France
Francia/Germania/Italia/Belgio 2021 dramma 2h13’
Regia: Bruno Dumont
Sceneggiatura: Bruno Dumont
Fotografia: David Chambille
Montaggio: Nicolas Bier
Musiche: Christophe
Scenografia: Erwan Le Gal
Costumi: Alexandra Charles
Léa Seydoux: France de Meurs
Benjamin Biolay: Fred de Meurs
Blanche Gardin: Lou
Alfred de Montesquiou: Alex
Emanuele Arioli: Charles Castro
Juliane Köhler: madame Arpel
Gaëtan Amiel: Jojo
Jawad Zemmar: Baptiste
Noura Benbahlouli: madre di Baptiste
Abdellah Chahouat: padre di Baptiste
Marc Bettinelli: Lolo
TRAMA: Una celebrità giornalista, destreggiandosi tra la sua intensa carriera e la sua vita personale, vede la sua vita stravolta da un incidente d’auto.
Voto 6 –
France De Meurs, una giornalista televisiva che guadagna cifre esorbitanti e gode di grande popolarità, è così assorbita dalla creazione di immagini da riportare nella sua celebratissima e seguita trasmissione televisiva, fatta di talk show e reportage, che ha perso la capacità di distinguere la realtà del dolore dalla sua rappresentazione scenica. Questa figura, al contempo tragica e comica, affascinante e repellente, si adatta perfettamente alla distanza emotiva e al freddo calcolo che Léa Seydoux conferisce ai suoi personaggi, spesso descritti come (anti)eroine. Nel contesto di un film incentrato sulla credibilità della donna sia nel suo ruolo di giornalista sia nella sua capacità umana di empatizzare, la Seydoux offre una performance che oscilla magistralmente tra l’essere un mostro e una vittima, incarnando il vuoto interiore che la abita. L’attrice si sposa alla perfezione con il personaggio perché lei stessa ha una visione della professione che si trova in sintonia con quella del regista Bruno Dumont, essendosi già espressa in altre occasioni con una frase sufficientemente esplicativa: “Il reale, per me, non è la verità.”
Nonostante queste belle premesse e l’entusiasmo della critica ufficiale, ho trovato il film parecchio claudicante, sia per alcune incongruenze e il soffermarsi eccessivamente nei primi piani dedicatele, sia perché mi ha dato l’impressione della celebrazione di una martire beata con lo sguardo molto spesso levato al cielo, come appunto una santa spinta dall’ispirazione divina. Da diva a divina il passo dialettico è infatti breve, è più di un gioco di parole.
È la storia di una giornalista star di un canale che trasmette solo notizie per 24 ore al giorno, sullo sfondo di un mondo fortemente sconvolto da quell’universo quasi parallelo dei media e dei social network. La società ha perso parte della sua normalità e degli equilibri naturali a causa di una società iperdigitale e comunitaria. L’ipertrofia del nuovo pensiero porta a un disordine che dà una nuova interpretazione della realtà, la distorce e la sconvolge ulteriormente. Queste le parole di Dumont e la dimostrazione pratica la si scopre osservando la protagonista in azione: nello studio (dove porta una pettinatura che ricorda Catherine Deneuve) è assolutamente una diva per eccellenza e tutti amano andare a farsi intervistare nella sua trasmissione o a partecipare ai dibattiti, mentre quando è sul campo, cioè nei teatri di guerra (vedi il Medioriente e l’Africa Centrale) rischia continuamente la vita ma non per eroismo giornalistico bensì per farsi inquadrare dagli spaventati operatori e dalle guide locali che l’accompagnano. L’importanza primaria per lei è essere inquadrata al meglio, sempre in primo piano, creando persino false situazioni drammatiche, tipo salire su un gommone di migranti-comparse che salpano dalle spiagge nordafricane verso l’Italia. L’essenziale, insomma, è che sia la protagonista assoluta delle immagini, in seguito montate ad arte per esaltare le sue imprese di grande reporter. Ed infatti, quando vediamo il dietro le quinte dei suoi servizi, la sua preoccupazione non è solo la rigorosa verità giornalistica, bensì la messa in scena di sequenze che la mettano in mostra.
La sua autoesaltazione viene maggiorata dalla delirante, cinica e adulatrice assistente Lou (Blanche Gardin), che non smette in ogni occasione - in regia, nei trasferimenti affannosi, in auto, in ogni momento della frenetica vita che vive - di esaltarla e magnificarla in maniera assurda ed eccessiva. “Sei un icona!”. Comportamento che appaga e gonfia l’ego di France, persona che viene continuamente fermata per strada per un autografo o un selfie che lei sistematicamente rifiuta, infastidita come una diva che gode della popolarità ma che mal sopporta scendere lo scalino tra lei e i tantissimi ammiratori. L’altra faccia della medaglia è, come da schema classico, il modo in cui trascura la famiglia in una casa dove i rapporti sono sempre tesi. È sposata con Fred (Benjamin Biolay) e ha un figlio, Jojo, familiari con cui si relaziona con scarso affetto e pazienza, sempre col pensiero rivolto alla prossima puntata del suo notiziario in cui deve sciorinare la sua abilità e la sua maestria per le espressioni false ma adeguate al contesto trattato.
Un castello che pare di roccia ma che si rivela invece di cartapesta una mattina, mentre accompagna il figlio a scuola, quando tampona un fattorino in scooter, il giovane Baptiste, povero, brutto, strabico. L’evento viene immediatamente sfruttato dai social network inducendola a rendersi conto della fragilità della sua popolarità. Sinceramente colpita dalla sorte del ragazzo mandato in ospedale, va a trovarlo anche a casa, una piccola famiglia di magrebini, adoranti anch’essi, e decide di aiutarla contro il parere del marito, arrivando a fare beneficenza fino a cifre esorbitanti. Inaspettatamente, a causa di questo episodio, cade in una crisi sprofonda e nella depressione, sino a decidere addirittura di abbandonare l’antenna. Il che manda in scompiglio, come prevedibile, l’assistente Lou e i suoi fans. Lo psicologo non basta e va a soggiornare in una clinica svizzera dove conosce Charles Castro (Emanuele Arioli), di cui si innamora e per la prima volta tradisce il marito
Tradire? Il sesso? Finora è stato un argomento per nulla entrato nella narrazione di Dumont, è un tabù assoluto per un personaggio così: France è molto bella (sfido, è Léa Seydoux!), sempre ed in ogni occasione con un trucco che esalta tutto il fascino che possiede, vestita con abiti firmati molto belli, eppure lei non ha tempo per i sentimenti, trascurandoli anche per i due familiari. Anzi, a proposito dei suoi vestiti, va precisato che la costumista Alexandra Charles è stata molto brava, vestendo Léa Seydoux con una serie di abiti che riflettono il mondo di successo della protagonista: sono eleganti e sofisticati, spesso caratterizzati da colori neutri e tagli moderni, che rispecchiano la sua immagine pubblica di professionalità e glamour, che senz’altro aiutano a sottolineare il contrasto tra la sua vita pubblica scintillante e le lotte personali più intime che sorgono più tardi. Ma è proprio a causa di questo giovanotto che France accusa il colpo peggiore e più basso della sua vita, che la condizionerà per il futuro, fino a farle cambiare idea sulla sua esistenza. La delusione ricevuta (non spoiler) la proverà duramente.
La France, che si chiama come il suo Paese, di Léa Seydoux guarda come una beata verso l’alto; piange a più riprese neanche fosse Viola Davis; riempie di sé lo schermo e la sua vita e quella degli altri; vive 24 ore al giorno per 7 giorni l’arte del giornalismo come va di moda, del reale che anche se non è reale lo si fa diventare; nei tempi in cui più non hai tempo per te e la tua famiglia più hai uno status; vive nella sua bolla fino a quando manda in ospedale un giovanotto ma non aprendole gli occhi ma (s)travolgendola come un’onda anomala, tanto anomala è la sua inversione a U; non si esprime quando un’anziana signora imbellettata le chiede se è di destra o di sinistra, talmente non si è mai sbilanciata nei suoi talk show alla “Otto e mezzo”, ma facendo sempre le faccine giuste a seconda delle parole degli ospiti; si risveglia dopo il tonfo e scopre che può provare ad abbandonare tutto e tutti, fare a meno delle adulazioni eccessivamente entusiaste della segretaria e perfino innamorarsi, salvo rimanere fregata con il medesimo cinismo con cui lavorava. Che personaggio è France?
Per dimostrare che la finzione ha preso, nei nostri giorni, il sopravvento sulla realtà, Bruno Dumont costruisce appositamente un film che gioca e rimbalza tra i due concetti e mette al centro dello schermo una donna che non è più capace di separarli e li confonde in una miscela unica, facendola diventare l’unica parvenza ammissibile, salvo poi spaventarsi e deprimersi quando il mondo personale, che si è creato, le crolla addosso, mentre il resto continua imperterrito. Dimenticandola e ritrovandola appena tornata. Come dice il regista, France de Meurs incarna la giornalista star del sistema mediatico: un’eroina cinematografica dalla coscienza tragica, tutta illuminata e tutta umana. Lei è l’allegoria di un sistema divenuto oramai una macchina per diventare brutale: la rappresentazione di un evento conta più dell’evento stesso.
Come dicevo nell’incipit, al contrario della critica ufficiale italiana (che forse è l’unica che ne è rimasta entusiasta) ho trovato il film utile per riflettere ma inutile dal punto di vista artistico, trovandolo bruttino e mal realizzato, con sbadataggini che danno fastidio. Osservate, per esempio, quando il marito Fred sta guidando prima della disgrazia: muove continuamente lo sterzo dell’auto nella maniera più classica dimostrando che non sta guidando affatto (per non parlare della costruzione della scena dell’incidente, assurda); inserisce simbolismi che non incidono nella storia, come quella di un giovanotto arrabbiatissimo che spacca una bicicletta parcheggiata come rappresentazione della frustrazione e della rabbia giovanile, un’espressione di ribellione contro le circostanze o le ingiustizie percepite, in quanto, come sappiamo, la bici è sempre simbolo di libertà e indipendenza e di conseguenza questa scena potrebbe anche riflettere il tema principale del film, che esplora le tensioni tra l’immagine pubblica e la realtà privata, e come le persone reagiscono alle pressioni della società; oppure la leva dell’audio della regia che Lou sbadatamente fa scivolare in giù (siamo in un film di Stanlio e Olio?) causando un incidente di trasmissione che fa infuriare i telespettatori; e via dicendo altre scene senza cura. Forse la peggiore scena di tutte è la prima sequenza, allorquando la giornalista si reca, con l’inseparabile assistente, all’Eliseo per una conferenza stampa di Macron, in cui le mossettine e le smorfie tra le due paiono l’introduzione di un film comico con Jim Carrey e il fatto che ciò avviene in un salone pieno zeppo di giornalisti, fotografi, cameramen e poliziotti e nessuno se ne accorga, fa impressione. Negativa. A tal proposito va precisato che quella conferenza stampa si svolge per davvero davanti al Palazzo, nel cortile d’onore e nella sala di ricevimento, ma Macron, sebbene appaia nel film e sembri dialogare con France, non ha partecipato alle riprese del film e che questa sequenza è stata realizzata grazie a un montaggio di immagini d’archivio. E maldestramente.
I pianti frequenti della protagonista sono troppi, fanno distrarre, sembrano pause per lo spettatore, svilendo quell’atto così drammatico, quando invece sarebbero bastati solo alcune significative volte. L’interpretazione, poi, del giovane Emanuele Arioli è una mazzata definitiva all’arte della recitazione, al limite della decenza: rigido, inespressivo come un manichino, fermo. Chi si salva è solo la grandissima Léa Seydoux, che dà il meglio di sé pur se non utilizzata al meglio dal regista, è il pezzo pregiato dell’opera nonostante si sia dovuta attenere alle indicazioni di Dumont.
Oltre agli argomenti trattati, il film ha lo scopo preciso di fare la morale ai media e ai social per come vengono intesi, utilizzati e sfruttati da chi ci guadagna. La morale è una conclusione a cui il cinema non dedicava attenzione da tempo e sentirsela fare oggi in un film spiazza non poco. In parte è spiegata dalle parole di Buno Dumont prima riportate e da un’altra dichiarazione: “Una meditazione sui media di oggi, sia sul set che nel teatro delle operazioni. Molte brave persone nel giornalismo sono intrappolate in un sistema che le schiaccia completamente. Com’è possibile che persone così intelligenti arrivino a considerare così poco il pubblico per fare cose così volgari? Si tratta di un’alienazione del pubblico con il pretesto dell’intrattenimento.” E poi, a mo’ di conclusione moralistica e pessimistica, ci sono le frasi pronunciate dalla malinconica France nel finale, prima di poggiare la testa, come ha già fatto tante altre volte durante l’intero film, sulla spalla dell’interlocutore di turno (espediente che al regista è parso importante inserire): l’intimorito mediorientale che fa da guida, il giovane Baptiste, più volte il pentito Charles.
“La vita rimettere le cose al loro posto. Ci sono dei veri mostri, lo sai? Ti ho amato così tanto, tantissimo. Ero stanca del mio mestiere, sai, di tutta la mia celebrità. Tu eri fuori da tutto questo circo. Ah, e invece no. Ma che importa! Ma il mio mestiere è il mio mestiere, lo accetto, lo prendo per quello che è. Non credo più in un futuro luminoso, al progresso, all’ideale. Tutto ciò è morto e tutto ciò ci fa tanto soffrire, lo capisci? C’è solo il presente, questo momento è il tutto. Non c'è più ragione di essere niente, rimandiamo sempre il presente, ma è adesso, Charles.”
La quasi sufficienza è solo dovuta all’interpretazione della bellissima Léa, il resto è mediocre ed il peccato maggiore è che c’era certamente bel buonissimo potenziale, ma è andato sprecato, tanto che il film, presentato in concorso a Cannes 2021, non ha avuto alcun riconoscimento al di fuori di quello per l’attrice, per giunta solo candidata ai César 2022 e in campo internazionale non ha avuto recensioni molto positive.
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