Felicità
Italia 2023 dramma 1h44’
Regia: Micaela Ramazzotti
Sceneggiatura: Isabella Cecchi, Alessandra Guidi, Micaela Ramazzotti
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Jacopo Quadri
Musiche: Carlo Virzì
Scenografia: Paolo Sansoni Baratella
Costumi: Catia Dottori
Micaela Ramazzotti: Desirè Mazzoni
Matteo Olivetti: Claudio Mazzoni
Max Tortora: Max Mazzoni
Anna Galiena: Floriana Mazzoni
Sergio Rubini: Bruno
Beatrice Vendramin: Ludovica
Marco Cocci: Riccardo Montero
Massimiliano Franciosa: Luciano
Giovanni Veronesi: se stesso
TRAMA: La storia di una famiglia formata da genitori egoisti e manipolatori che compongono un mostro a due teste in grado di divorare ogni speranza di libertà per i loro figli. Desirè è l’unica in grado di salvare il fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per avere la libertà di inseguire uno spicchio di felicità.
Voto 6,5
È scattato evidentemente qualcosa nell’intimo di Micaela Ramazzotti per far sì che avvertisse la necessità di scrivere, almeno come soggetto, una storia come questa che ha sicuramente del personale, della propria vita. Perché ogni volta che accade è liberatoria, è una confessione, è una liberazione. Non per niente è una storia di affrancatura dai mali e dalle radici tossiche di una donna e della persona a cui vuole davvero bene. Desirè e Claudio (“anime buone, talmente buone da risultare scemi agli occhi dei genitori e degli altri perché, se sei troppo buono in questa società sei scemo, sei stupido” dice la regista) sono vittime prima inconsapevoli poi coscienti di una malattia familiare che li stava uccidendo mentalmente, in special modo il secondo, sicuramente più debole. La sorella, invece, pur restando allacciata perché, in fondo, quei genitori sono la sua famiglia, anche se disturbata e tossica e non si è mai staccata del tutto, è più resistente e ha trovato, in maniera anche incostante, la forza di uscirne anche se non totalmente. Se ciò non è mai avvenuto è stato solo per amore del fratello, non volendolo abbandonare tra le grinfie deleterie dei genitori. È troppo sentita, questa storia, troppo emotivamente partecipata per come è stata scritta e interpretata, e poi spiegata dall’attrice/regista/sceneggiatrice nelle dichiarazioni all’uscita nelle sale. Lei non dice che è autobiografica – e speriamo non lo sia – ma non appare frutto solo della fantasia creativa. E come debutto dietro la macchina da presa non è certo passato inosservato.
Il quadro non è molto felice. I Mazzoni sono una di quelle famiglie che oggi si ama definire disfunzionali e che l’autrice ama chiamare storte, che forse indica meglio la mentalità sbilenca che predomina nella loro casa. Desirè (Micaela Ramazzotti) è una giovane donna della periferia romana (per la location l’artista ha scelto gli edifici casermoni di Fiumicino) che lavora come acconciatrice nel mondo del cinema, dove, purtroppo, è soprannominata “bicicletta”, perché più o meno un giro se lo sono fatti tutti. La sua vita è un caos: non riesce a trovare un equilibrio con sé stessa, con il compagno Bruno (Sergio Rubini), un professore universitario completamente diverso da lei, e soprattutto con i genitori, interpretati da Max Tortora e Anna Galiena. Due genitori che assomigliano più a dei mostri che a degli esseri umani. L’ultimo membro della famiglia è il fratello Claudio (Matteo Olivetti), un ragazzo ingabbiato, più che tra le mura di casa, tra i limiti, le aspettative, le costrizioni e l’invadenza psicologica esercitata da mamma e papà, purtroppo incapace di reagire alle loro imposizioni. Il giovane inizia a soffrire di depressione, di disturbo bipolare e sbalzi d’umore. Desirè è l’unica che si rende conto della gravità della situazione, a differenza dei genitori che continuano a denigrarlo. La sorella decide allora di ricoverarlo in un centro di salute mentale, nonostante la famiglia non approvi. Con la conseguenza che le vessazioni che si abbattono su Desirè aumentano.
Questi genitori - egocentrici, egoisti, piccoloborghesi, lui baby pensionato, lei casalinga che asseconda il partner, orripilanti, di mentalità qualunquista e razzista - assenti ma presenti quando soprattutto a loro conviene (le fanno firmare documenti per prestiti gestiti anche da strozzini), sono la prigione mentale dei due figli ma solo lei ha la consapevolezza e la forza di carattere(anche perché ormai resasi economicamente indipendente) per intuire che la felicità è altrove, specialmente se fuori da quella casa e lontano da quei genitori manipolatori e fin quando Claudio resterà prigioniero non conoscerà la salvezza che lei invece intravede. La sua scialuppa di salvataggio è rappresentata da Bruno, uomo che tenta ogni espediente per tirarla fuori dalla palude familiare ma con insuccesso perché lei si fa sempre ingannare e intenerire dalle necessità dei genitori. Uomo costretto a sopportare la leggerezza con cui lei accetta le avances dell’ambiente di lavoro. Desirè è “facile” nei rapporti con gli uomini ma tenace nel salvaguardare gli affetti che rappresentano un punto di riferimento, un rifugio.
Nel momento peggiore, come succede sempre, si emerge trionfando oppure si soccombe definitivamente e Desirè non vuole che questo accada. Difatti, quando tutto pare sprofondare, quando pare stia perdendo ogni cosa importante della sua vita (lavoro, amore, genitori) ecco lo scatto di dignità, la reazione vincente, la liberazione dai vincoli limitativi: lì, all’orizzonte c’è il treno della felicità: se vi si sale è la rivincita, se si ha ancora paura c’è l’inferno. Ma ancora una volta lei deve rinunciare all’affermazione personale e sente l’obbligo di sacrificare se stessa per chi è stato sempre peggio. Il sorriso, finalmente, del fratello è una sua vittoria e anche una sua porzione di felicità.
È una tragicommedia all’italiana, concepita dalla Ramazzotti con evidente consapevolezza della materia trattata, che affronta il tema della salute mentale non in maniera scherzosa da commedia come aveva fatto l’ex marito Paolo Virzì, ma dal lato serio e impegnato, come fosse un argomento tabù che il cinema italiano ha sempre evitato, mettendo però sul crogiuolo dei responsabili le persone che avrebbero dovuto vigilare affinché ciò non avvenisse, cioè i genitori che spingono e trattengono, che istigano e frenano, che fingono gesti di affetto ed invece fanno del male, che non hanno gli occhi né le capacità per capire i gravissimi danni che stanno arrecando.
L’opera prima di Micaela Ramazzotti ha indubbi pregi e inevitabili difetti. Da un lato c’è tutto l’impegno sincero e commovente di chi ha innegabilmente qualcosa di autentico da raccontare con molta umanità e coerenza, l’emotività necessaria affinché tutto si traduca in un’opera che arrivi al cuore del pubblico, la dote di saper coinvolgere anche i colleghi di recitazione. Doti che non erano scontati per un esordio. Lo dimostra l’entusiasmo con cui gli esperti Sergio Rubino in primis e poi Max Tortora e Anna Galiena (due bravissimi e orripilanti genitori) hanno affrontato i loro ruoli, dei cui personaggi è evidente la compartecipazione. Come anche la scelta degli ambienti e le buone inquadrature: i condomini popolari di Fiumicino come caserme in cui gli appartamenti piccoli e costrittivi racchiudono le ristrettezze morali. O come l’ambiente da set che ben conosce e che ha saputo fotografare. Di contro qualche scena slabbrata, da correggere, qualche passaggio a vuoto, che sono particolari perdonabili ad un’esordiente che, quando si è messa davanti all’obiettivo, ha mostrato di saper recitare benissimo. Lei è un’ottima attrice e ha fatto bene a prendersi la responsabilità diretta della protagonista: chi poteva raccontare meglio gli sconquassi psicologici di un tale personaggio, che ha probabili riferimenti autobiografici?
Ci si può azzardare anche ad affermare che non è detto che i protagonisti siano i figli e che invece siano i genitori, perché è dal loro comportamento tossico che scaturisce la crisi dei giovani, sono loro la causa delle insicurezze e della mancata emancipazione, specialmente del maschio che non è capace di svincolarsi, mentre la femmina è andata via ma non se ne libera definitivamente. Insomma, il treno, locuzione e metafora che ripete continuamente il personaggio di Max, va preso per diventare grandi e autonomi, pena restare sempre sul marciapiede della casa. Ed infatti è quello che fa finalmente Claudio accompagnato dall’emozione di Desirè nell’ultima scena, unitamente a quella patetica dei genitori incatenati ad una vita artistica di periferia.
Felicità è non avere più paura di essere sbagliati.
Micaela Ramazzotti è bravissima e merita solo elogi per le intenzioni, l’impegno e per essere stata se stessa con tutte le caratteristiche di chi guarda e ama le donne “storte”; Matteo Olivetti è apprezzabile; Max Tortora si è detto entusiasta del ruolo e commosso per i contenuti, e insieme ad Anna Galiena formano una buona coppia insopportabile, che quindi ha funzionato; Sergio Rubini è come sempre una presenza preziosa e si nota come si sia messo a disposizione offrendo impegno e stima per l’intera operazione. Il cast tecnico è di ottimo livello, ad iniziare dal direttore della fotografia che è una vera firma eccellente, Luca Bigazzi. E si nota.
È un film certamente positivo per essere un esordio, che merita ammirazione: ora c’è la curiosità per vedere se, oltre al tema a cui teneva tanto, Micaela Ramazzotti abbia l’occasione e le idee per confermarsi.
Riconoscimenti
2023 – Festival di Venezia
Vincitore del Premio Spettatori - Sezione Orizzonti
2024 – David di Donatello
Candidatura miglior esordio alla regia
Candidatura miglior attrice protagonista a Micaela Ramazzotti
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