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Eo (2022)

Eo

Polonia/Italia/UK 2022 dramma 1h28’

 

Regia: Jerzy Skolimowski

Sceneggiatura: Ewa Piaskowska, Jerzy Skolimowski

Fotografia: Michał Dymek

Montaggio: Agnieszka Glińska

Musiche: Paweł Mykietyn

Scenografia: Roberta Amodio, Mirosław Koncewicz

Costumi: Katarzyna Lewińska

 

Hola, Tako, Marietta, Ettore, Rocco, Mela: Eo

Sandra Drzymalska: Kasandra

Tomasz Organek: Dude

Lorenzo Zurzolo: Vito

Mateusz Kościukiewicz: Mateo

Isabelle Huppert: la Contessa

Lolita Chammah: Dora

 

TRAMA: L’asino Eo, che incontra nei suoi viaggi persone buone e cattive, sperimenta gioia e dolore, esplorando attraverso i suoi occhi una visione dell'Europa moderna.

 

Voto 7



La cosa più facile da dire, per definirlo, è che sia un film on the road, ma è molto di più perché la vita travagliata del quadrupede protagonista che dà il titolo al film (nome onomatopeico derivato dal tipico raglio, tanto che nella lingua originale lo pronunciano “Io”) non è semplicemente un interminabile cammino lungo le strade e le campagne dell’Europa, piuttosto è l’attraversamento cristologico della mentalità umana, con i pochi pregi e i tantissimi difetti che la conformano. Con la macchina da presa spesso vicinissima agli occhi tristi dell’animale – qui poco animale e tanto animato, dai buoni propositi - Jerzy Skolimowski, con la scrittura stesa con la moglie e fedele cosceneggiatrice Ewa Piaskowska, ci fa entrare nella sua testa e per tutta la visione ci fa ragionare, pensare, avere timore, gioire e godere delle attenzioni come se noi stessi fossimo Eo.



Mansueto, docile, sempre in attesa di buone maniere, lui è nato in un circo equestre coccolato da colei che lo tratta premurosamente come un fratellino, Kasandra, la quale resta esterrefatta e sconsolata quando il circo viene privato degli animali, sia per fallimento che per le proteste degli animalisti. Il povero Eo viene consegnato ad una scuderia e poi in una fattoria a contatto con dei bambini disabili. Quando la ragazza riesce a rintracciarlo, una volta lasciatisi, l’asino rompe la staccionata e scappa con la speranza di rincorrerla ed invece comincia il suo calvario tra i cosiddetti umani: nel bosco vede i cacciatori uccidere gli animali, viene selvaggiamente picchiato e ridotto quasi in fin di vita da tifosi di calcio, finisce nell’officina di un crudele allevatore di pellicce di volpe, viene preso da un camionista e poi portato via da un giovane che si rivela prete ed infine si accoda disperato e stanco ad una mandria di bovini che hanno il destino segnato. Una via crucis infinita, sempre con la speranza in cuore di riunirsi alla sua cara Kasandra o almeno di avere una esistenza quieta con una persona che gli dia l’affetto e le carote che ama tanto. Ed invece scopre i lati peggiori dell’animo umano.



Osserva, intuisce, vede cosa combinano gli altri animali, capisce che l’uomo è spesso causa del male che subisce, raglia quasi mai, sembra rassegnato ma non domito, non riesce a capire la causa della cattiveria che trova nelle infinite strade d’Europa. Ma siccome questo succede in ogni luogo e in ogni nazione che si trova ad attraversare, di sua iniziativa o perché trasportato da chi lo mette al guinzaglio, chissà se deduce che non c’è scampo per il “diverso”, per la bestia in mezzo agli uomini, più “bestie” di lui. È per tutte queste cose che il regista riesce nell’intento di farci entrare nella testa dell’asino e farci ragionare e temere come fa sicuramente lui, siamo noi che lo spingiamo a scappare dai pericoli, siamo noi che festeggiamo la sua guarigione, siamo noi che restiamo di sasso nel triste finale. Al termine, siamo tutti animalisti radicali.



Chi ne esce malconcio, comunque, non è Eo ma è l’umanità stessa, una umanità senza Umanità, senza amore verso l’altro se non verso il suo stretto simile o co-tifoso o compagno di disavventura. Con una serie minimale di dialoghi, nel silenzio della natura e tra i rumori di fondo, Skolimowski ci offre il macabro spettacolo della morte degli animali, dai più invisibili insetti alle bestie più grandi naturalmente libere di vivere la loro breve esistenza. Lo fa dopo aver scartato, assieme alla moglie anche produttrice, l’idea del solito gatto o cane: cercavano altro e, come racconta, mentre trascorrevano l’inverno in un paesino della Sicilia, dove mettono in scena il presepe vivente, dove si simula la vita del passato, che tutto sommato non si distingue molto da quella del presente, vedono la stalla piena di animali: galline, anatre, oche, maiali, capre, mucche e anche un grande bue, poi Giuseppe e la Madonna con il bambino in grembo. All’improvviso una gallina si alza in volo, come fosse pazza, sfiora la testa di Giuseppe e finisce dall’altro lato della stalla. Lì dove atterra, il regista nota finalmente un asinello, tutto raccolto in sé, in silenzio, assolutamente “altro”, con questi grandi occhi spalancati con cui osservava questa scena affollata e chiassosissima senza farsi coinvolgere in alcun modo. Ed ecco l’ispirazione: il buon mansueto asino, animale molto più intelligente di quello che per tradizione popolare viene ritenuto. Gli occhi di Eo sono, in effetti, una delle immagini che più rimangono impresse nel suo film. Sono quelli che attraggono l’attenzione dello spettatore, a momenti trascurando il resto delle inquadrature.



Solo nel prefinale il film si apre ad una sottostoria tra persone: una ricca madame francese che vive in una villa in Italia, chiamata Contessa (Isabelle Huppert), riceve il giovane prete bello (Lorenzo Zurzolo) svelando un anomalo rapporto tra i due, mente il povero Eo sta ancora aspettando l’occasione per fuggire verso la libertà. Anche se fuori il pericolo chiamato Uomo è sempre in agguato: ma dentro un ricovero, una stalla, un camion, si sono mai ridotti i rischi per lui? No. Lui non ha mai avuto una vera meta, il mondo non è mai, nonostante tutto, cambiato al suo passaggio, ha solo cercato, senza rendersene conto, la salvezza ma non come scopo della vita se non come istinto per non soffrire l’assenza delle carezze della giovane che lo aveva allevato. Come un bambino abbandonato che rivede in sogno (e ciò capita anche a lui in alcune brevi sequenze) la mamma che lo accarezzava nei giorni di beatitudine, in quel circo dove il padrone lo maltrattava ma Kasandra non gli faceva mancare nulla, soprattutto il dolce di carota.



È di certo una mossa audace del sorprendente autore polacco, che ha anche il coraggio di non ricorrere al CGI e cogliere le immagini con la tecnica tradizionale, giocando abilmente con la ottima fotografia di Michał Dymek e le adeguate luci nelle tante varietà, tra gli orrori umani e la spontaneità animale. La docilità dell’asino lo classifica come una sorta di santo innocente, facendo sembrare la crudeltà inflittagli ancor più come una grave violazione di qualcosa di sacrosanto. Vedere il mondo attraverso la sua prospettiva, spesso trascurata, lo rende soprattutto un film sugli esseri umani e ci fa meditare sia sulla profondità dell’esperienza che può svolgersi nei nostri amici animali sia sul nostro ruolo.



Ogni tanto fa bene vedere un film come questo.

(N.B. L’asino non è sempre lo stesso, ne sono stati impiegati ben 6 di razza sarda, come si vede dalla scheda)



Riconoscimenti

2023 - Premio Oscar

Candidatura miglior film straniero

2022 - Festival di Cannes

Premio della giuria (ex aequo con “Le otto montagne”)



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