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Drive My Car (2021)

Aggiornamento: 28 mar 2022


Drive My Car

(Doraibu mai kâ) Giappone 2021 dramma 2h59’


Regia: Ryūsuke Hamaguchi

Soggetto: Haruki Murakami (Uomini senza donne)

Sceneggiatura: Ryūsuke Hamaguchi, Takamasa Oe

Fotografia: Hidetoshi Shinomiya

Montaggio: Azusa Yamazaki

Musiche: Eiko Ishibashi

Scenografia: Seo Hyeon-Seon

Costumi: Haruki Koketsu


Hidetoshi Nishijima: Yusuke Kafuku

Tôko Miura: Misaki Watari

Masaki Okada: Kōji Takatsuki

Reika Kirishima: Oto

Jin Dae-Young: Kon Yoon-su

Sonia Yuan: Janice Chan


TRAMA: Yusuke, un attore e regista di teatro, non si è più ripreso dalla improvvisa scomparsa della moglie, una drammaturga. Due anni più tardi gli viene chiesto di mettere in scena “Zio Vanja” per un festival ad Hiroshima; lì, gli viene assegnata un'autista, giovane e riservata, con cui, durante i viaggi a bordo della sua Saab 900, finirà con lo stabilire un legame più significativo di quanto si aspettasse.


Voto 8,5

Yusuke e Oto sono una bella coppia affiatata, attore e regista teatrale lui, drammaturga lei. Un rapporto intenso e apparentemente sincero che sta cercando di superare la tragedia della perdita della loro piccola figlia di quattro anni, di cui preferiscono parlare quasi mai. Anche l’intesa sessuale è armonica, caratterizzata da una curiosa abitudine: l’amplesso, quando sta sopraggiungendo l’orgasmo, induce la donna alla massima creatività di scrittrice, tanto che durante l’apice erotico trova ispirazione ed è capace di ideare e parlare di una serie di sceneggiature ricche e fantasiose che però durante il sonno dimentica del tutto. È il marito che, avendo memorizzato le frasi, le svela al mattino le sue invenzioni che trova bellissime e ideali per un successivo adattamento per altre opere teatrali. Ogni mattina Yusuke si reca al lavoro con la sua Saab 900 Turbo rossa che ama come una seconda casa, sempre perfettamente pulita e funzionante e lascia la moglie a casa, certo che al ritorno sarà accolto come sempre con amore e desiderio. Un giorno riceve una importante chiamata da un ente di Hiroshima dove gli organizzatori di un festival hanno intenzione di rappresentare nel loro teatro una recita di Zio Vanja di Čechov sotto la sua direzione, opera che lui ama moltissimo e conosce approfonditamente. Il giorno prefissato si reca all’aeroporto con la sua inseparabile auto per il volo che lo porterà nella città proprio quando un messaggio lo avverte che l’appuntamento e la prenotazione del volo sono stati spostati al giorno seguente. Si erano salutati con l’affetto e il trasporto di sempre e se normalmente parlano poco di loro, se non dei soggetti delle sceneggiature scaturite dall’eros, proprio quella mattina lei gli ha promesso che al suo ritorno gli avrebbe parlato di un argomento particolare. Quale non si sa e mai si saprà. Il ritorno anticipato gli rivelerà ciò che ha sempre temuto, che lo lascia sconvolto fino al punto di scappar via e rientrare solo a sera inoltrata, quando troverà la peggiore delle sorprese. Oto è stata colta da un grave malore: se non fosse stato assente tutto il giorno sicuramente le avrebbe salvato la vita.

Sin dai primi minuti si intuisce che quello di Ryūsuke Hamaguchi è un film fatto di tanti dialoghi e, soprattutto, di moltissimi silenzi, andamento lento e compassato, dalle emozioni trattenute e dalla pacatezza con cui vengono pronunciate le frasi ben ponderate. Il film, adattato da un racconto di Haruki Murakami, contenuto nella raccolta Uomini senza donne del 2014, ha quindi un inizio traumatico, ma solo introduttivo a quello che ne seguirà e come un messaggio implicito dell’autore, solo dopo 40 minuti di visione partono i veri titoli di testa. È quando, finalmente approdato a Hiroshima, inizia la selezione degli attori che si sono offerti sperando in una parte e le conseguenti prove di lettura del dramma, ma innanzitutto si rivela determinante la prassi secondo cui il Festival affida il regista nelle mani di un autista, come previsto rigidamente dal contratto che prevede una voce di bilancio apposito. Egli vorrebbe ma non può rifiutare. Lui è geloso della sua auto così ben tenuta e non si fida di nessuno che la debba guidare: inventa scuse ma gli addetti sono irremovibili. È una donna, l’autista, si chiama Misaki, della stessa età che oggi avrebbe la figlia perduta, dalla perenne espressione malinconica e silenziosa più di Yusuke stesso. L’inizio del loro rapporto non è facile, dati i presupposti del passato di entrambi e della poca fiducia che l’uomo ha in chi deve mettere le mani sullo sterzo della sua amata Saab rossa.


La convivenza forzata nelle ore di viaggio quotidiano (il regista ha scelto un appartamento lontano dalla città) li conduce ad avvicinarsi, a conoscersi, persino a rivelarsi, seppur nei lunghi silenzi in cui viaggiano almeno due volte al giorno. Diventa un rapporto che si consolida lentissimamente, saldato dalle pause di riflessione e dall’estremo riserbo che ognuno dei due ha verso l’altro. Lui ha perso le due donne della sua vita, lei ha un passato nebuloso in cui ha perso la madre per una sciagura. Non si guardano mai, dato che lui siede sempre dietro e lei si rivela una automobilista più che affidabile: preziosa e precisa come una professionista, fino al punto che Yusuke ammette di viaggiare così bene da non accorgersi di essere in un’auto. Misaki è più che perfetta, una vera sorpresa. Questo casuale incontro cambierà per sempre le due persone, nel modo di vivere il futuro e nel modo di guardare alla vita.

Sulla elaborazione del lutto c’è una infinità di opere cinematografiche, ma spesso questa viene mostrata, raccontata, sviluppata con reazioni forti, a volte isteriche, perlomeno sempre melodrammatiche. Qui, invece, è un assorbimento lento e soprattutto costellato da silenzi mai improduttivi. Ma sempre significativi, carichi di frasi non pronunciate, occhi puntati sulla strada, espressioni senza emozioni, solo il suono di un motore efficiente, il fruscio del vento, la meravigliosa campagna giapponese. E il loro silenzio, interrotto da minime confidenze, minuscoli squarci di esperienze, ricordi dolorosi, pensiero rivolto solo al presente, con il futuro che non rientra nei piani. Quando si guida o si è passeggeri in realtà non ci si guarda mai negli occhi, ma si fissa la strada davanti, tanto si sa, tutti guardano e procedono nella medesima direzione. Spesso - capita ad ognuno di noi - in automobile c’è silenzio e sono diversi elementi che interrompono o ravvivavano l’atmosfera di sospensione: sono suoni esterni a noi, al di qua e al di là del vetro. Ed è come se ciascuno fosse spinto a elaborare pensieri interiori condividendoli con gli altri, cercando di finire la propria storia prima della fine del viaggio. In macchina non si è da nessuna parte e al tempo stesso ci si sposta verso una direzione precisa. È una situazione piena di risorse. È quello che ha voluto sicuramente ricreare l’ottimo Ryūsuke Hamaguchi.

Lui rivelerà pian piano ciò che pensava della moglie, chiedendosi meravigliato e perplesso come mai il giovane attore della sua compagnia, KōjiTakatsuki, conosca i finali delle storie di Oto e lui invece non veniva da lei mai messo al corrente. Eppure, ha cominciato ad accettare questa realtà svelata, alla pari della ragazza alla guida che in un attimo di sfogo di sincerità racconta come era realmente andata la faccenda della disgrazia in cui era morta la madre, tiranna e rigida educatrice per imparare a guidare alla perfezione un’automobile. “Lasciala andare”, diceva un film italiano: loro due devono imparare ed imparano a lasciar andare liberi i loro cari morti, perché serve anche a lasciarsi andare, a vivere meglio. Per questo diventa importante e forse addirittura essenziale la rappresentazione - che poi vedrà lo stesso regista come attore sul palcoscenico, dopo il colpo di scena dell’arresto del bel giovin attore – dello Zio Vanja: Yusuke rivive la sua situazione e la sua esistenza nel dramma recitato e vissuto. Il processo di avvicinamento spirituale tra i due si realizza quando lui si siede accanto all’autista, quando Yusuke le chiede di andare nel villaggio in cui è nata: un viaggio lunghissimo, che non sarà un traguardo ma il punto della ripartenza. Due mani, due sigarette complici, il tettuccio dell’auto aperto.


Il film è ricchissimo di atti creativi che vede nella trama un regista, una sceneggiatrice, un gruppo di attori, lingue straniere che si incrociano, il linguaggio dei segni – una delle attrici ingaggiate è una coreana muta – oltre al pregio di Ryūsuke Hamaguchi sia di ampliare le vicende dei singoli personaggi, facendole muovere in parallelo, sia di approfondire quelli che sono gli elementi fondamentali dell’opera degli sceneggiatori, primo fra tutti il tema della necessità, da parte di un uomo, di un confronto e di un dialogo con una donna, o semplicemente di una presenza salvifica. Il silenzio, elemento principale, è inteso e utilizzato come forma di comunicazione alternativa. All'inizio del film, quando ci sono quei silenzi, significa che in quel momento non c'è una connessione fra i due protagonisti, ma proseguendo con la narrazione, il silenzio torna e ha la sua importanza. Perché questa volta si trasforma in una forma differente di silenzio. È diventato un altro modo attraverso cui comunicare.

Se c’è un insegnamento che si può ricavare è quello dell’accettazione sia della vita che della perdita e in più una morale: quella di saper girar pagina nella vita che pareva essersi svuotata.

“Chi sopravvive continua a pensare ai morti. In un modo o nell’altro. È così che va. Dobbiamo continuare a vivere.”

Un film commovente, complesso, sorprendente e con tante storie al suo interno, ognuna delle quali si può definire con gli stessi aggettivi.

Bellissimo, un piccolo capolavoro con un finale che sorride.


Premio miglior sceneggiatura a Cannes 2021

Miglior film in lingua straniera Golden Globe 2022

Premio Oscar 2022:

- Candidatura per il miglior film

- Candidatura per il miglior regista

- Candidatura per la migliore sceneggiatura non originale

- Candidatura per il miglior film internazionale


Aggiornamenti Premi Oscar 2022:

Miglior film internazionale



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