Dogtooth
(Kynodontas) Grecia 2009 dramma 1h37’
Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura: Efthymis Filippou, Yorgos Lanthimos
Fotografia: Thimios Bakatakis
Montaggio: Yorgos Mavropsaridis
Musiche: Grégoire Hetzel
Scenografia: Elli Papageorgakopoulou
Costumi: Elli Papageorgakopoulou
Christos Stergioglou: padre
Michele Valley: madre
Angeliki Papoulia: figlia maggiore
Mary Tsoni: figlia minore
Hristos Passalis: figlio
Anna Kalaitzidou: Christina
TRAMA: Nella periferia di una città vive una famiglia con tre figli che non hanno mai oltrepassato i confini del giardino di casa, in pieno isolamento, seguiti solo dai loro genitori e in totale assenza di contatti con il mondo esterno. La sola persona autorizzata a penetrare in questo luogo segregato è Christina, una dipendente del padre, che assolve al compito di soddisfare i primi urgenti bisogni sessuali del figlio e che stringe molta amicizia con la figlia maggiore. Un giorno Christina porta con sé un regalo per le: una fascia per capelli con alcuni brillantini. E si aspetta in cambio qualcosa.
Voto 7,5
Gli inglesi, dopo l’apparizione dei film di Yorgos Lanthimos e Athina Rachel Tsangari, l’hanno chiamata “greek weird wave”, la strana onda greca. Era il periodo in cui la crisi finanziaria oltremodo feroce nella nazione ellenica aveva tolto ogni speranza ai capitali necessari per girare un film e fu allora che il regista prese la decisione di trasferirsi in Inghilterra per realizzare il suo cinema così innovativo. Fu così che arrivò tanto per cominciare il sorprendente The Lobster (recensione) in cui poté addirittura usufruire per la prima volta della presenza di star internazionali nel cast, dando inizio alle sue storie tinte di romanticismo bizzarro bagnate nel sarcasmo. I segnali dati prima da questo film e poi da Alps erano forti e personali, molto interessanti. Inoltre, con una certa sorpresa e con orgoglio nazionale, il film fu candidato agli Oscar 2011 battuto da In un mondo migliore di Susanne Bier, superando perfino il mio amatissimo La donna che canta di Denis Villeneuve (ma come si può?).
“Le parole nuove che impareremo oggi sono le seguenti: mare, autostrada, escursione e carabina Mare. Il mare è una poltrona di pelle. Per esempio, siediti sul mare e chiacchiera un po’ con me…”
Per togliere immediatamente dall’imbarazzo di dover sforzarci e capire in che tipo di ambientazione siamo, l’incipit è del tutto chiarificatore. L’inquadratura anonima ma significativa è sovrastata da una voce che si espande da un mangianastri e recita quelle frasi. È una voce di madre che quindi sta impartendo una specie di lezione ai figli, chiaramente falsificando il reale significato dei termini elencati. Li istruisce sì, ma seguendo tracce misteriose, sicuramente per poter imporre limiti al loro mondo, alla loro possibilità di capire la vita. Tanto che “autostrada” e “escursione” hanno altri significati come per essere dissociate dal concetto di fuga, di allontanamento, parole che non vanno da nessuna parte, in pratica; tipo “carabina”, che non è un’arma, ma un uccello bianco. In seguito scopriremo per esempio che zombie è il fiorellino giallo. Osserveremo poi che in casa non esiste (in realtà nascosto) alcun apparecchio telefonico, perché “telefono” è la saliera. E la “fica” non è l’organo sessuale femminile, detto con voluta trivialità ma anche schiettezza, perché è semplicemente, per loro, una fonte di luminosità, come un lampadario. Sic!
Dogtooth (canino, come dente), ovvero il teatro dell’assurdo, il cinema che forse avrebbero gradito Samuel Beckett e Eugène Ionesco. Mi attendevo qualcosa di provocatorio e disturbante ma la realtà è andata oltre, perché tutto mi sarei aspettato tranne che una casa, una bella villa in verità, con tanto di enorme piscina e un grande prato, si riveli una prigione, anzi un campo di concentramento a gestione assolutamente patriarcale. Un padre che decide tutto e porta il ritmo della vita familiare, una moglie che lo asseconda totalmente, due figlie e un figlio. Nomi? Servivano all’operazione dell’enigmatico Yorgos Lanthimos? Assolutamente no, quindi nessuno. C’è solo un altro personaggio che compare, poi basta. C’è infatti Christina, l’unica col nome di battesimo, che fa parte della security nell’azienda del papà imprenditore, che egli porta periodicamente in casa per i bisogni sessuali del maschio. Il motivo è semplice: nessuno, tranne il capofamiglia (un attore che sembra essere stato pescato tra le comparse di Pasolini) è mai uscito da quella casa. Fuori è solo pericolo, fuori da questa villa lontana da ogni forma di vita umana è meglio non mettere piede ed è per questo che l’educazione avviene completamente all’interno del muro di cinta della villa. “Se restate all’interno siete sicuri, siete protetti.” Il gatto? È un pericolosissimo animale che quando attacca l’uomo può ucciderlo ferocemente, motivo per il quale quando il giovanotto di famiglia incrocia nell’ampio prato un piccolo esemplare di qualche mese lo attacca furiosamente e lo strazia mediante un paio di grandi cesoie, gesto colto con grande ammirazione da parte delle sorelle per il grande coraggio mostrato. Ed è per questo che il padre sovrano insegna agli altri familiari ad abbaiare e comportarsi come cani, notoriamente nemici giurati dei gatti (senza aver mai sicuramente visto un cane in vita loro). Il televisore è quasi sempre spento e i passatempi sono giochi assurdi di resistenza, mnemonici, indovinelli, vecchi vinili, per esempio, di Frank Sinatra, che a detta dell’uomo è suo nonno: la sua Fly to the Moon viene tradotta con frasi banali e semplici, lontane dal vero testo di Bart Howard. Il gioco più eccitante, fatto di nascosto, è leccare una parte del corpo, come un cane. Appunto. Ma all’interno della casa questo “gioco”, che viene visto come una sorta di diversivo innocente e poco erotico, lo aveva introdotto l’estranea Christina con ben altri scopi. Tutto scorre da sempre così, fin quando succede un evento dopo l’introduzione imprevista di un oggetto da parte di quella estranea.
La sensazione, in un’atmosfera che pare sempre sospesa, è che qualcosa di terribile possa succedere dal primo all’ultimo minuto, e l’attesa è più tesa degli avvenimenti stessi. È un’(at)tesa spasmodica. Anche quando diventa necessario l’incesto prima impensabile. Yorgos il greco non ci risparmia nulla, anche i nudi integrali e il sesso: tutto serve allo scopo che si era prefissato. Il capofamiglia lo aveva detto chiaramente: “Quando un bambino è pronto a lasciare la sua casa?” Risponde una figlia: “Quando il canino destro (o sinistro) cade.” Perché? “Solo allora l’organismo è pronto ad affrontare tutti i pericoli che ci sono fuori.” Quindi, canino che cade, evasione possibile? Il concetto del dente canino che viene via esprime perciò la fuga per la libertà e quindi la conoscenza. Come non pensare a The Village di M. Night Shyamalan? Agli abitanti del villaggio che, attorniati dal bosco denso di mostri e pericoli, non si permettono mai di uscire dal confine prestabilito dai saggi? È in fondo quello che domina in tante trame, il metodico sistema di far spaventare chi non vuoi che abbia libertà di decidere, il possesso mediante l’ignoranza. La cultura nascosta, artefatta e adattata per conservare il potere.
Ero interdetto all’inizio, sono uscito dalla sala interdetto, non sapevo cosa pensare. Il film va sedimentato, poi accettato o rifiutato. Ma il regista è questo: dopo l’interessante e più morbido Alps (2011), ha affinato la sua cifra stilistica nel 2015 con l’aragosta di The Lobster, crudelizzata con il magnifico Il sacrificio del cervo sacro (2017) (recensione) e ha trionfato con La favorita (2018) (recensione). Il suo cinema segue le tracce lasciate dal “canino”, con un unico tragitto, quello suo, quello di un regista unico, il maggior esponente dell’onda greca, che ha ormai un’arte diversa dagli altri, molto personale e riconoscibile. Il suo è un cinema disturbante e toccante, che lascia sempre il segno, non passa indifferente. Semplicemente lo adoro. Yorgos Lanthimos ha molto coraggio e tanto talento: prendere o lasciare.
Riconoscimenti
2011 - Premio Oscar
Candidatura per il miglior film straniero
2009 - Festival di Cannes
Miglior film nella categoria “Un Certain Regard”
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