Eterno visionario (2024)
- michemar
- 2 giorni fa
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Eterno visionario
Italia 2024 dramma biografico 1h52’
Regia: Michele Placido
Soggetto: Matteo Collura (Il gioco delle parti. Vita straordinaria di Luigi Pirandello)
Sceneggiatura: Michele Placido, Toni Trupia, Matteo Collura
Fotografia: Michele D'Attanasio
Montaggio: Consuelo Catucci
Musiche: Oragravity
Scenografia: Tonino Zera
Costumi: Andrea Cavalletto
Fabrizio Bentivoglio: Luigi Pirandello
Federica Vincenti: Marta Abba
Valeria Bruni Tedeschi: Antonietta Portulano
Giancarlo Commare: Stefano
Aurora Giovinazzo: Lietta
Dajana Roncione: Vera Vergani
Michelangelo Placido: Fausto
Michele Placido: Saul Colin
Edoardo Purgatori: Friedrich Wilhelm Murnau
Ute Lemper: cantante
TRAMA: Il racconto di una fase della vita di Luigi Pirandello che ne racconta l’umanità, le passioni, le ossessioni e l’esistenza più intima intrappolata fra l’amore dirompente e impossibile per Marta Abba e il burrascoso rapporto con la dolorosa follia della moglie Antonietta Portulano.
VOTO 6

Assistendo ai provini per il casting di una sua opera da portare sul palcoscenico, Luigi Pirandello (Fabrizio Bentivoglio) rimane incantato da un’attrice sconosciuta con tanta voglia di emergere ma anche con moltissimo talento, Marta Abba (Federica Vincenti, moglie del regista): le si avvicina estasiato e le espone la sua teoria sul teatro e le donne. Per il grande scrittore, sempre alla ricerca di “un equilibrio tra la materialità tangibile del teatro e la materialità sfuggente della donna”, il teatro è arte materica, è un corpo solido, basta battere i piedi sulle assi per rendersene conto; all’opposto, il mondo femminile è misterioso e impalpabile. Come si fa a mettere l’anima di una donna? Come è possibile rappresentare il fascino oscuro della femminilità? È questo che si chiede parlando all’attrice che viene selezionata su due piedi, in quanto per Pirandello, è l’interprete ideale.

Siamo a Roma, nel 1925, e la scena fa parte del primo ricordo-flashback che viene in mente al drammaturgo mentre è in viaggio sul treno che da Amburgo, nell’autunno del 1934, lo porterà a Stoccolma per ricevere solennemente il prestigioso Premio Nobel per la letteratura. Sarà un lungo viaggio durante il quale, in compagnia del fedele Saul Colin (Michele Placido, anche regista e coautore della sceneggiatura), ripercorrerà la parte più matura della sua vita, evocando le esperienze, l’umanità, le giornate, i desideri di un uomo irrequieto e geniale, ma soprattutto le passioni, le ossessioni e l’esistenza più segreta intrappolata fra l’amore dirompente e impossibile per quella Marta Abba che ha conosciuto e il burrascoso rapporto con la moglie, malata mentale, Antonietta Portulano. Oltre al legame conflittuale con i figli, il rapporto controverso con il fascismo e il sogno di un amore assoluto, quell’amore mai del tutto maturato con l’attrice su cui contava molto, sia per la rappresentazione delle sue opere nei teatri di tutt’Italia che per realizzarsi come compagno di vita. Ma tutto si fermava davanti ad un legame di grande ammirazione artistica da parte di lei, sicuramente anche affettiva, ma come quella che nasce tra un’adoratrice e il suo mentore, non di più. Mentre lui avrebbe gradito e atteso un rapporto più stretto.

Allo stesso modo in cui il maestro vedeva e filosofeggiava sulla differenza tra teatro e femminilità, Michele Placido ha voluto indagare sul personaggio facendo la spola tra la materialità dei problemi concreti della famiglia, la grave malattia psichica della moglie Antonietta (Valeria Bruni Tedeschi), il complesso legame con i tre figli a cui voleva certamente molto bene ma che trascurava per la sua arte, l’attrazione verso la donna dei suoi sogni, e l’altro mondo pirandelliano, il pensiero ed il tormento dello scrittore, il conflitto tra la fatica della scrittura e la liberazione attraverso la creazione. Anche rappresentato nella scena della camera da letto in cui la moglie vaga nell’irrealtà che vede nella sua mente malata e lui manco si accorge di ciò che vaneggia e dei gesti che compie, totalmente assorto nella fase di scrittura. Ancora due universi coesistenti ma distanti e paralleli, non coincidenti, soprattutto nella visione che più interessa all’uomo e all’autore.

In Marta lui vede la musa, la luce della vita; nella famiglia i riflessi dei suoi conflitti. Come accade per i figli, che spesso trascura e da cui riceve non sempre velati rimproveri di assenza non solo fisica. Questa operazione non era facile da portare sullo schermo mantenendo coerenza anche nel filo narrativo, ma Placido ha avuto il contegno di ammiratore devoto che trapela dalla visione, una sorta di devozione intellettuale. Lo dimostra per come ha voluto raccontare lo scrittore per ciò che era, senza indulgenza, perché è poi quello il modo migliore per onorarlo. Della sua figura, il regista racconta infatti che se ne è innamorato da giovane, quando frequentava l’Accademia d’Arte Drammatica. Per anni ha pensato di dedicargli un film, ma solo quando ha letto il testo dello scrittore agrigentino Matteo Collura “Il gioco delle parti. Vita straordinaria di Luigi Pirandello” tutto si è concretizzato. Ne è scaturita une regia essenziale e misurata, esattamente alla pari dell’interpretazione di Fabrizio Bentivoglio, credibile e pacata.

Ciò che mi ha destato stupore è la completa assenza dell’accento siciliano e non solo dei vari personaggi ma addirittura proprio di Pirandello e, data la presenza dell’attore veneto, credo che abbiano pensato di evitare inutili imitazioni e quindi Bentivoglio recita perfettamente alla sua maniera, con le sue solite espressioni, da grande attore, ma che mi è parso sin troppo Bentivoglio che Pirandello.

Valeria Bruni Tedeschi è forse l’attrice adatta per la povera consorte. Il suo talento polivalente la porta inevitabilmente a personaggi fuori di testa: Virzì ne sa qualcosa e Placido ne usufruisce di conseguenza. L’interprete femminile di primaria importanza è, come ovvio, Federica Vincenti, dal momento che la sua Marta Abba è importantissima per la trama e per il protagonista che l’adora e la vorrebbe amare. È la prima volta che la vedo e non intendo sbilanciarmi nei giudizi perché mi è sembrata un po’ “ingessata” sia per l’impostazione da recitazione teatrale sia forse per ciò che le avrà chiesto suo marito regista. Il resto del cast è di ordinaria amministrazione.

Il film punta molto sulla consapevolezza del personaggio verso la vecchiaia e la morte, e la conclusione che ci illustra le sue ultime volontà in merito alla destinazione delle sue spoglie ci spiega bene il modo con cui affrontava gli ultimi giorni. Un grande genio della letteratura mondiale del Novecento, enorme visionario capace di scrivere i drammi umani di persone alla ricerca di se stessi, chiedeva una partenza anonima, solitaria, umile. Paolo Taviani ci ha raccontato infatti quella fase ed il trasferimento delle ceneri in Leonora addio.

Nel complesso è un film dignitoso che sicuramente mirava in alto, ma è solo un buon film, con la sufficienza piena, ma non oltre.
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