Il sacrificio del cervo sacro
(The Killing of a Sacred Deer) Irlanda/UK/USA 2017 dramma 2h1’
Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura: Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou
Fotografia: Thimios Bakatakis
Montaggio: Yorgos Mavropsaridis
Scenografia: Jade Healy
Costumi: Nancy Steiner
Colin Farrell: dott. Steven Murphy
Nicole Kidman: Anna Murphy
Barry Keoghan: Martin Lang
Raffey Cassidy: Kim Murphy
Sunny Suljic: Bob Murphy
Bill Camp: Matthew Williams
Alicia Silverstone: signora Lang
TRAMA: Un carismatico chirurgo è costretto a fare un sacrificio impensabile quando la sua esistenza inizia a cadere a pezzi a causa del comportamento sempre più sinistro dell'adolescente che ha preso sotto la sua ala protettiva.
Voto 8,5
Se inizio scrivendo che ogni regista ha il suo stile, personale e riconoscibile, verrà spontaneo obiettare che ho scoperto l’acqua calda. O forse no. Perché la storia del cinema è piena di registi che hanno spaziato in generi diversi concedendosi variazioni di stile e di scrittura che non ti aspettavi oppure per il semplice gusto di provare strade nuove. Poi ci sono quelli che, come appunto Yorgos Lanthimos, che hanno un marchio di fabbrica personalissimo e non deviano un millimetro da loro percorso prefisso. Ecco, appunto Yorgos Lanthimos, che sin dai primi fotogrammi ha impresso un cinema così particolare e personale che, dopo l’affermazione di un paio di film che finalmente lo ha fatto conoscere a tutti, oggi lo riconosci subito: basta qualche sequenza e sai che lui ne è l’autore.
Sin dai primissimi film ma soprattutto da Alps, il primo che ha avuto una certa rinomanza e che lo ha reso palese ad un pubblico un po’ più vasto del precedente, Lanthimos ha subito fatto capire di che pasta è il suo cinema. Però ci è voluto The Lobster per svegliare l’attenzione generale, come se in una sala chiassosa piena di gente un tizio si mette a strillare e tutti si girano per capire cosa succede. E tutti si accorgono di questa persona. E la guardano meglio. ‘Alps' era particolare, ma ‘The Lobster’ (la mia recensione) ha spiazzato tutti e gli hanno dato fiducia e attenzione.
Eccoci quindi oggi al miglior pezzo di Lanthimos, al film che più degli altri stabilisce un netto confine tra il suo sguardo e quello degli altri registi contemporanei. Un film che da noi arriva abbastanza in ritardo dal momento che è datato 2017 e nel frattempo è stato già premiato ex-aequo come miglior sceneggiatura (dello stesso regista) al Cannes dello stesso anno e visto su piattaforme streaming o poco legali. Spiazzandoci come e più delle altre volte.
Cosa hanno di tanto particolare le storie di questo regista ateniese? È che sin dal primo istante ci si accorge che lui ti sta conducendo per una strada che non sai mai dove porterà, non sai mai se è una vicenda tragicomica e/o paradossale, e soprattutto non saprai mai prima che lui ad un certo punto lui ti abbandonerà, con un finale spesso tronco, con i titoli di coda che ti vien voglia di respingerli nella parte inferiore dello schermo per poter continuare. L’ambientazione può essere indifferentemente un futuro distopico, una città moderna, una storia ordinaria, di morte e sopravvivenza. In questa occasione ci porta con la sua macchina da presa prima in una sala operatoria dove un organo pulsa cercando di vivere e far vivere il corpo a cui è collegato e subito dopo nei lunghi corridoi di un ospedale, dove, sia in quel momento che in altre occasioni, l’occhio del regista e quindi il nostro punto di osservazione sarà posto in alto, seguendo il tragitto del protagonista, il dottor Steven Murphy, mai collocandolo ad altezza d’uomo, manco fosse una telecamera di sorveglianza. È uno dei giochi prediletti di Lanthimos, quello di inquadrare poche volte all’altezza tradizionale: spesso dall’alto e altre volte dal basso, deformando appena i visi, i gesti, i corpi dei personaggi, le loro espressioni. Scelta che aumenta nello spettatore ignaro e passivo una certa sensazione di tensione che non è crescente come in un thriller da manuale ma piuttosto costante e quindi estenuante, con l’(in)certezza che qualcosa stia accadendo e che sicuramente accadrà tra poco o forse chissà quando.
Thriller psicologico allora? Forse, di certo la scelta oculata degli attori contribuisce a creare quella tensione che Lanthimos realizza con grande efficacia: paiono attori inespressivi, che di proprio trasmettono poco chiaramente le emozioni e ciò che passa loro per la mente. Lui ha trovato sicuramente in Colin Farrell quello che tradizionalmente chiamiamo l’attore feticcio, protagonista negli ultimi due film, occasioni per le quali lo ha fatto ingrassare come un vitello da macello e che con il suo secco accento irlandese scandisce maggiormente l’aridità dei dialoghi asciutti e di frasi brevi. Nicole Kidman da parte sua abbandona ogni forma sensuale femminile per diventare una moglie/mamma asettica e rigida (“algida” è un termine che le abbiamo affibbiato tutti per anni). Al massimo si concede sessualmente nella versione “anestesia totale”: guardare il film per capire questa ricetta di coppia. Ma chi colpisce veramente in questo bellissimo, intrigante e affascinante film è il giovane Barry Keoghan: un tipo che può dire una frase d’amore o di odio nella stessa terrificante maniera, può sembrare affettuoso o animalesco senza che l’interlocutore (e lo spettatore) possa prevederlo. Enigmatico come una persona senza volto che parla come un robot. Nel suo volto alienato è tratteggiato tutto il senso surreale del film. Non ci meraviglieremo se sarà ancora lui nel prossimo film del regista greco. Sarà il suo ambiguo personaggio che obbligherà il chirurgo Steven Murphy a scegliere quale “cervo” sacrificare, come un qualsiasi Abramo sull’altare con il figlio Isacco. Tuttavia qui si capisce solo ad un certo punto dello sviluppo della trama il motivo per cui è necessaria questa scelta e cosa deve ripagare. Mostruoso, incomprensibile, disumano.
La situazione iniziale sembra ordinaria, come si evolve è inaspettata, per porvi rimedio la soluzione è assurda, il finale diventa inevitabile. Pur se nella più assoluta irrazionalità. La musica non è armonica, è semplicemente un “commento” funzionale ad alcuni momenti topici, con suoni stridenti che non accompagnano i movimenti ma li fa risaltare un secondo dopo che sono avvenuti. Come per dire: hai visto che succede? Ma stai attento che può succedere di peggio!
Un po’ di Haneke, di Luis Buñuel, di Marco Ferreri: una miscela inquietante, un gotico post-moderno, tra l’onirico e il grottesco. Questa miscela vincente è la ricetta targata Yorgos Lanthimos, fatta di storia surreale, attori adatti e scelti con cura, sceneggiatura spiazzante e innovativa, stile personalissimo di un regista dalle idee molto chiare, che continuerà in futuro a sorprenderci. Con piacere.
Riconoscimenti
2017 - Festival di Cannes
Migliore sceneggiatura
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