Il figlio di Saul
(Saul fia) Ungheria 2015 dramma 1h47’
Regia: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Montaggio: Matthieu Taponier
Musiche: László Melis
Scenografia: László Rajk
Costumi: Edit Szücs
Géza Röhrig: Saul Auslander
Levente Molnár: Abraham Warszawski
Urs Rechn: Biedermann
Sándor Zsótér: dottor Miklós Nyiszli
Todd Charmont: Braun
Christian Harting: Busch
Kamil Dobrowolski: Mietek
Attila Fritz: Yankl
Tamás Polgár: Landesman
TRAMA: Nel 1944, nell'orrore del campo di concentramento di Auschwitz, Saul Auslander, un prigioniero costretto a bruciare i corpi della propria gente nell'unità speciale Sonderkommando, trova una propria sopravvivenza morale salvando dalle fiamme il corpo di un giovane ragazzo che crede suo figlio. Suo obiettivo sarà quello di cercare un rabbino che possa aiutarlo a dargli una degna sepoltura.
Voto 8,5
A volte - non credo capiti solo a me - si ha l’impressione, sicuramente sbagliata, che tutti i racconti sull’Olocausto siano grosso modo uguali, ripetitivi, pur se con personaggi di differente natura e carattere, ma sempre accumunati dall’unico denominatore comune della immane tragedia storica. Ma sappiamo anche che è una tragedia di tale portata che non è mai abbastanza parlarne, scriverne, ascoltarne. Perché non bisogna dimenticare. Eppure, in altri posti, con altre popolazioni, in maniera di minore portata quantitativa, avviene continuamente in molti altri posti. Mai paragonabili, ma si ripetono sempre. Molto spesso questi racconti si sviluppano raccontando dei singoli individui, di storie particolari. La non-vita nei baracconi dei campi di concentramento, dei rastrellamenti, di famiglie sempre più preoccupate di quello che avveniva per le strade europee invase dalle divise tedesche, dei negozi molestati dal disegno della stella di David, dalle fughe precipitose, e così via. Oltre queste, si affacciano storie appunto minime, di uno dei milioni che soffrono durante la fuga o mentre si ritrovano prigionieri in un’attesa terribile di qualcosa che accadrà a loro inesorabilmente. Questo film è uno di questi, di un uomo reso insignificante dalle atrocità che succedono intorno a lui, dall’impossibilità di sfuggire al compito che gli è tato assegnato.
Molti critici lo hanno definito come il film definitivo sulla Shoah (più volte viene in mente di presentare così un’opera quando se ne resta fortemente impressionati) perché lucido e impressionante è lo sguardo del regista nel filmare da vicino, proprio addosso, più di tante altre volte, il protagonista della storia, Saul, sempre sporco e sudato per il lavoro che deve svolgere. Era un giovane regista László Nemes, l’allora 38enne allievo del mitico Béla Tarr. Nel campo di concentramento di Auschwitz, una parte degli ebrei sono separati dal resto del gruppo e assegnati ad una particolare funzione: aiutare i tedeschi nelle procedure di sterminio. Fanno parte della Sonderkommando e Saul è uno di loro.
[Sonderkommando. Nel linguaggio dei campi di concentramento, il termine indica un tipo particolare di prigionieri, conosciuti anche come “portatori di segreti”. I membri di un Sonderkommando sono separati dal resto del campo. Lavorano solo qualche mese prima di essere giustiziati]
Un giorno, mentre ripuliva una camera a gas, si accorge di un ragazzo che miracolosamente sta sopravvivendo, riconoscendolo come suo figlio. I tedeschi lo uccideranno poco dopo ma Saul, senza perdersi d’animo, fa di tutto per prelevare il cadavere e dargli una degna sepoltura, al costo di mettersi contro tutti i suoi compagni. Indubbiamente una storia, come dicevo, molto particolare e quindi abbastanza diversa da tante altre di cui abbiamo letto, sentito, visto al cinema.
La prima inquadratura è totalmente fuori fuoco perché la macchina da presa aspetta che compaia il protagonista che arriva sin di fronte all’obiettivo, fino quindi ad essere nel fuoco visivo, caratteristica che si ripeterà infinite volte lungo il film. Il primo lungo piano sequenza, che dura qualche minuto, è atroce e preannuncia chiaramente cosa ci aspetta: la crudezza e la pesantezza del lavoro di quella squadra, la forza di spirito che spinge Saul prima a svolgere il compito e poi a non arrendersi all’idea di attuare il piano che si è imposto. Ed inoltre, il fatto inusuale, lì dove normalmente tutti i prigionieri si fanno coraggio sostenendosi moralmente a vicenda, che egli allontana i vivi e i loro piani di fuga per salvare le spoglie di un figlio di cui non si è mai preso cura quando era ancora in vita. Quasi come voler rimediare alla scarsa attenzione che non aveva dedicato quando la tragedia era inimmaginabile. Se normalmente un film o un libro tiene in vita la memoria di quello che accadde a quel popolo nell’insieme, Nemes restringe il campo della nostra visuale con uno schermo ridotto nel formato e stando affannosamente sul viso e sulla nuca di Saul e sui suoi occhi furtivi, spalancati, sempre vigili, riducendo nel contempo il nostro colpo d’occhio sul resto della scenografia. Che pur è stata preparata a puntino ma poco la vediamo: l’obiettivo puntato sull’essenziale vuole testardamente evitare che dobbiamo distrarci su ciò che avviene vicino a lui per puntare tutta l’attenzione su quello che gli passa per la mente: la ricerca affannosa di un rabbino e di un modo di asportare quel corpo e dargli una degna sepoltura, così come è giusto che sia per i propri morti. Non siamo nel cinema a cui interessano le inquadrature panoramiche, le vedute dei campi maledetti, ma piuttosto un brulicare di operai che devono collaborare con i macellai trasportando i corpi dei loro fratelli, spogliati, ammassati nelle camere a gas con il pretesto della doccia, della successiva pulizia del pavimento, delle “infornate”. Tutto eseguito meccanicamente, per abitudine ormai, per non riflettere.
E non è neanche il caso di eroi, di gente furba che pianifica disegni di fuga o di boicottaggio: a Saul interessa ora solo di portare a termine ciò che ha in mente. Come spiega lo scrittore britannico Martin Amis nel suo ultimo romanzo La zona d’interesse (da cui il film omonimo di Jonathan Glazer), per spiegare cosa era quella squadra di lavoro: “Noi siamo quelli del Sonderkommando, gli uomini più tristi del lager. Di fatto siamo gli uomini più tristi nella storia del mondo [...] e i più disgustosi.” Un libro che, sarcasticamente inizia così: “C’era una volta un re, e questo re incaricò il suo mago prediletto di fabbricare uno specchio magico. Questo specchio non ti mostrava il tuo riflesso. Ti mostrava la tua anima – ti mostrava chi eri realmente.” Quello specchio è il campo di concentramento, che è solo a pochi metri dalle abitazioni delle famiglie degli ufficiali nazisti che vivono placidamente poco distanti dai camini che fumano di gas e ceneri umane.
Che Saul sia davvero il padre di quel corpo di adolescente, morto prima di morire e poi ucciso per davvero, non è poi così importante ed essenziale, è sufficiente l’idea di poterlo essere, di darsi uno scopo e un contegno da portare a termine per potersi sentire più uomo normale e non un operaio della morte. È questo che lo spinge a muovere e a muoversi in mezzo agli altri che non lo capiscono. Senza che sia un eroe, proprio come lo immagina il regista: “Non volevo trasformare nessuno in un eroe, volevo solo trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il più possibile semplice e arcaica.” E difatti, diversamente da molti film sulla prigionia durante la Seconda Guerra Mondiale, il film non si appiglia al sentimentalismo o alla speranza, tutt’altro. Mostra direttamente la routine dei prigionieri per giunta senza artifici di sorta o manierismi tecnici. Se è vero che si è più efficaci con la cruda verità, László Nemes ci riesce senza mezzi termini.
Tecnicamente ineccepibile – da non trascurare il suono ed il suo montaggio, si sentono rumori e voci ma non vediamo nulla, tutto è fuori campo, lì è la tragedia, dentro è solo Saul - il film si impernia sullo scambio degli sguardi tra la cinepresa e l’uomo, in entrambe le direzioni. Noi guardiamo lui, lui fissa l’obiettivo, come appunto lo specchio dello scrittore. Rimandando all’umanità (i nazisti ne facevano parte, la peggiore, ma ne facevano/fanno, purtroppo, parte) l’immagine (im)palbabile della sua anima. E nel frattempo il lager rappresentato come una fabbrica, nel caos di ordini, lavori ed esecuzioni, e un uomo che si sente un morto ancora vivente ma che prova a recuperare un appiglio di umanità, quantomeno dando una sepoltura. Ed allora il regista fa sì che, tramite l’eccellente Géza Röhrig che guarda lo spettatore, noi non riusciamo ad evadere da quegli occhi. Non si può sfuggire, non si può guardare altrove, pena volgere lo sguardo fuori schermo. In alcuni momenti ho avuto paura che lui ci chiedesse se questo sia un uomo, se tutto questo sia normale, se sia umano.
Il regista esordiente, di una famiglia in gran parte sterminata a Auschwitz, dice: “È un film ambizioso realizzato con pochi mezzi. Ci porta direttamente nel cuore di un campo di concentramento ma la mia scelta è stata quella di differenziarlo dal solito approccio riservato ai drammi storici, spesso realizzati con grande enfasi e con una narrazione con molti punti di vista. Non racconta la storia dell’Olocausto ma semplicemente la storia di un uomo che, in una situazione pericolosa, non ha molto spazio o tempo per muoversi. Sono solo due giorni nella vita di un uomo costretto a perdere la sua umanità e a trovare sopravvivenza morale nel salvataggio di un corpo morto. Seguiamo Saul attraverso il film, rivelando sin da subito ciò che lo circonda e creando uno spazio filmico di limitate dimensione, molto vicino alla percezione umana. L’uso della fotografia sgranata, la costante presenza di elementi fuori scena, le limitazioni visive e le poche informazioni a cui lo spettatore ha accesso, sono scelte fondamentali della mia strategia narrativa.”
Non c’è molto da aggiungere, ho scritto già troppo. Il film va visto e basta. Dimentichiamo Spielberg e il suo Schindler da un lato e dimentichiamo Radu Mihăileanu e il suo Train de vie - Un treno per vivere dall’altro. Il dramma spettacolarizzato e l’inimitabile umorismo deridente ebraico: questa è un altro cinema.
Ma come è stato possibile?
Riconoscimenti
2015 - Festival di Cannes
Grand Prix Speciale della Giuria
Premio Fipresci
Premio François Chalais
Candidatura alla Palma d'oro
2016 - Golden Globe
Miglior film straniero
2016 - Premio Oscar
Miglior film straniero
2016 - David di Donatello
Miglior film dell’Unione Europea
2017 - BAFTA
Miglior film straniero
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