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Fair Play (2023)


Fair Play

USA 2023 dramma 1h53’


Regia: Chloe Domont

Sceneggiatura: Chloe Domont

Fotografia: Menno Mans

Montaggio: Franklin Peterson

Musiche: Brian McOmber

Scenografia: Steve Summersgill

Costumi: Kate Forbes


Phoebe Dynevor: Emily

Alden Ehrenreich: Luke

Eddie Marsan: Campbell

Rich Sommer: Paul

Sebastian de Souza: Rory

Geraldine Somerville: madre di Emily

Patrick Fischler: Robert Bynes


TRAMA: Luke ed Emily sono felicemente fidanzati e lavorano entrambi per la stessa società di investimenti. Quando Emily riceve una promozione lavorativa, il rapporto tra i due degenera, mettendo a rischio il loro fidanzamento e tutto ciò che li circonda.


Voto 7

È l’esordio nel lungo della regista californiana Chloe Domont, classe 1987, una carriera fino a questo momento più che altro televisiva (tra le tante serie, Ballers e Billions), che con questa sua opera prima è stata in gara al Sundance Festival 2023. La risposta alla domanda di Emily (interpretata dall’ottima Phoebe Dynevor di Bridgerton) quando chiede al fidanzato Luke (Alden Ehrenreich) nell’apice del loro ormai continuo litigio che li sta conducendo inevitabilmente alla resa dei conti, è: “È tanto difficile credere che ho avuto il posto perché sono più brava?”, trova sbocco in una purtroppo triste e scontata affermazione. Sì, è difficile per tutti credere che la promozione di una giovane donna nell’arrembante società finanziaria dove lavora sodo da due anni, e dove è una delle pochissime donne assunte, sia davvero frutto della sua superiore efficienza o bravura. Nonostante Emily non abbia raccomandazioni né santi in paradiso, nonostante abbia spesso lavorato il doppio dei colleghi maschi, solo per ottenere a malapena la medesima considerazione, l’opinione generale è che probabilmente per accaparrarsi il posto abbia ceduto alle avance del capo, oppure che il suddetto capo l’abbia promossa nella speranza di ottenere successivi favori sessuali. Non è la mentalità più diffusa nel mondo maschilista? Direi proprio di sì. Nonostante i mille discorsi che si fanno ovunque, il sospetto che la donna abbia capacità almeno uguali al maschio non sfiora la mente della stragrande maggioranza degli uomini.

Erroneamente venduto come “thriller erotico”, il film è in realtà un durissimo dramma sociale e sessista, che assume le vesti di ritratto impietoso e tagliente del mondo lavorativo e delle infinite sfumature che alimentano il gender gap, la distanza - non solo economica - tra uomini e donne nel medesimo posto di lavoro. E non solo sul lavoro: quello del film è un dramma che si consuma soprattutto tra le mura domestiche, perché Emily, all’insaputa di chiunque in ufficio, è fidanzata con un collega, Luke: ogni giorno fingono indifferenza e di conoscersi come tanti altri colleghi, ciascuno seduto alla propria postazione nello stesso open space, prima di tornare ogni sera nell’appartamento che condividono e ai sogni che coltivano insieme. Si amano, convivono e progettano di sposarsi, ma devono tenere nascosta la relazione, che andrebbe contro la rigida policy aziendale. Tutto pare andare per il meglio, con una forte attrazione fisica che la regista esibisce con diverse sequenze erotiche, ma la promozione della donna a un ruolo per il quale entrambi erano ipoteticamente in lizza (Luke, anzi, era dato per favorito, prima che il loro capo Campbell - un sorprendete Eddie Marsan, sempre utilizzato in figure di secondo piano e che qui si rivela un eccellente stronzo che bada solo al profitto - scegliesse invece Emily) innesca un gioco al massacro subdolo e sinistramente realistico nel suo crescendo, che vede la complicità dei due cedere il passo all’invidia, al sospetto, infine alla vera e propria violenza.

Nell’ambito della società dove operano, la One Crest Capital, una impresa di investimenti finanziari che lucra pericolosamente nel campo degli hedge fund, cioè dei titoli azionari e obbligazionari che offrono alti rendimenti ma altrettanti e forse maggiori rischi, è vietato avere rapporti personali e frequentazioni tra i dipendenti, tutti analisti che devono continuamente osservare l’andamento dei mercati e suggerire acquisti e vendite speculando, appunto con altissime percentuali di rischio, sugli sbalzi dei valori di quei titoli. Lui è abbastanza bravo ma quando, a causa di errori che hanno comportato perdite all’azienda, viene licenziato in tronco un giovane che occupava un ruolo di rilievo, il posto vacante, secondo voci di corridoio, andrà a suo beneficio. Ed invece, a sorpresa, ma evidentemente perché Emily è superiore davvero a tutti gli altri, viene scelta lei da Campbell e dal suo braccio destro Paul. Apriti cielo! La prima reazione di Luke è di felicità e rallegramenti ma appare a qualsiasi occhio sveglio che in lui si è accesa fortemente la spia rossa dell’invidia e della rivalità, che non ci mette molto a tramutarsi in acerrima voglia di ostacolarla e fornirle, professionalmente, imbeccate sbagliate per farle commettere errori gravi. Come infatti succede con un grosso investimento da lei ordinato e che porta una forte perdita per la ditta, mettendola subito in cattiva luce davanti ai colleghi ma soprattutto al suo capo, il quale teme di aver sbagliato a darle il delicato incarico. Da qui alla discesa ripida verso le ripicche e la violenza il passo è breve e la relazione si trasforma in una lotta senza quartiere, all’ultimo sangue e neanche solo metaforicamente.

Sotto questo aspetto, sì, parrebbe un thriller. Ed invece la sostanza è ben altra. L’esordiente regista apparecchia in maniera lampante un manifesto femminista che non fa sconti: prima mostrando le difficoltà che incontra una donna nel campo professionale, poi irrobustendo l’atteggiamento della donna, che, vista la situazione, non esita a mettersi allo stesso livello comportamentale degli uomini, partecipando bellamente a serate di bevute colossali in locali esclusivi ma dove si esibiscono donne seminude in lap dance e distribuendo in prima persona, come un qualsiasi ometto infoiato, dollari a pioggia su quei corpi. Oppure stando al gioco delle barzellette triviali e così via. Facile immaginare come la gelosia di Luke tocchi tassi insopportabili, facendo aumentare il livello di tensione, in cui ci si può attendere solo uno scontro psicologico e fisico che porta inevitabilmente alla soluzione definitiva, di qualunque tipo essa sia. Ecco perché il dramma si tinge di giallo. Emily, costretta a dimostrarsi non inferiore su qualsiasi piano ai concorrenti colleghi e su quello esistenziale, non solo sta al gioco ma intuisce che l’unica via di sopravvivenza, in quel mondo ipersessista e ipercompetitivo è comportarsi alla pari se non peggio. Quando poi, in uno dei vari scontri fisico-verbali, si giunge ad un rapporto sessuale con chiari connotati violenti, quando cioè il sesso diventa stupro, il film raggiunge il massimo dello scopo. Dall’intesa intensa erotica tra i due, si è quindi giunti all’atto violento che, come sappiamo bene, se rappresenta la forza– fisica – dell’uomo è la prova della sua debolezza – mentale – che si sfoga con una presunta supremazia, in cui l’abuso lascia ematomi ed uccide l’amore. Eppure, lei stava cercando una soluzione di compromesso per ripianare gli attriti, perché, in fondo, amava il partner, non voleva buttare alle ortiche la felicità vissuta prima e ci provava con alcuni SMS di diverso tenore (invito erotico, avvicinamento amicale, appuntamento al ristorante) ma subito cancellati, perché un minimo errore sarebbe costata la definitiva rottura. Ma l’espressione di Luke, peggiorata di scena in scena, episodio dopo episodio, non lascia dubbi e che possa compiere qualche atto criminoso sembra probabile. Ma la donna, quando ci si mette – scusate la banalità – non è seconda a nessuno ed Emily sa sempre come cavarsela, con coraggio, mai temendo per la sua integrità fisica o addirittura la vita. Il rischio che ci si vada vicini esiste.

Dov’è il fair play del titolo? Dov’è la correttezza che ci si attende, specialmente all’interno di una coppia che si dice innamorata? Invece ecco spiattellati il maschilismo, il sessismo, anche nello sgomitare tra colleghi in una professione in cui per istituzione vige la sopraffazione finanziaria, la prevaricazione degli interessi propri ai danni di quelli degli altri, dove il profitto è l’unico dio che detta il ritmo della professione, dove – come qui – l’unico svago è l’alcol e la “scopata fino a morire”. Dove naufraga, per gli stessi motivi prima indicati, l’unico sentimento che salva l’essere umano e che lì, guarda caso, è vietato tra di loro. Non ci si deve distrarre dall’analisi dei dati e la insana competizione tra loro (persino tra due innamorati) deve incentivare i risultati. Fatto sta che giunti al culmine nello scontro decisivo – un finale raggelante ad alta tensione, chiamiamolo pure cruento chiarificatore – per far chiedere “scusa” all’uomo ci vuole per forza una donna con un coltello in mano. E lui manco vuole arrendersi a farlo: in questo campionato finto, il maschio, se l’avversario è una femmina, si sente vincitore prima di iniziare. Quindi se sta vincendo lei, dice la logica che va di moda, vuol dire che “l’ha data” o l’ha promessa. Ahi, che tempi! Forse solo il dio danaro/profitto può superare l’aberrante mentalità ed è per questo che il personaggio fintamente infingardo di Campbell sembra non voler approfittare delle donne perché gode maggiormente a maltrattare e stalkerare i dipendenti a prescindere dal sesso o dalle tendenze gender. Insomma, le possibilità di prevalere per una donna sono un campo ridotto e se non ha la forza d’animo e la caparbietà cattiva per combattere e affilare le armi (qui, più che mai) difficilmente ce la fa.

Al suo esordio dopo diverse serie TV e corti, questa Chloe Domont, presentatasi al mitico Sundance 2023 – buon biglietto da visita - non arriva male al primo traguardo, con idee chiare, scritte con sagacia e con l’obiettivo ben stampato nella testa e mostra con limpidezza come l’esperienza in TV l’abbia aiutata molto a manovrare la camera da presa sulla scena e quanta abilità abbia nel dirigere gli attori. Di sicuro un film dove non c’è pausa e la tensione cresce di minuto in minuto, gestita sapientemente. La aiutano certo le prove dei due protagonisti: Phoebe Dynevor è un’attrice davvero talentuosa e primeggia sulla scena con una padronanza da esperta. I passaggi tra donna attraente (è carinissima ma certamente non è conturbante) a vittima impaurita fino a tigre aggressiva li interpreta con audacia ed efficacia e alla fine si fa tutti il tifo per lei, come Emily ma anche come Phoebe. Mi è piaciuta molto e spero di rivederla in un altro film con un ruolo altrettanto impegnativo. Tanto brava da mettere in secondo piano il buon Alden Ehrenreich, che ha già importanti presenze con Park Chan-wook, Allen, i fratelli Coen, Ron Howard ed il recente Oppenheimer di Christopher Nolan. Attore che sa qui percorrere con espressività la mutazione del suo maschio. La sorpresa viene invece da Eddie Marsan perché quando lo vedo in ruoli importanti sono felice per lui, dopo tanti secondi piani.

Buon film, promettente per gli attori e per la regista.


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