, i tecnici del suono!), ciononostante è un’attrice ormai di primissimo livello, capace di dare il giusto risalto ai suoi personaggi. Sempre davvero brava. Piuttosto, è la valente Fotinì Peluso che dà spettacolo: vivace, forte di carattere, la sua Jasmine è un ruolo entusiasmante, simpaticissimo, travolgente, l’unico tocco da commedia brillante che anima l’intero film. E se in alcune scene prende il sopravvento è solo merito di questa giovane attrice. Complimenti. Mentre Margherita Buy fa la Margherita Buy, ancora una volta, come se non uscisse mai dal suo cliché ben conosciuto, senza nulla togliere alla bravura e alla facilità di interpretazione, data la sua naturale predisposizione a questi ruoli.



La regia di Maria Sole Tognazzi ha suscitato in alcuni critici entusiasmo, che a mio parere è fuori luogo, altrettanto dicasi per la sceneggiatura scritta assieme a Francesca Archibugi, due donne che comunque danno lustro al cinema femminile italiano. E ci risiamo: chi meglio di due donne potevano descrivere in maniera soddisfacente i travagli di una donna a pezzi?



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