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Drive-Away Dolls (2024

Drive-Away Dolls

UK/USA 2024 commedia/thriller 1h24’

 

Regia: Ethan Coen

Sceneggiatura: Ethan Coen, Tricia Cooke

Fotografia: Ari Wegner

Montaggio: Tricia Cooke

Musiche: Carter Burwell

Scenografia: Yong Ok Lee

Costumi: Peggy Schnitzer

 

Margaret Qualley: Jamie

Geraldine Viswanathan: Marian

Beanie Feldstein: Sukie

Colman Domingo: comandante

Pedro Pascal: Santos

Bill Camp: Curlie

Joey Slotnick: Arliss

C.J. Wilson: Flint

Matt Damon: senatore Channel

 

TRAMA: Jamie si rammarica della rottura con la sua ragazza, mentre Marian ha solo bisogno di rilassarsi e non pensare a nulla. Alla ricerca di un nuovo inizio, i due intraprendono un viaggio improvvisato verso Tallahassee, Florida, ma le cose si mettono male quando si imbattono in un gruppo di criminali, inetti.

 

Voto 6,5



Appena dopo la realizzazione di La ballata di Buster Scruggs del 2018, un western ovviamente intonato alla loro idea di cinema, film ad episodi presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e distribuito in streaming da Netflix, i fratelli Coen, senza tanto clamore, ma sempre d’amore e d’accordo, hanno intrapreso strade solitarie e chissà se mai li rivedremo in coppia dietro la macchina da presa. Fatto sta che Joel ha firmato un bellissimo bianco e nero, in pieno stile espressionista, un ottimo Macbeth, lontanissimo dalle opere precedenti; mentre Ethan, assieme alla moglie Tricia Cooke - già diverse volte collaboratrice del duo come montatrice, dichiaratamente queer (il loro matrimonio è da oltre vent’anni aperto e anticonvenzionale, avendo entrambi partner diversi) - mette su questo film spiazzante non meno dei celebri titoli dei Coen, firmando entrambi la sceneggiatura. Un film che vede come protagoniste giovani donne apertamente lesbiche, dal carattere più che spigoloso (se non moralmente riprovevole) e che gioca esplicitamente coi generi commedia, black comedy, noir, road movie, thriller.



L’antefatto è una sequenza tipica del noir: siamo alla fine del 1999 ed un uomo misterioso, Santos (un cameo di Pedro Pascal) è seduto in un bar di Filadelfia stringendo nervosamente al petto una valigetta. Esce di corsa ed è inseguito dal barista, che lo uccide in un vicolo. La valigetta finisce nelle mani di alcuni uomini che attendono in macchina, che riparte velocemente. Jamie (Margaret Qualley) e Sukie (Beanie Feldstein) sono amanti la cui relazione va in pezzi a causa dell’infedeltà della prima, esuberante, irrequieta, ribelle, senza regole. Quando Sukie la caccia fuori dal loro appartamento, Jamie va dalla sua amica Marian (Geraldine Viswanathan, che sorpresa ‘sta ragazza!) che sta per partire per Tallahassee, in Florida, dove abita sua zia, e la convince ad andarci insieme.



Affittano un’auto presso il servizio di noleggio di Curlie (Bill Camp) e, a causa di un malinteso, viene data loro un’auto che deve essere riportata proprio a Tallahassee. Ma non doveva essere assegnata a loro due, perché, infatti, subito dopo due criminali, Arliss (Joey Slotnick) e Flint (C.J. Wilson), (una coppia che ricorda parecchio quegli inetti e ciarlieri di Peter Stormare e Steve Buscemi di Fargo) arrivano al noleggio con il loro capo (Colman Domingo) per ritirare proprio quell’auto e scoprono che le ragazze sono già partite con dentro il baule una cappelliera che caccia fumo ghiacciato ed una valigetta contenente degli oggetti che dovevano essere assolutamente consegnati al senatore Channel (Matt Damon, sempre pronto a giocare con i Coen). Da qui in poi le ragazze non sanno che sono nei guai peggiori e gli uomini non sanno come rintracciarle, disposti a tutto, pure ad uccidere senza tentennamenti chiunque si frapponga.



Siamo nel marasma, nell’ambito di un mix di generi senza poter immaginare né come possa andare a finire né cosa possa contenere quella maledetta valigetta di metallo, che tra l’altro è fornita di una doppia combinazione ma non è bloccata. Nel frattempo, è tutto un valzer di sesso lesbico senza mai essere volgare, anzi tutt’altro, direi comico e allegro, con Jamie superscatenata che cerca in ogni modo di coinvolgere la timida e ancora indecisa Marian. Come ci si può aspettare, succede di tutto, continuamente rimbalzando tra il brillante e il thiller, ma in un mare di ironia che divertirà solo lo spettatore disposto al giocoso modo di narrazione illogica. O forse una logica c’è e lo si capisce quando finalmente si scopre cosa mai ci sia nelle due confezioni.



Per intuire che tipo di sesso caratterizza la sessualità di Jamie, è sufficiente ascoltarla (parla con un forte accento texano, godibile solo in originale, che poi è come dire che è il bello della diretta, il bello della lingua in cui viene girato, no?) quando prova a convincere l’amica Marian a lasciarsi andare, sconfiggendo i suoi problemi “interni”: “Come fai ad avere problemi interni? Sei chiusa come un’ostrica! Non credo, tesoro santo, che tu abbia mai scavato abbastanza dentro alcun orifizio da strapparti via l’anima e gettarla in pasto a un qualunque essere umano e umiliare te stessa e strisciare e gemere sentire il tuo ego completamente disintegrato. Cosa altrimenti detta gloria dell’amore.” WOW! Capito che concetto del sesso? E con quale impeto lo vive e lo cerca?



Ma soprattutto, che scrittura, quella della coppia sceneggiatrice! Li suppongo divertiti nello scrivere immaginando le reazioni del pubblico, magari diviso tra chi resta orripilato e chi, come lo scrivente, si stupisce e ride. È pur sempre un Coen e affini, no? Oltretutto, quelle due vanno in giro per gli States con un’auto sul cui baule è scritto bello grande: L’amore è un giro in slitta per l’inferno. E non è tutto: Jamie, sfrontata e insolente e quindi sempre sorridente alla vita che concepisce senza morigeratezza, ama definire lei stessa e le sue amiche “cinture nere di cunnilingus”.



Non è un film, come quasi tutti gli altri, che pretende o si pone lo scopo di romanzo di formazione e conseguente coming out di giovani che mettono in chiaro il proprio orientamento sessuale, è solo una commedia, black, ma commedia, ironica e scherzosa, dissacratoria se vogliamo, ma senza pretese sociologiche, è un divertissement. Sotto forma di road trip, di goduria intima e urlata (la sequenza in cui la micidiale Margaret Qualley, poggiata alla testiera del letto mentre la partner occasionale fa il suo “lavoro” è divertentissima e lei è capace di varie nuance di urletti e smorfie, che non è da tutti, di totale libertà mentale. Ma principalmente di controllo del proprio corpo, di quel corpo femminile bistrattato dagli albori dell’uomo come materia di possesso e di sfruttamento, quando invece qui la donna sa quello che vuole e cerca di conquistarlo. Anche mediante quello che trovano nella misteriosa valigetta tanto ricercata da gente senza scrupoli. Film, quindi, più politico di un’etichetta semplice e semplicistica di commedia lesbica.



Con una fotografia bella carica, con degli inserti di stacco con ipercolori lisergici, una scenografia da noir anni Quaranta, dialoghi sparati con il mitra senza sicura, mentre gli uomini non ci capiscono un bel niente e si perdono nei meandri dei loro antiquati ragionamenti senza mai prendere il sopravvento sulla coppia inseguita e una volta agguantata combinano un gran pasticcio, ci si trova davanti ad un’opera di certo anche cinica che non ha paura di parlare con un alto livello di innocente provocazione, una certa impertinenza.



Furba, poi, la costruzione della coppia per farla sembrare quella classica del buddy movie, in cui c’è la Qualley che interpreta l’irrefrenabile Jamie, caotica e trascinante, mentre la stupefacente Viswanathan è la tranquilla, pacata e sessualmente inesperta Marian. Due tipe differenti che trovano la necessità di andare d’accordo, per il bene comune e per salvare la vita messa in pericolo e che alla fine trovano non solo l’equilibrio, ma anche l’intesa totale. E quando dico totale, vuol dire che stanno bene insieme. Due personaggi femminili forti e interessanti di cui i due autori hanno voluto abbracciare il loro universo sessuale. Bello, ma non poteva essere altrimenti per una commedia, che il film finisca con il soccombere dei cattivi e con la felicità delle protagoniste. Ma in mezzo c’è di tutto.



Margaret Qualley ormai ha una presenza travolgente sugli schermi, partecipando a molti film degli ultimi anni, godendo della stima di molti registi che continuano a chiamarla: è una potenza della natura e si presta facilmente a ruoli diversi con la medesima capacità. La vera sorpresa è Geraldine Viswanathan (di padre indiano d’etnia tamil e madre svizzera), che ha capito alla perfezione come interpretare il ruolo affidatole, facendo spesso da contrappeso alla esuberanza recitativa dell’altra. Una coppia di attrici in gamba, messe, oltre alle tante altre che girano per il set, a cominciare dalla scatenata squadra di giocatrici di hockey (che contribuisce a dare una felice confusione alla trama), in contraltare ai burberi e spietati uomini che sanno solo usare violenza. E sono loro che restano sul terreno.



Nel suo lavoro, la coppia Coen-Cook continua l’opera di smaltimento dei generi come hanno sempre fatto i fratelli, distruggendo e rifacendo il b-movie, il noir e il gangster movie, con la classica valigia-attira-guai, con l’aggiunta di accenti di stile indie e il forte senso di scherzo giocoso, come l’atteggiamento di Jamie. Sovvertendo, stavolta, quel certo senso di pessimismo che avvolge le opere coeniane. Niente tristezza o buonismo: qui si vince allegramente con la spudoratezza di chi si sente libera. Alla faccia di chi si pone regole moralistiche. Perfino Matt Damon, che normalmente è un eroe o in genere un winner, qui fa una brutta fine. La mano di Tricia Cooke al montaggio si fa notare.



Ah, a proposito, il film finisce che le due si dirigono verso il Massachusetts, poiché lì il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legale.

Buon divertimento, se ci state.



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