Io capitano
Italia/Belgio/Francia 2023 dramma 2h1’
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri
Fotografia: Paolo Carnera
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Andrea Farri
Scenografia: Dimitri Capuani
Costumi: Stefano Ciammitti
Seydou Sarr: Seydou
Moustapha Fall: Moussa
Issaka Sawagodo: Martin
Hichem Yacoubi: Ahmed
Doodou Sagna: Charlatan
Khady Sy: madre di Seydou
Cheick Oumar Diaw: Sisko
Bamar Kane: Bouba
TRAMA: Il viaggio avventuroso di Seydou e Moussa, due adolescenti che lasciano Dakar per raggiungere l'Europa, attraversando tutti i pericoli del mare, del deserto e soprattutto quelli rappresentati dagli esseri umani che incontreranno.
Voto 8
In questi casi, a volerne scrivere si rischia sempre di diventare retorici, di usare frasi fatte, sentite e lette tante volte, ma la cosa più difficile è evitarlo. Perché come si fa a non restare impietriti davanti ad una storia come questa che non è inventata? Non è fantasia, magari accentuata e rimarcata per fare più colpo e aumentare l’emotività dello spettatore, è invece il frutto di esperienze reali di persone vere che hanno compiuto lo stesso viaggio e nelle medesime condizioni disumane dei due giovani al centro della trama, citati nei titoli di coda. Nomi che non ricorderemo mai e che fanno Fofana, Mamadou, Arnaud, Brhane, Siaka, giovanotti che hanno contribuito con le loro parole a scrivere la sceneggiatura dei quattro autori. In TV sentiamo di frequente le parole di chi sbarca esausto e qualche volta immaginiamo ciò che ha passato e come è riuscito a sopravvivere (termine più che mai appropriato) ma se non si vedono le immagini di questo film è come se ascoltassimo una fiaba che incute paura ma che dopo vogliamo dimenticare. Ed invece Matteo Garrone mette fotogramma per fotogramma le storie dei tanti sotto la lente di ingrandimento e ce le sbatte in faccia. Nel frattempo ascoltiamo, politici e seguaci, coloro che dicono chi glielo fa fare, che sono arrivati con lo smartphone, le scarpe da ginnastica di marca, palestrati, in salute.
I titoli di coda iniziano a scorrere sullo sfondo di una cartina geografica dell’Africa che mostra, evidenziato in rosso, il percorso che normalmente effettua chi parte dal Senegal, come Seydou e Moussa e tutti gli altri: una linea tortuosa che li fa andare prima verso est fin sotto la longitudine della Libia, di Tripoli, dalle cui coste partono i barchini stracarichi. Un itinerario così lungo che, se si andasse a piedi giorno e notte senza mai fermarsi, ci si impiegherebbe quattro giorni. I due, come gli altri, sanno in anticipo che il viaggio non sarà facile, che bisognerà pagare qualche soldato, incontreranno poliziotti che estorceranno banconote da un gruzzolo che si assottiglia sempre più, che bisognerà sottostare alle richieste di chi sorveglia i confini delle varie nazioni che devono attraversare e che le difficoltà saranno tantissime, ma non immaginano assolutamente le sofferenze fisiche e morali che devono superare, pena restare abbandonati ai margini del percorso e morire di stenti. Sono entusiasti e timorosi allo stesso tempo, ma sognano (e come glielo si può negare?) di diventare famosi e che arriveranno a “firmare un autografo ai bianchi”. Poveri ingenui!
Seydou e Moussa sono due bravi ragazzi, specialmente il primo (che diventa lentamente il vero protagonista del film) tanto ubbidiente e affezionato alla mamma a cui nasconde il progetto per non farla preoccupare e le mente fino alla segreta partenza. Sono brava gente che spera nel futuro come ogni altro adolescente occidentale bianco: chi non sogna di diventare attrice, calciatore, cantante di successo? E come tutti i giovani indossano le maglie delle più note squadre calcistiche d’Europa. Si rivolgono anche a Sisko, un artigiano informato sulle migrazioni e sui trafficanti che però li mette in guardia. Secondo lui l’Europa non è meglio dell’Africa, c’è gente che dorme in strada, dice, girano banditi ladri, si muore. Insomma li spaventa e loro tentennano ma non resistono, devono partire, non c’è nulla da fare: l’Europa ci aspetta! Ma siccome credono nelle tradizioni, siccome in realtà cercano solo un chiaro incoraggiamento per azzardare e scacciare i timori, si rivolgono ad una sorta di stregone del villaggio per ottenere l’assenso degli avi. Lui si esibisce in una dei soliti riti collegandosi con i morti che danno il loro consenso. Soddisfatti si recano al cimitero per pregare e quella notte vanno via ed iniziano così un’avventura infernale, una discesa agli inferi della crudeltà umana.
A Dakar comprano da un intermediario, come se si fossero rivolti ad un’agenzia di viaggi, un “pacchetto” tutto compreso per viaggiare nel cuore dell’Africa: trasporto in auto, poi in bus, poi la nave, lo sbarco. Ingenui! Invece i militari del Mali li taglieggiano per chiudere un occhio sui passaporti falsi; il viaggio in autobus all’improvviso si interrompe e tutti i passeggeri sono obbligati a una traversata a piedi nel deserto, dove qualcuno perde la vita; i banditi rapinano il cugino Moussa e portano via Seydou mentre l’organizzatissima mafia libica – che sistematicamente filtra l’accesso dei migranti nel Paese, estorcendo denaro in cambio della libertà – lo rinchiude in una prigione dove viene torturato e venduto come muratore. Uno schiavo ai piedi di gente senza scrupoli: per loro vivo o morto è sempre una merce.
Il lavoro trovato, con l’aiuto di un buon uomo che lo protegge e lo consiglia, lo rende libero ottenendo anche i soldi necessari per imbarcarsi verso l'Italia. E non su un natante in perfette condizioni ma su un barcone scalcinato di cui… Ecco cos’è il titolo impensabile: i soldi per lui e per il cugino finalmente ritrovato, ferito da una gamba, non bastano. Vuoi partire? Devi essere alla guida dell’imbarcazione, pur non essendone capace (“È facile, ti insegno io”). Sono tantissimi i migranti, donne uomini, bambini, donne incinte. Una imbarcazione su cui nessuno partirebbe e lui deve guidarla e portare lì, di fronte alle coste libiche, in Sicilia, tutta quella gente.
Chissà qual è il pezzo di tragitto più pericoloso che il giovane ha nel frattempo affrontato: la lunga marcia nel deserto sahariano è stata più che estenuante, era impossibile resistere giorni e notti, notti e giorni sotto la calura che saliva al cielo e scendeva dal sole, con poca acqua e gente che crollava. Una delle scene più emozionanti di tutto il film è quella in cui una donna non più giovane crolla sotto il peso della fatica e Seydou non vuole abbandonarla, torna indietro, la soccorre, le dà da bere, mentre gli altri stanno sparendo oltre le dune. Non vuole lasciarla ma deve, per non smarrirsi in pieno deserto. Il pianto di Seydou sul corpo esanime della “madame” è il pianto dell’umanità, quella Umanità che perde le persone lungo il viaggio chiamato vita (quale vita?). Lui è davvero un’anima buona, uno spirito generoso e si ritrova poi a sognare di ritornare da lei e di farla veleggiare leggera nell’aria come un bellissimo e gioioso aquilone mentre la tira verso il gruppo sfinito che non si ferma. Un passaggio onirico, commovente, forse retorico, ma è uno dei pochissimi attimi di leggerezza e felicità dell’intero film, anche se indica com’è facile, in quel mondo distorto, passare dalla vita alla morte e non solo per tortura, percosse, uccisione, ma per inedia e fatica. Per giunta scoprendo, ore e ore dopo di cammino, che i libici che sanno di trovarli lì, li attendono in una piccola oasi per ricattarli ancora, imprigionarli, sfruttare la loro paura chiedendo il numero di telefono dei familiari e farsi mandare altri soldi se vogliono essere imbarcati.
Perché affrontano questo viaggio? Non riescono a immaginare quali difficoltà incontreranno? Perché questa gente, che ha nulla o quasi in patria, che sogna di aiutare i genitori per poter regalare loro una casetta partono anche se non c’è guerra? Dove sono finiti gli sfruttatori europei dopo la fine del colonialismo? Li hanno lasciati in quelle condizioni e il pensiero dominante degli occidentali è che non devono partire. Ma fin quando l’occidente non capisce che si sentono in obbligo di partire perché “non c’è scelta” non si capirà mai il loro problema, non si accetterà mai il loro arrivo. È un problema loro. Non voglio tirare in ballo questioni politiche, il mio è solo un ragionamento di umanità e solo a guardare il film se ne resta pietrificati perché non sono storie udite, non siamo ad attenderli sulla costa: siamo nel barcone con loro, con Seydou che è preoccupatissimo perché si sente responsabile (a 16 anni!) della vita di tante persone. Tutto è sulle sue spalle e ne sento il peso. L’attraversata è meno faticosa del camminamento sulla sabbia ma ugualmente snervante ed infinita, con gli uomini ammassati nella sala motore che perdono i sensi, con la donna che sta partorendo, con la sete che uccide. Garrone ci porta a bordo e non ci fa più scendere, dobbiamo viaggiare con quei disperati, vederli quando e quanto soffrono, mentre in cabina Moussa fa fatica a resistere con la gamba che sta andando in cancrena e lui non dorme da giorni, guardando sempre all’orizzonte con la speranza di intravvedere la linea della Sicilia, temendo le ondate del mare.
La fotografia accesa e bellissima, le musiche sempre adatte che accompagnano i momenti salienti con il giusto ritmo e accentuando quelli drammatici, la recitazione sorprendentemente precisa degli attori africani, le espressioni cangianti del Seydou di Seydou Sarr che rappresentano i vari stati d’animo, la sua generosità, il coraggio di non crollare mai, la temerarietà di affrontare le situazioni e cavarsela, la voglia di rivedere la mamma sicuramente preoccupata, il timore che qualcuno muoia a bordo. Ecco il motivo per cui lui, che non voleva responsabilità, si prende il carico di sentirsi “capitano” anche se non sa nuotare, accetta quel ruolo che il destino gli ha posto davanti e al diavolo se all’arrivo lo scambieranno per un trafficante di persone. Non fa nulla, purché li salvi. “IO CAPITANO!” ma aiutateli.
Il finale consiste in una sequenza con il suo viso (e le sue cicatrici) in primo piano, e non sappiamo se sorride o piange, se è felice o triste, con gli occhi arrossati e semichiusi dalla stanchezza e dall’emozione dell’impresa che sta portando in porto: guarda dietro e avanti più volte, dove c’è l’Africa lontana e il mare alle spalle, la terraferma davanti.
Sorridi, sorridi, ce l’hai fatta, sei un eroe. Ma solo adesso, solo per questi momenti, anche il tuo compagno di traversata è salvo. Ma non è finita. Anzi, forse adesso ricomincia tutto, perché ti aspetta il rifiuto, il razzismo, il margine, la criminalità che ti spingerà a lavorare per loro, la gente che non vorrà averti vicino, il generale che vuole sfiorarti le mani per vedere se la tua pelle è diversa. Ora sarai lontano dagli armigeri e dagli schiavisti libici ma sarai inconsciamente indiziato per essere il “pericolo” mostrato dalla politica tornatene da dove sei venuto ci rubi il lavoro ospitali a casa tua.
Sono milioni i Seydou di questo pianeta, non ci sono solo quelli subsahariani, succede anche in Sudamerica e altre regioni asiatiche. In tutto il sud del mondo. Perché c’è sempre qualcuno più a nord di ognuno di noi.
Se Matteo Garrone, che ancora una volta pesca racconti dalla vita delle retrovie (Estate romana, L'imbalsamatore, Gomorra, Dogman), vincerà davvero qualche premio importante vuol dire che il film è arrivato più che al cuore, all’anima e alla mente dello spettatore.
Riconoscimenti
2023 - Festival del cinema di Venezia
Leone d'argento per la miglior regia
Premio Marcello Mastroianni a Seydou Sarr
2024 - Golden Globe
Candidatura al miglior film straniero
2024 - Premio Oscar
Candidatura al miglior film internazionale
2024 – David di Donatello
Miglior film
Miglior regia
Migliore autore della fotografia
Miglior montatore
Migliori effetti speciali visivi
Miglior suono
Miglior produttore
Candidatura alla migliore sceneggiatura originale
Candidatura al miglior scenografo
Candidatura al miglior costumista
Candidatura al miglior truccatore
Candidatura al miglior acconciatore
Candidatura al miglior compositore
Candidatura alla migliore canzone originale a “Baby” (Andrea Farri, Seydou Sarr)
Candidatura al David Giovani
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