Fremont
USA 2023 dramma 1h31’
Regia: Babak Jalali
Sceneggiatura: Carolina Cavalli, Babak Jalali
Fotografia: Laura Valladao
Montaggio: Babak Jalali
Musiche: Mahmood Schricker
Scenografia: Rob Riutta
Costumi: Caroline Sebastian
Anaita Wali Zada: Donya
Gregg Turkington: dottor Anthony
Jeremy Allen White: Daniel
Hilda Schmelling: Joanna
Avis See-tho: Fan
Siddique Ahmed: Salim
Timur Nusratty: Suleyman
Eddie Tang: Ricky
Jennifer McKay: Lin
TRAMA: Donya, 20 anni, era una interprete afgana che lavorava in patria per l’esercito degli Stati Uniti. Ora vive da sola a Fremont, in California. La sua vita cambia quando viene addetta a scrivere messaggini per i biscotti della fortuna in una fabbrica di una coppia cinese.
Voto 7,5
L’America. L’immensa terra americana che accoglie, respinge, custodisce, nasconde: dai nativi ormai sepolti dalla Storia agli attuali abitanti, ritenuti a torto i veri americani. Lì affluiscono persone di diverse etnie da tutto il mondo che si raccolgono preferibilmente in quartieri coesi e tante volte isolati. A Fremont, in California, non molto lontano da San Francisco, c’è la più grande comunità afgana degli USA e lì è approdata Donya, che anni prima lavorava come interprete per i militari americani e per questo è stata privilegiata nel poter espatriare, a differenza di altri colleghi che, come racconta, o sono stati uccisi dai talebani per la loro collaborazione, oppure sono rimasti intrappolati in quel luogo. Come la sua famiglia, d’altronde, che ora, afferma, è minacciata proprio per la sua fuga. Il senso di colpa che la affligge a causa di questa situazione l’ha resa insonne e non c’è verso di poter riposare per bene la notte.
Donya è una bella ragazza ma, purtroppo, ritenuta traditrice agli occhi dei suoi compatrioti per il suo trasferimento negli Stati Uniti. Oggi lavora in un piccolo laboratorio cinese che produce i famosi “biscotti della fortuna”, dove il lavoro monotono (lavorare la pasta, stampare i biscotti, dare la forma caratteristica, inserire il mitico bigliettino tipo Baci Perugina) la tiene occupata tutto il giorno mentre la mente divaga o chiacchiera con le poche colleghe – anch’esse immigrate - del più e del meno, specialmente degli appuntamenti al buio con qualche uomo per poter trovare una sistemazione e metter su famiglia, com’è giusto che sia. Al computer, per stampare i biglietti delle previsioni d’oroscopo e frasi augurali, lavora una anziana cinese che, un giorno, all’improvviso crolla sulla tastiera. Morta di colpo.
La coppia di cinesi di seconda generazione che gestisce l’avviatissima attività è composta da Ricky e Lin: il marito è una persona gentile, estroversa e premurosa verso le dipendenti e non fa mancar loro mai un sorriso, un permesso per necessità; lei è l’opposto: severa, arcigna, sempre vestita e truccata come dovesse andare ad una festa. La morte della vecchia diventa un’opportunità per Donya, incaricata adesso di mettersi al pc e inventarsi gli aforismi e quant’altro da inserire nelle bustine dei biscotti. La sua vita comunque resta monotona, vivendo da sola in una piccola camera di un edificio abitato con altri immigrati afghani e spesso cena da sola nella trattoria etnica di Aziz guardando una soap opera piuttosto trash, una delle poche persone con cui interagisce oltre ai suoi vicini e le colleghe. Mentre un altro connazionale, marito di un’amica, non le rivolge parola e non le risponde neanche alle domande, ritenendola, anche lui, una traditrice.
A causa del problema dell’insonnia, inizia una terapia con uno psichiatra appassionato del romanzo di “Zanna Bianca”, il dottor Anthony, che può permettersi solo grazie ad un piccolo stratagemma. Silenziosamente Donya lotta per rimettere in ordine la sua vita e per superare la solitudine che la sua condizione di esule comporta. In un momento di disperato bisogno di compagnia romantica decide di inviare un messaggio non nella bottiglia classica da lasciare alle onde ma in uno dei suoi bigliettini su cui lavora, su cui lancia un appello con il suo numero di cellulare. Sarà la svolta ma, purtroppo, almeno inizialmente, non come sperava e cade in un tranello. La sorte le sembrerà amarissima a prima battuta ed invece si rende conto che è davanti all’occasione che da tempo attendeva. Determinante sarà un cervo, non sacro ma fortunato, decisivo. L’incontro fortuito e felice sarà con un meccanico solitario, gentilissimo, perfino timido, Daniel (che ci fa un divo come Jeremy Allen White in un film di questo genere e con attori non professionisti?).
Il film dell’iraniano occidentalizzato Babak Jalali, anche cosceneggiatore e montatore, è gentile e quieto come i migliori personaggi della trama, è leggero e delicato come un’anima poetica, è fiducioso e a tratti pessimistico come il carattere di Donya, è in un bianco e nero che tende al grigio diffuso, come la protagonista, la bella e semplice afgana che, quando decide di sorridere, illumina sé e l’intero schermo. Anaita Wali Zada è una bella ragazza nata a Kabul che diventa bellissima quando lo fa. Il suo personaggio lo si guarda all’inizio con diffidenza e curiosità e si cambia completamente giudizio guardandola all’opera, capendo i problemi e le spine che la trafiggono. La si ama perché si fa voler bene. Il trauma psicologico che la tortura e non la fa dormire l’ha spinta alla solitudine e all’amarezza e quando le fanno delle domande, in particolar modo lo psichiatra, se si trova in difficoltà resta impassibile e non parla, se le va a genio risponde positivamente con un “mh mh” musicale che incoraggia a continuare.
Sentendosi vuota e colpevole (ingiustamente, aggiungiamo noi), esclusa da un mondo mentre ne cerca un altro, che sia geografico oppure umano, in un mondo vago come un Paese che sa nascondere sia il bene che il male, dove tutti si muovono distrattamente e possono anche non vederti, un posto dove anche una immigrata come Lin ti tratta come una subalterna al suo servizio, succede che Donya viva in modo astratto, aspettando chissà chi e cosa. Per questo teme per un futuro incerto, indecisa se accettare l’invito da parte di uno sconosciuto anonimo o provare ad azzardare. Per poi scoprire che il fato può riservare un’officina con dentro un meccanico dal cuore come il suo, nascosto nella provincia americana, sfondo delle storie più disparate raccontate dal cinema.
Pause, silenzi, parole soppesate. Spaesamento, estraneità. Migrazione, agglomerati di immigrati come corpi estranei a quella terra. Che, eppure, vivono e lavorano lì. Storie e fotografie di vite che entrano nelle statistiche in misura vaga. Un film fatto di esuli invisibili che, si scopre, trovano l’anima gemella, ma anche la mente e il cuore, tra gli indigeni invisibili. Con le speranze e gli auguri come si legge in quei bigliettini dei biscotti della fortuna, in cui, forse, sono giusto quei pezzi piccoli di carta che portano fortuna. Tant’è che, se Donya non avesse scritto il suo numero di telefono, non avrebbe avuto il messaggio infido prima e il conseguente incontro poi.
Una scoperta, questo film, una bella sorpresa: un regista che ha qualcosa di gentile da raccontare in maniera innovativa ed originale, con l’aiuto della scrittura di una italiana che si sta facendo notare - Carolina Cavalli, Premio Solinas Experimenta, un film da regista (Amanda), tra i pochi distribuiti in campo internazionale come esordiente – e la proposizione di un’attrice che attira l’attenzione. Anaita Wali Zada è una novità notevolissima, che recita la sua Donya con un talento naturale come se lo avesse sempre fatto, che, seduta o immobile in piedi, esprime tutto il necessario con il minimo indispensabile ma sempre intuibile, che rifiuta il superficiale ma bada all’essenzialità del gesto e della parola.
La sua aria melanconica è quella di chi non riesce a perdonarsi una colpa che in realtà non ha e che solo superando il trauma che vive quotidianamente potrà rasserenarsi e dormire la notte. Forse, per fortuna, la bontà e la sensibilità di Daniel riusciranno ad aiutarla nel percorso. Cominciando da un caffè. Probabilmente, la brava attrice ha saputo utilizzare il suo non facile passato di giornalista che in patria l’aveva resa veramente un bersaglio per i talebani. Anche Jeremy Allen White dà un determinante contributo con la sua piacevole interpretazione, molto intonata al film e alla personalità della partner.
Solo elogi per l’ottimo Babak Jalali, quindi, che non solo sa sfruttare con intelligenza l’attrice protagonista, ma un po’ per la fotografia in bianco e nero, un po’ per l’atmosfera che ha saputo creare, rammenta non poco un cinema che ricorda Jim Jarmusch (Coffee and Cigarettes e non solo) o Kaurismäki e le produzioni tipicamente indie (è stato in concorso al Sundance e ad altri festival di cinema indipendente). Film con accenti ironici (“Non so se sia la serie a essere interessante o la mia vita a non esserlo”, dice il ristoratore Aziz), nonsense sparsi qui e là, le felici allegorie del romanzo di Zanna Bianca, l’eccellente montaggio delle belle inquadrature dove l’assenza di musica accentua le espressioni della ragazza, parca di sorrisi, in un contesto coinvolgente pur se non trascinante. Un film, nonostante qualche simbolismo (vedi lo scarafaggio prigioniero sotto il bicchiere), dall’anima leggera che lascia solo dolcezza.
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