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Il treno dei bambini (2024)

Aggiornamento: 11 dic

Il treno dei bambini

Italia 2024 dramma storico 1h46’

 

Regia: Cristina Comencini

Soggetto: Viola Ardone (romanzo)

Sceneggiatura: Furio Andreotti, Giulia Calenda, Cristina Comencini, Camille Dugay

Fotografia: Italo Petriccione

Montaggio: Esmeralda Calabria

Musiche: Nicola Piovani

Scenografia: Maurizio Leonardi

Costumi: Chiara Ferrantini

 

Christian Cervone: Amerigo Speranza

Barbara Ronchi: Derna

Serena Rossi: Antonietta Speranza

Stefano Accorsi: Amerigo da adulto

Giorgia Arena: Rosa Benvenuti

Francesco Di Leva: Capa e' fierre

Antonia Truppo: Maddalena

Ivan Zerbinati: Alcide Benvenuti

 

TRAMA: Un bambino di sette anni di nome Amerigo nel 1946 lascia a Napoli la sua povera famiglia e sale su un treno per andare a vivere con una famiglia più agiata nel modenese, nell’ambito di un'iniziativa del PCI.

 

Voto 6



Cristina Comencini ha tratto il suo film dal romanzo omonimo di Viola Ardone che non è frutto della fantasia ma è, a sua volta, ispirato da vere vicende verificatesi durante la fine della Seconda Guerra Mondiale a Napoli, dove regnava una grave situazione di indigenza tra la popolazione più povera, spesso in famiglie che avevano il papà o in guerra o emigrato in America e soprattutto assenti da così tanto tempo che ormai il loro ritorno era diventato solo una flebile speranza, una leggenda. Madri e figli piccoli crescevano nell’assoluta povertà e scarsissimi mezzi di sopravvivenza. Come nei “quartieri” spagnoli, dove Amerigo trascorre la giornata con gli amichetti alla ricerca di qualche soldino per sbarcare il lunario e aiutare la mamma Antonietta e mettere qualcosa nei piatti.



Tutto vero, tutto realmente accaduto in quegli anni, quando il locale Partito Comunista organizzava dei viaggi in treno passati alla storia come i “treni della felicità”, un progetto che venne realizzato dalle donne dell’UDI (Unione Donne in Italia), in collaborazione con il Partito, per gestire una grande impresa che permettesse, ai bambini del Mezzogiorno, di trovare ospitalità in case del Nord Italia, dove le condizioni economiche erano sicuramente più felici. L’iniziativa, che coinvolse anche i bambini di famiglie fasciste e piccoli di qualsiasi estrazione sociale senza alcuna discriminazione – e basandosi sulla bontà di famiglie ospitanti -, ebbe un grande successo, soprattutto in regioni come Emilia-Romagna, Toscana. Liguria, Marche, dove vennero ospitati circa 70.000 bambini. In virtù di questa grandissima mobilitazione, l’iniziativa benefica prese velocemente il nome di “Il treno dei bambini”.



Per raccontare con efficacia la vicenda in generale, la regista, prendendo appunto lo spunto dal romanzo, assume ad esempio dimostrativo la storia del giovanissimo Amerigo (Christian Cervone), di otto anni, che viene inviato nel nord Italia su uno di quei treni, viene accolto da Derna (Barbara Ronchi), una gentile e sensibile donna senza figli, e che, attraverso questa esperienza, acquisisce una nuova consapevolezza che lo porta a fare una scelta dolorosa che cambierà per sempre la sua vita. Un pretesto, una storia singola, per significare quella di tanti altri piccoli adolescenti del Sud, che partirono molto impauriti perché per i vicoli napoletani giravano voci tremende sulla fantasiosa fine che avrebbero potuto fare: li segregavano, tagliavano loro mani e piedi, venivano bruciati nei forni, i comunisti li mangiavano… Erano terrorizzati. Instancabile il lavoro di una delle organizzatrici, Maddalena (Antonia Truppo) per tranquillizzarli ed esortarli, per evitare che, con le madri indecise e poco tranquille e loro spaventati dal futuro confuso che li attendeva, scappassero ed evitassero di partire. Ed invece scoprirono la nobile generosità delle tante famiglie del Nord, in particolare come viene qui mostrato, in Emilia, dove non solo trovarono un’affettuosa accoglienza, ma finalmente cibo a sufficienza, vestiti adatti e scolarizzazione. Amerigo trovò addirittura l’occasione per il suo non ancora rivelato enorme talento per la musica e diventò un violinista da concerto.



Un film che racconta la solidarietà che in Italia si fa sempre viva quando c’è emergenza e c’è sempre una moltitudine di persone che si attiva per aiutare i bisognosi. Lo si vede in casi di terremoti o inondazioni, ma a quei tempi, grami e difficili a causa della guerra imperante e delle prepotenze dei nazi-fascisti, per non citare la mancanza del lavoro e degli uomini che potevano aiutare a tirare avanti, solo le donne organizzate riuscivano a portare significativi aiuti a chi ne aveva bisogno, soprattutto la schiera femminile che aveva partecipato alla Resistenza e che dopo si era compattata in associazioni sia sindacali che solidali verso persone in difficoltà. La Comencini realizza un lungo flashback partendo dai ricordi di un triste Amerigo adulto (Stefano Accordi) che all’inizio di un suo concerto va con la mente a quando la mamma Antonietta lo aveva costretto a salire su quel treno. Nella bassa campagna modenese aveva imparato a voler bene ad altre persone, l’arte del violino, il grande affetto per la seriosa e trattenuta Derna, la quale, a sua volta, si era finalmente aperta e sciolta verso quel magro ragazzino che volle, imparando lentamente, amare come un figlio, mentre, all’opposto, la gelosia e l’astiosità di Antonietta allontanarono Amerigo dalla vera madre.



Sì, forse quella madre non è quello che ci si poteva attendere ma è da comprenderla in un contesto storico che costringeva ad atteggiamenti negativi dettati dalla contingenza, dalla fame. E così ecco il mercato nero, celebrato in tanti romanzi e film – perfino dal grande Eduardo (Napoli milionaria) -, la prostituzione, la disponibilità verso i piccoli boss dei quartieri, come Capa e' fierre (Francesco Di Leva), e nel contempo una scarsa predisposizione a curare da vicino l’educazione e la crescita morale dei ragazzini. Però è necessario osservare che Antonietta non è un mostro, tutt’altro: il suo è un atto d’amore, quello di mandare lontano il figlio, perché una madre non si priva mai di un proprio figlio se non in casi come questo, quando cioè sa in cuor suo che andrà a star meglio. È per la sua felicità, è per il suo bene che mette sul treno Amerigo. È un comprensibile desiderio di riscatto dei figli che mosse tante mamme, l’immaginazione di un futuro migliore e siccome il trasferimento era previsto solo per qualche mese, successe (e succede nel film) che alcuni di quei ragazzini non vollero addirittura tornare più alla base, tanto si erano affiatati, affezionati e abituati (certuni parlavano già il dialetto del luogo di crescita) alla nuova famiglia e al benessere che avevano trovato. Erano partiti per essere momentaneamente adottati ed erano diventati figli.

“Perché certe volte ti vuole più bene chi ti lascia andare di chi ti trattiene” è la frase simbolo sia del film che dell’amore che spinge Antonietta alla rinuncia del figlio.

Solo da adulto il giovane protagonista rivisitando i luoghi dell’infanzia a Napoli, capirà fino in fondo l’amore incondizionato della madre.



Sicuramente si affaccia – nel libro e nel film – la stereotipizzazione dei due moduli di vita: al sud povertà, ignoranza, pregiudizio, sporcizia; al nord voglia di lavorare, attivismo positivo in politica, mancanza di atteggiamenti di bassa criminalità. Queste caratteristiche si affacciano evidenti nella trama ma non con cattive intenzioni, perché, purtroppo, la situazione ambientale e sociale oggettiva era diversa tra le due realtà e la povertà non è una colpa, come non lo è la disoccupazione indotta. E non è certamente neanche nelle intenzioni della regista focalizzare questo aspetto, piuttosto si concentra sulla situazione psicologica dei bambini, sulla loro ingenuità e sulla bella e benefica scoperta della generosità e dell’accoglienza spontanea.



Inevitabile è l’inquadramento della trama nell’ambito storico della nascita prepotente del Partito Comunista e del movimento operaio, ed anche con un breve affaccio di un sentimento altamente negativo come il maschilismo, non risparmiandoci una scena di violenza verso la generosa Derna, quando non le viene concesso di esprimersi come merita dopo aver servito la Resistenza con le armi in pugno. È l’atavico problema della nostra società che ancora oggi non si riesce a debellare. Le donne, che tanto hanno fatto per le strade e le campagne nei tremendi tempi della guerra, spesso hanno dovuto lottare da sole e solo con la compattezza sono riuscite nei loro intenti. Qui la regista si avvicina qualche volta all’impareggiabile Novecento di Bertolucci, soprattutto nell’amicizia turbolenta tra Amerigo e il “fratellino” trovato nella famiglia Benvenuti (anche se qui non si sente l’urlo indimenticabile di “Olmoooooooooo!”) e nei cortei tutti al femminile nella nebbia della bassa. Bandiere rosse e cori, coraggio e ribellione. Anche questi aspetti servono a raccontare il film ed il romanzo.



La sceneggiatura, scritta da tante mani, non è sofisticata, anzi è fin troppo semplice ed elementare, al servizio di una storia tanto tragica quanto melodrammatica, nel senso che facilmente si avvicina al bordo teatralmente lacrimevole. Si avvicina ma non lo travalica, per fortuna, ma molte scene commuovono di certo e ciò è inevitabile, restando a cavallo tra la spontanea comicità naturale del napoletano e la drammaticità della storia e delle piccole situazioni. La regia ne rispecchia il contenuto e resta senza infamia e senza lode ma ha il pregio di scegliere una buona fotografia carica dei colori del tempo e dell’ambiente, e godendo di una musica evocativa ed emozionante dalla firma nobile: Nicola Piovani, che ricorda vagamente il riuscito accompagnamento de La vita è bella di Benigni. Le note del musicista romano sono, infatti, appropriate ed efficacissime.



È un film facile, non pretenzioso, che rende omaggio ad una bella storia in un brutto periodo della nostra Storia e che Cristina Comencini rende facilmente fruibile, senza grandi acuti né momenti di défaillance, rimanendo comunque nella accettabile normalità, quindi nulla di eccezionale ma sufficiente il giusto, godendo della bravura e della simpatia delle due attrici centrali a cui la regista si affida ad occhi chiusi: Barbara Ronchi (di cui, a quanto pare da qualche anno, nessun regista sa fare a meno) e Serena Rossi, anche valida cantante che non per caso accenna più volte (e lascia nel cuore del figlio) alle note e alle parole dell’indimenticabile “E chi ve po' scurda’ / Uocchie c'arraggiunate / Senza parla’ / Senza parla’” che non manca di aggiungere un tocco autentico e emotivo. Non c’è dubbio che anche il ragazzino Christian Cervone se la cavi decentemente. Quasi superfluo elogiare Antonia Truppo che con il suo modo di recitare dà sempre vigore ai suoi personaggi sinceri e veraci



Un po’ televisivo come da fiction (per me è sempre un difetto) tanto da poter ispirare ad una serie (che non mi interesserebbe) e molto “italiano”, con nessun respiro internazionale: il soggetto potrebbe attrarre il mercato europeo ma non ne ha la forza e la portata.

Commuove, fa simpatia, fa riflettere, molto adatto ad una serata televisiva.

La regista: ““Il film non è edulcorato, rappresenta solo la realtà con protagonisti questi bambini miserrimi, ma bellissimi.”



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