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Dolor y gloria (2019)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 22 mag 2019
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 5 ott 2022


Dolor y gloria

Spagna 2019, drammatico, 1h53'


Regia: Pedro Almodóvar

Sceneggiatura: Pedro Almodóvar

Fotografia: José Luis Alcaine

Montaggio: Teresa Font

Musiche: Alberto Iglesias

Scenografia: Antxón Gómez

Costumi: Paola Torres


Antonio Banderas: Salvador Mallo

Penélope Cruz: Jacinta da giovane

Asier Etxeandía: Alberto Crespo

Leonardo Sbaraglia: Federico

Nora Navas: Mercedes

Asier Flores: Salvador bambino

César Vicente: Eduardo

Cecilia Roth: Zulema

Raúl Arévalo: padre

Julieta Serrano: Jacinta anziana

Pedro Casablanc: dott. Galindo


TRAMA: Salvador Mallo è un regista ormai in declino che ricorda con nostalgia tutta la sua vita: l'infanzia, quando la famiglia si trasferì a Paterna in cerca di una vita migliore; il primo grande amore a Madrid durante gli anni Ottanta e il successivo dolore per la sua perdita; la consolazione nella scoperta della scrittura e l'amore per il cinema e il teatro che lo hanno aiutato a colmare un vuoto esistenziale.


Voto 7,5


“Senza averlo voluto, Dolor y gloria è il terzo capitolo di una trilogia che va a completarsi dopo 32 anni di lavoro. Le prime due parti sono rappresentate da La legge del desiderio e La mala educación. I tre film hanno come protagonisti personaggi maschili che sono registi e presentano il desiderio e la finzione cinematografica come parti fondamentali del racconto. Il modo in cui la finzione si intreccia con la realtà però differisce in ognuno di loro. La finzione e la vita sono le due facce della stessa medaglia e la vita include sempre dolore e desiderio. Dolor y gloria ripercorre tra le altre cose due storie d'amore che hanno segnato il protagonista, due storie definite dal tempo e dal caso e che si risolvono nella finzione. La prima è una storia che, quando si svolge, il protagonista non è cosciente di vivere a causa della sua tenera età: la ricorda 50 anni più tardi. Si tratta della storia della prima volta che ha sentito la pulsione del desiderio. Salvador, il protagonista, ha solo nove anni quando accade. L'esperienza è così forte che cade a terra privo di sensi, come colpito da un fulmine. La seconda storia, invece, ha luogo negli anni Ottanta, quando tutta la Spagna vive un'esplosione di libertà con l'arrivo della democrazia. Scrivendo di essa per dimenticarla, Salvador la trasforma in un monologo interpretato da Alberto Crespo, attore a cui la fa anche firmare per evitare che egli venga in qualche modo identificato con il protagonista. Il monologo si intitola La dipendenza e Alberto lo interpreta davanti a uno schermo bianco come unica scenografia. Lo schermo bianco rappresenta tutto ciò che Salvador ha vissuto: il cinema che ha visto nell'infanzia, i suoi ricordi da adulto, i viaggi con Federico per fuggire da Madrid, l'eroina, le sue opere da scrittore e da regista. Lo schermo è quindi testimone, compagno e destinazione.”

(Pedro Almodóvar)


Tante volte, quando un regista sente l’arrivo dei passi felpati della vecchiaia avverte la necessità di ripensare al passato e a ciò che ha vissuto e a provare a fare un bilancio. Viene di conseguenza la voglia di tradurre questo bisogno in un film, di mettere cioè su carta e pellicola la sua memoria. Eppure Almodóvar non è un “vecchio”, in fondo a settembre raggiungerà solo i suoi primi 70 anni, ma le varie e fastidiose malattie che lo hanno afflitto e tante altre vicissitudini evidentemente lo hanno portato a riflettere e a scrivere ancora, dopo tre anni di pausa, una sceneggiatura, cercando intelligentemente di evitare la autocelebrazione, anche perché non è proprio il tipo di persona che cerca questo malsana soddisfazione.

Piuttosto va rilevata una cosa importante: le opere autobiografiche sono spesso delle sedute sul lettino dell’analista, sono lo sfogo, la ricerca anche, - se ci si riesce – di una autoanalisi. Invece quello che succede a Pedro Almodóvar è piuttosto, a mio parere, uno sguardo pieno di nostalgia e malinconia rivolto ai passi compiuti dalla fanciullezza alla maturità, sia di uomo che di artista. Un racconto lento e pieno di dubbi, di ricordi belli e brutti (“Il cinema della mia infanzia odora di pipì, di gelsomino e della brezza dell'estate”), della mamma e degli amori, della difficoltà che si incontra quando viene a mancare la grinta per lavorare. Poi, e non ultimo, degli amici che si rincontrano, che a volte sono disposti ad aiutarti e altre volte no. È un ripensamento, una lunga riflessione, ma senza pentimenti. Anzi, nonostante i dubbi che pervadono i ricordi, Pedro sembra perfino fiero di ciò che ha realizzato e vissuto, rivendicando errori e scelte giuste, in toto. È un bel film, che trascina con sé un certo senso di malinconia e che potrebbe far pensare che lui sia stato una persona triste, ed invece ancora oggi, come sempre, egli è un uomo allegro, tutto il contrario del suo alter ego dello schermo e vederlo ancora oggi con le sue camicie e le sue magliette dai colori sgargianti dà subito l’idea di una persona positiva che cerca ancora il bello della vita e del mondo circostante.


Pedro Almodóvar ha diviso il film-memoir in tre fasi: la fanciullezza, la giovinezza e la maturità. Con la particolarità che quella di mezzo non è raccontata e filmata ma la si intuisce nell’ultima, tramite i ricordi che vengono a galla e i re-incontri con alcune persone che sono state importanti nella sua vita. E tutto il filo della narrazione ha origine allorquando il protagonista ed alter ego Salvador rivede in una galleria d’arte l’acquerello che aveva dipinto per lui il giovane muratore Albañil ben cinquant’anni prima: è lì che scatta il meccanismo che fa aprire l’album della memoria. I ricordi, la volontà di guarire dalle tante malattie, la voglia di tornare a scrivere e a girare. Quando questo gli è capitato davvero nella vita reale, il regista ha raccontato che dopo aver scritto di getto l’inizio della sceneggiatura di questo film si è tuffato nella piscina, avvertendo per la prima volta, grazie al galleggiamento, un senso di grande leggerezza. E il film, difatti, inizia proprio con questa emblematica scena: Antonio Banderas che si tuffa in piscina e rimane con gli occhi e la bocca chiusi sott’acqua, godendo del silenzio e dell’assenza di peso, della sospensione e della levità del corpo e forse anche di quell’attimo magico. Come in un liquido amniotico che preannuncia l’inizio della vita, di una nuova vita.


Uno degli elementi che mi hanno toccato di più è la totale trasparenza e sincerità della scrittura, dell’aprirsi lealmente allo spettatore, nel raccontarsi guardandoci negli occhi e ce lo ha dimostrato riempiendo la scenografia e gli ambienti di tanti oggetti personali: quadri, mobili e suppellettili della sua casa; gli abiti e le scarpe di Salvador sono proprio di Pedro! E poi, basta osservare Antonio Banderas, per il quale non è neanche esatto e sufficiente dire che è il suo alter ego, ma è davvero, realmente Pedro. Gli atteggiamenti, la pettinatura, i vestiti sono marginali perché si possono imitare, vestire, truccare. Invece Banderas si trasforma e si compenetra totalmente, si annienta nella figura del regista: lo diventa. Dopo aver letto il copione il regista ha chiesto all’attore “Se vuoi, imitami pure in qualche cosa.” E l’altro: “Non ne ho bisogno, sei dentro di me.” E secondo il mio modesto parere, non è neanche giusto fare un parallelo con Fellini e Mastroianni nel loro 8 ½: lì l’attore rappresentava l’autore, alla perfezione, ma qui l’uno “è” l’altro.

Un film che nella parte finale tocca il cuore e commuove ma senza mai essere melodrammatico, tralasciando una volta tanto la sua mitica vena mélo, facendoci emozionare quando ci siamo rispecchiati negli occhi lucidi del protagonista nei momenti più toccanti e poi ancora in quelli del suo amore degli anni ’80, Federico, quando assiste commosso al monologo La dipendenza recitata in teatro da Alberto, l’attore con cui anni prima aveva litigato e che lo ha convinto a metterlo finalmente in scena. Un’altra confessione nell’ambito di quella più grande che è il film stesso.


Ottimo il comportamento di tutto il resto del cast, a cominciare dalla fidata Penélope Cruz, una moderna “ciociara” delle cuevas de La Mancha, fino ai due personaggi maschili importanti della trama: Asier Etxeandia e Leonardo Sbaraglia. Molto bella la forte fotografia, mentre le musiche vengono eclissate ancora una volta dalla immortale voce di Mina e la sua Come sinfonia

È Pedro Almodóvar in tutto e per tutto, anche se più calmo e riflessivo e meno passionale di una volta. Recitato benissimo da uno straordinario Antonio Banderas come persona interposta e nella sua migliore interpretazione di sempre, mi è sembrato quasi un capitolo definitivo e un addio, come la conclusione di un lungo periodo fatto di tanti film. Perché quando si comincia a tirare le somme della propria vita e del proprio lavoro può anche sembrare che ci si voglia fermare. Non lo so, non lo sappiamo ma certo non ce lo auguriamo.

Non so se sia il suo miglior film, ma è davvero un bel film: è come venire a conoscere meglio Pedro, un vecchio amico che è tornato a trovarci per confidarsi.

C’era una volta, in Calzada de Calatrava…




 
 
 

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