Holy Spider
Danimarca/Germania/Francia/Svezia/Giordania/Italia 2022 poliziesco 1h58’
Regia: Ali Abbasi
Sceneggiatura: Ali Abbasi, Afshin Kamran Bahrami
Fotografia: Nadim Carlsen
Montaggio: Hayedeh Safiyari, Olivia Neergaard-Holm
Musiche: Martin Dirkov
Scenografia: Lina Nordqvist
Costumi: Hanadi Khurma
Zahra Amir Ebrahimi: Rahimi
Mehdi Bajestani: Saeed Hanaei
Arash Ashtiani: Sharifi
Forouzan Jamshidnejad: Fatima Hanaei
Alice Rahimi: Somayeh
Sara Fazilat: Zinat
Sina Parvaneh: Rostami
Nima Akbarpour: giudice
Mesbah Taleb: Ali Hanaei
Firouz Ageli: Haji
TRAMA: Una giornalista scende nel ventre oscuro della città santa iraniana di Mashhad mentre indaga sugli omicidi seriali di prostitute da parte del cosiddetto Spider Killer.
Voto 7
“Ogni uomo incontrerà ciò da cui vuole fuggire”.
Si potrebbe pensare che sia semplicemente il consueto e sfruttato filone del cinema sui serial killer ed invece è tutta storia vera, che fa parte della recente cronaca nera iraniana. La giornalista Rahimi si reca nella città santa di Mashhad, sede di un importante santuario sciita e meta di pellegrinaggi religiosi, per indagare su una serie di omicidi che prende di mira le prostitute. Mentre si avvicina alla verità e alla denuncia del criminale, la donna si accorge che l’opportunità di ottenere giustizia diventa sempre più difficile prima di tutta per l’inerzia apatica della polizia e poi perché l’assassino è ritenuto da molti cittadini come un eroe, che ripulisce la città dalle donne che contaminano i luoghi dediti alla preghiera. Come si può notare, pare la trama di un thriller americano ed invece è basata sulla storia vera dello “Spider Killer” Saeed Hanaei che si considerava in missione da parte di Dio quando uccise 16 donne che vendevano il loro corpo, tra il 2000 e il 2001.
Siccome la sequenza degli assassini restava impunita, anche perché l’omicida era abile a non lasciare tracce eccetto, comunque, l’unica caratteristica per cui le uccideva con il loro stesso velo - quindi unico elemento in comune - al caso si interessa una giornalista che giunge sul luogo per indagare. Rahimi è spinta dalla sua professione ma anche per il suo spiccato femminismo, accentuato dalle difficili condizioni di genere, tipiche della società islamica. Arriva molto determinata ma ben presto si accorge da come la polizia la accoglie arrivando sola nell’ufficio del capo da cui riceve subito le prime molestie: lo scherno e l’invito al ristorante con la speranza di un lieto dopocena, che la porta a reagire prontamente mettendo in chiaro il suo carattere. Il quarantenne iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi – già distintosi per Border - Creature di confine, per la serie The Last of Us ed ultimamente per The Apprentice (primo film inglese, sugli inizi della scalata di Donald Trump, in concorso a Cannes 2024) – mette subito in chiaro così in quale difficile ambiente maschilista sia approdata la donna, fino al punto che alla reception dell’albergo non voglio darle la camera, sebbene già prenotata. Poi, avuta solo dimostrando la tessera di giornalista. Non sia mai! Ma lei non è sorpresa, era già preparata, preceduta perfino dalla fama di donna facile, avendone un’ulteriore prova al primo incontro con un collega del posto, Sharifi (Arash Ashtiani), male informato dalle dicerie sulla sua reputazione, buon uomo che diventa anche un fidato amico e collaboratore, ma nell’ambito di una stampa locale alquanto passiva sull’argomento. “Senti, che cosa c'è di vero in quella storia di Teheran? Perché, qui da noi, sono circolate voci su te il tuo caporedattore, si diceva che aveste una storia.” “Che avessimo una storia? Per ogni articolo che volevo scrivere lui mi chiedeva di restare a lavorare oltre l’orario d’ufficio quando non c'era più nessuno e voleva che io entrassi nella sua camera da letto. Io l’ho denunciato e lui mi ha licenziato! La chiameresti una storia, questa?” Ecco la vita di una donna qualsiasi in Iran, non molto diversa, d’altronde, da ciò che succede altrove, no?
Rahimi si è messa in testa prima di tutto di risolvere il mistero del “ragno killer” e insieme di continuare la sua personale battaglia contro la mentalità patriarcale, la misera condizione delle donne, la loro sottomissione, la mentalità maschilista per cui le povere donne, indotte alla prostituzione dalla miseria e dai mariti incarcerati, sono solo sporcizia da eliminare dalle strade della città sacra. Visione confermata sia dalla polizia che non si sforza più di tanto per indagare sui delitti, sia dalla simpatia che il misterioso assassino riscuote presso l’opinione pubblica, ritenendo buone e giuste le motivazioni che spingono l’uomo. In questo ambiente così ostile, solo una donna volitiva e risoluta come questa, quantunque prudente e intimorita, può continuare la sua missione, aiutata spesso dal collega del posto, anche se intimorito perché al corrente delle difficoltà e dei rischi che corrono entrambi. Con l’intento di saperne di più e avvicinarsi ad un eventuale sospettato, lei intervista i parenti delle vittime, si aggira in tarda sera nelle vie della prostituzione, fino a farsi volontariamente adescare da un uomo in motocicletta. Potrebbe essere l’uomo che cerca?
Nel frattempo il regista, senza nascondere la sua vera identità e quindi saltando la trappola dello spoiler, inserisce varie sequenze in cui vediamo il killer Saeed all’opera, mostrando con chiarezza come cerca le “puttane”, le invita a salire sulla sua moto, le porta a casa – svuotata di moglie e figli lasciati dai suoceri – le fa accomodare e facendo finta di volere un rapporto sessuale le strangola prima con le mani e poi con l’immancabile foulard delle donne iraniane. Quindi nessun mistero per il pubblico, mentre chi indaga brancola nel buio. Il furore religioso ha invaso un anonimo muratore, veterano della guerra contro l’Iraq, padre di famiglia, stimato dagli amici, amato dai familiari, convinto di servire Dio con la pulizia della sporcizia umana, fervente credente, conoscitore delle scritture, persuaso che anche la giustizia terrena, qualora fosse arrestato, lo riterrebbe uomo giusto da ringraziare. Tanto, tutto il vicinato ed oltre, sebbene all’oscuro di quello che va combinando da mesi, lo stima e quindi lo perdonerebbe. Anzi, lo premierebbe.
Da un lato il fanatismo religioso accoppiato alla misoginia, per giunta fortificata dalla tradizione e dalla fede; dall’altro gli ostacoli frapposti dalla popolazione e dalla polizia locale alla caparbia Rahimi che vuole risolvere il caso. Non tanto per portare a termine un colpo giornalistico, quanto per tenere alto il vessillo della figura femminile, trattata come e meno di un animale che sporca le strade. Resiste dal desistere, sopporta gli sguardi sarcastici di chi la deride, rischiando anche di essere presa in giro dai poliziotti. Fin quando, però, si offre come cavia e incrocia la persona (non) ricercata, mettendo a repentaglio la propria vita. Ma solo così raggiunge lo scopo. E non finisce qui: il destino (e Ali Abbasi) prepara la sorpresa finale (in fondo, Saeed, non è un beniamino?) e la controsorpresa, con una didascalia finale da brividi sul resoconto criminale dell’uomo.
Seguendo gli stilemi del classico poliziesco noir, con tanto di omicidi, polizia incapace e giornalista che va a disincrostare meccanismi di potere opachi rischiando in proprio, l’eccellente Ali Abbasi ci mostra un Iran alternativo, tutto Corano e fondamentalismo sociale, frasi di circostanza mediorientale e puritanesimo, che diventano morse stritolanti della dignità delle donne: il velo, il corpo coperto, il trucco visto come atto peccaminoso, il rispetto massimo del patriarcato più tradizionale, la strafottente supremazia maschilista, l’impunità reclamata per motivi religiosi. La donna, la più povera tra i più poveri. In ogni caso, un ritratto crudo e sconcertante di quella società, di oggi come ieri, tra contraddizioni eclatanti. In special modo quando Saeed definisce il suo operato come “una crociata personale per amore di Dio e per la tutela della religione”, mentre i suoi sostenitori lo definiscono “un eroe che difende la città da una piaga sociale crescente” come se la prostituzione sia un fenomeno di quella o quell’altra città.
Film concepito all’indomani dell’arresto e dell’uccisione in carcere di Mahsa Amini, la povera ragazza che si era opposta all’uso corretto dell’hijab obbligatorio, è un’opera che lascia inebetiti, che sconvolge facendo riflettere le spettatrici e gli spettatori dell’occidente e se doveva sollevare indignazione e scalpore ci riesce molto bene. È scritto molto bene e recitato benissimo con un ineccepibile Mehdi Bajestani nel ruolo scomodo e la bella Zahra Amir Ebrahimi fantastica protagonista femminile premiata per questo come miglior attrice a Cannes, sempre in prima linea per le battaglie femministe come il suo personaggio. È iraniana ma con cittadinanza francese e ha sostenuto pubblicamente la protesta guidata dalle donne iraniane in seguito alla morte di Mahsa Amini e spesso condivide sui suoi social media le notizie sulle proteste e su come le persone possono aiutare il popolo iraniano. Ali Abbasi, che ha ovviamente girato altrove, in Giordania per l’esattezza e con capitali e case di produzione occidentali, ne ha fatto una pellicola prettamente di carattere iraniano, che di diritto fa parte della tradizione cinematografica iraniana tanto ricca di idee e produzioni, purtroppo spesso all’estero. Basti osservare quanti film che trattano i problemi sociali di quella nazione vengono proposti nei vari festival del mondo. Secondo il regista, il film non vuole essere una ricostruzione accurata degli omicidi (il personaggio interpretato infatti da Zahra Amir Ebrahimi è composito e in buona parte fittizio) né aspira volutamente a creare controversie. Come lui ha affermato: “L’esistenza della prostituzione in Iran è già ampiamente dimostrata, come in tutte le metropoli del resto del mondo. Non è un film contro il governo iraniano. Non è un film contro nessuno in realtà. Non credo che Roman Polanski avesse intenzione di fare un film contro la contea di Los Angeles con Chinatown. Ma il fatto rimane che l’assassino era un uomo molto religioso e che gli omicidi hanno avuto luogo in una città sacra.” Un posto dove questi era ritenuto un eroe.
Il film si concentra sin dall’incipit sulle vittime del fanatico serial killer, reduce di guerra, nonché martire mancato. Un’opera che si apre con una madre prostituta allo specchio, con la schiena segnata da lividi e percosse, in un Paese dove basta una ciocca di capelli fuori dal velo per essere considerata una poco di buono. Abbasi non poetizza e non edulcora alcunché e nemmeno spettacolarizza gli omicidi seriali. Dolorose due sequenze molto esplicative: la scena in cui una prostituta ride e irride il suo assassino nel momento della morte, una sfida coraggiosa contro l’uomo, direi, e quella finale in cui i due piccoli figli dello “ragno sacro” mimano i gesti del padre come imitazione educativa e terribile promessa. Agghiacciante!
Gran bel film e che brava Zahra Amir Ebrahimi!
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