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Il caso Belle Steiner (2024)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 7 min

Il caso Belle Steiner

(Belle) Francia 2024 thriller 1h40’

 

Regia: Benoît Jacquot

Soggetto: Georges Simenon (La morte di Belle)

Sceneggiatura: Benoît Jacquot, Julien Boivent

Fotografia: Caroline Champetier

Montaggio: Julia Grégory

Musiche: Bruno Coulais

Scenografia: Pascale Consigny

Costumi: Caroline Spieth

 

Guillaume Canet: Pierre

Charlotte Gainsbourg: Cléa

Pauline Nyrls: Aurélie

 

TRAMA: In una tranquilla cittadina, Pierre, insegnante di matematica, vive con la moglie Cléa titolare di un negozio di ottica. Nella loro casa, nel cuore della notte, avviene un omicidio quando Pierre era solo in casa: una giovane ragazza, Belle, che soggiornava lì, viene scoperta strangolata nella sua stanza. Pierre non ha né alibi né prove contro ma tutto pare accusarlo.

 

VOTO 7



Abitualmente, in un thriller, dopo una introduzione tranquilla per inquadrare il luogo e le circostanze che riguardano la trama, quando avviene un omicidio arriva la polizia e iniziano le indagini. Si cercano tracce, DNA, orme, indizi, tutto per giungere a prove chiare per poter incriminare la persona indagata perché sospetta e il film mantiene un certo ritmo e una tensione adeguata per poter tenere alta l’attenzione dello spettatore. Questo normalmente. Nel film di Benoît Jacquot, tratto dal romanzo di George Simenon, tutto ciò sembra accadere e seguire lo schema classico ma ben presto ci si accorge che così non è. I presupposti di una storia misteriosa ci sono tutti ma qui si va ben oltre perché il sospettato è solo uno, il protagonista Pierre (Guillaume Canet), ma non ci sono i termini minimi delle tracce necessarie per poterlo accusare. Non è possibile neanche procedere seguendo la strada di un’indagine indiziaria perché mancano perfino gli indizi per poterlo perlomeno incriminare. Ci sono le consuete indagini del commissariato ma non esiste nulla che possa condurre a conclusioni accusatorie e tutto ciò che ne consegue è solo basato sul sospetto, quello strisciante, velenoso, fatti di dubbi. Non è un thriller come gli altri, è fantomatico, metafisico, costruito su silenzi, sguardi, sospetti, sfiducia, persino tradimenti coniugali più dovuti alla necessità di uno sfogo che per attrazione sessuale.



Osservando Pierre e sua moglie Cléa si intuisce subito che la coppia conduce un’esistenza tranquilla, forse anche monotona, in una piccola città di provincia. Lui è un insegnante di matematica, ben seguito dai suoi studenti, molto appassionato della materia fino al punto di chiudersi spesso nello stanzino seminterrato della bella villetta in cui abitano per poter serenamente correggere i compiti e sbizzarrirsi sulla lavagna con le sue formule di casistica mentre ascolta la musica preferita. Lei (Charlotte Gainsbourg) gestisce un negozio di ottica in centro. La coppia sta ospitando per un periodo non predefinito Belle, la figlia di un’amica. Li vediamo placidamente cenare prima che ognuno si prepari per la serata: Cléa deve andare ad un party a cui Pierre ha già rinunciato per trascorrere il tempo nel suo rifugio, la giovane deve uscire con gli amici. Quando, sul tardi, Belle ritorna e saluta l’uomo per avvertirlo del rientro dal finestrone dello studiolo, l’insegnante finisce il suo lavoro e risale nelle camere all’ultimo piano per andare a dormire in attesa del ritorno della moglie. Il mattino seguente viene chiamato al liceo (dedicato a Simenon, un omaggio) dalla moglie perché è successa una tragedia. La loro vita viene completamente stravolta perché la ragazza è stata trovata morta nella sua stanza strangolato e nuda. Poiché Pierre era l’unico presente nell’abitazione al momento della tragedia, diventa l’unico sospettato. La polizia inizia subito le indagini e costringe l’uomo ad interrogatori pressanti che nei giorni seguenti diventano anche umilianti e stringenti (il cellulare della ragazza è pieno di foto scattate a lui), oltre al forte ostracismo da parte della gente che l’uomo conosce e l’ostilità dei residenti della cittadina, dove, come capita sempre, tutti sanno tutto. Perché la domanda sulla bocca di tutti è la stessa: chi ha ucciso Belle?



È un thriller che punta decisamente sul tratteggio ampiamente chiarificatore del protagonista, del suo carattere introverso, poco socievole, per nulla predisposto a piacere per forza, che si rifugia, per difesa, nell’unica arma di difesa verso l’umanità, il silenzio, senza mai mostrare preoccupazione per le perplessità che suscita con il comportamento che assume e che pare, peggio per lui, per nulla collaborativo. Si mostra insensibile, granitico, chiuso nel riserbo assoluto, che non viene minimamente intaccato (forse solo indispettito) dai sospetti della gente né tantomeno da quelli, più preponderanti e pericolosi per lui, della polizia, la quale fa capire, in una seduta non facile di interrogatorio, che l’unico che può aver commesso il delitto è lui. Nella stanza setacciata però non ci sono impronte o tracce che dimostrino che lui sia stato lì quella notte e quindi l’indagine si cristallizza nella speranza che l’uomo crolli e ammetta le colpe. Ed invece Pierre è lì ad osservare in silenzio ciò che accade intorno a lui, come uno spettatore terzo, come se non lo riguardasse.



L’aspetto più interessante diventa allora il rapporto con la moglie Cléa, esuberante e sempre indaffarata dopo cena, impegnata anche nel sociale. Si guardano e si parlano con calma: pare proprio che lei qualche dubbio lo riserbi ma non sa come affrontare il discorso. Piuttosto è il marito - che non ha mai cedimenti - che una sera la guarda negli occhi e le esclama la sua innocenza. Sicuramente è l’unico frangente di debolezza dell’atteggiamento, è il solo momento di cedimento mentale: è come se pretendesse almeno dalla moglie di essere dalla sua parte, dal momento che a fatica nasconde quanto sia perplessa. Ecco lo spirito inquisitore della psiche umana che pervade tanti racconti di Simenon, scrittore che non aveva mai smesso di esplorare il tema della “colpa contro l'innocenza” e il mondo che lo circonda, che diventa la spina dorsale del film, totalmente basato su sospetti e nessuna prova. Lui non è benvisto dall’ambiente e lo avverte, ma non lo smuove più di tanto, non cambia atteggiamento, se non il capriccio di entrare nel bar dove Belle ha trascorso l’ultima notte a bere whisky in compagnia di un uomo di cui non si hanno tracce.



Se c’è, insomma, una reazione agli atteggiamenti vessatori degli altri che lo circondano, è quella di capire cosa è successo quella maledetta notte, anche perché è arrivata la mamma della morta e, come tutti, non ha voglia di parlare con lui, accusandolo tacitamente. Non c’è scampo, non lo ritiene innocente nessuno. L’altra reazione, senz’altro spiazzante, è quella di incontrare casualmente (?) Aurélie (Pauline Nyrls), l’attraente donna, dalla cavigliera sensuale, segretaria della giudice istruttrice incaricata del caso, nel solito bar, creando i presupposti di una complicità attrattiva che sfocia in una serata sessualmente focosa ma che termina troncata all’improvviso, come se nulla sia accaduto. Una parentesi, a dir la verità, che trova poca logica nel complesso contesto del film. Cléa, intanto, vaga in un atteggiamento equivoco che contribuisce non poco all’andamento nebuloso della storia e non si riesce mai ad intuire se difenderebbe il marito comunque o se sia in attesa degli sviluppi e di una benvenuta e sincera apertura dell’uomo che chiarisca una volta per tutte la innocenza o colpevolezza.



È un thriller dell’anima, un mistero più mentale che materiale o oggetto di materia poliziesca. È un blocco di nebbia così fitto che tutti si guardano ma nessuno si vede e capisce l’accaduto. Quella notte noi abbiamo visto l’ipotetico imputato sempre nel suo stanzino, non c’è stato un rumore, è andato a letto e il giorno dopo a lezione come nulla lo abbia influenzato, sempre con il sorriso di circostanza e il minimo delle parole dalla sua bocca. Chi ha ucciso allora la povera Belle?



La forte personalità di un’attrice come Charlotte Gainsbourg è nota a tutti e si evidenzia ogni volta che compare in una scena di film, avendo quel talento straordinario capace di trasmettere le emozioni con una smorfia o un gesto o uno sguardo. Per interpretare l’uomo di questa storia Guillaume Canet si dimostra perfetto. Perché è bravissimo nei silenzi e negli sguardi: Benoît Jacquot, regista che penso abbia realizzato con cognizione di causa ciò che aveva in mente e non è criticabile da nessun punto di vista, lo inquadra spesso in primi piani per indicarci come si muove con gli occhi per osservarsi intorno e mettere a fuoco i visi di chi gli fa le insistenti domande, e come si creano le rughe ai lati della bocca quando sorride, unica maschera che gli serve da scudo. Ecco le armi di difesa dell’inquisito: il silenzio, lo stretto necessario da dire, lo sguardo muto, l’alzata di spalle, l’assenza dell’ansia di essere ritenuto assassino (come gli scrivono sul muro di casa), il sorriso come risposta. Sono più nervosi gli interroganti che l’interrogato. Tranne la giudice, che sta al gioco delle risposte rimbalzanti di Pierre, l’unica occasione in cui lui è meno lapidario del solito. Ma lì, di fianco, a scrivere il verbale c’è Aurélie, unico particolare che lo ha svegliato dall’apatia mostrata.



Film di sguardi, oltre che di silenzi, come quelli tra marito e moglie, che rappresentano un repertorio importante per la narrazione, che altrimenti avrebbe avuto uno svolgimento meno misterioso e più banale, come un thriller qualsiasi. Se non si apprezza questa atmosfera non si amerà il film, non lo si accetterà. Se si entra invece in armonia con il carattere e la filosofia esistenziale e comportamentale del protagonista si rischia di farsi coinvolgere, anche se al termine si torna alla vita normale (come l’applauso di bentornato degli studenti) come se nulla sia nel frattempo successo. La mamma della povera Belle è tornata a casa, la coppia torna al lavoro come sempre, noi leggiamo la parola fine.



Il film è stato osteggiato e quasi per nulla distribuito a causa della bufera per le accuse di violenza sessuale su alcune attrici a carico del regista, tanto da aver indotto anche Canet a non fare campagna promozionale. Reazioni comprensibili e giustificate che però hanno bloccato la diffusione di un buon film.



 
 
 

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