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January 2 (2024)

January 2

(Január 2) Ungheria 2024 dramma 1h27’

 

Regia: Zsófia Szilágyi

Sceneggiatura: Zsófia Szilágyi

Fotografia: Kristóf Becsey

Montaggio: Attila Csabai

Musiche: Máté Balogh

Scenografia: Csenge Jóvári

Costumi: Bori Solymosi

 

Zsuzsanna Konrád: Ági

Csenge Jóvári: Klára

Edit Vlahovics: madre di Klára

Kornél Balla: Boldi

Viola Béres: Lilli

Márton Pallag: Áron

Csaba Antal D.: Lóránt

Erika Molnár: suocera di Klára

Ferenc Borbiczki: padre di Klára

László Göndör: Károly

József Kolcsár: Zoli

Kutya Rádzsa: Frici

László Méhes: padre di Ági

Erika Nádasy: madre di Ági

Péter Bognár: Sándor

Zsolt Dér: Zsolt

 

TRAMA: La storia una separazione, dal punto di vista della migliore amica della moglie.

 

Voto 6



Festival di Venezia 2024, Biennale College

 

Una separazione. Un punto differente, ma parallelo, con le medesime sofferenze morali che quasi intaccano quelle fisiche, al più celebre sullo stesso argomento girato da Asghar Farhad. Qui siamo in Ungheria, dove nelle apparenze c’è più libertà (nonostante le considerazioni politiche di questi anni) e più movimento tra le giovani e vecchie generazioni. Qui – invece degli infiniti diverbi tra gli interessati e le discussioni con il giudice che deve stabilire se esistono i presupposti validi per l’allontanamento – diventa il racconto microrealista, così definito dalla stessa regista, di una separazione dal punto di vista della migliore amica della moglie Klára (Csenge Jóvári), la quale ha deciso di trasferirsi lontano dal marito aiutata dalla sua amica Ági (Zsuzsanna Konrád). Fanno un totale di sette viaggi nella macchina di quest’ultima, sempre piena zeppa ogni volta di pacchi, scatole, borse, suppellettili. Tutto quello che lei afferma di essere suo e che deve portarsi dietro in un appartamentino che ha trovato abbastanza distante dalla casa che sta abbandonando. Sebbene prendano sempre la stessa strada, andata e ritorno, ogni volta è un viaggio diverso, come fosse il primo.



A fotografarle da vicino, spesso in primi piani, e sempre con la macchina in spalla che le segue come una guardia del corpo, è l’esordiente Zsófia Szilágyi, che ha nel curriculum un’importante collaborazione come aiuto nel notevolissimo Corpo e anima. Con uno spirito molto vicino a quel film, lei ricrea un’atmosfera tesa, nervosa, solo apparentemente quieta, principalmente perché la donna è davvero decisa nel compiere quel passo importante e non ha minimi ripensamenti. Lo spettatore ha una guida per capire ciò che sta succedendo, ed è proprio la migliore amica che la moglie ha e su cui conta ciecamente sia per essere capita e aiutata, sia per una fattiva partecipazione materiale al trasloco, che si presenta molto faticoso per la quantità degli oggetti da spostare e per il mezzo su cui devono viaggiare. Ági, infatti, si è fatta prestare (lo scopriremo solo alla fine) la piccola Peugeot dai genitori e assieme a Klára ad ogni viaggio la riempiono come un uovo: per fortuna la casa di partenza è una piccola villetta con trascurato giardino a piano terra ma il nuovo alloggio è posto (comunque ancora per fortuna) al primo piano di un edificio sprovvisto di ascensore. Per cui le due giovani donne devono lavorare duramente per caricare i bagagli in auto e poi salire le scale di destinazione. Per tutta una giornata, senza sosta tranne uno spuntino con un panino, scena girata, con campo e controcampo continuo, con un evidente unico ciak (si prega osservare come il panino diminuisca progressivamente ad ogni cambio di inquadratura, con una precisione degna solo ed unicamente di Kubrick, e in più mangiano davvero: l’hanno girato affamate?).



Un film di serrature che non funzionano, di chiavi che non girano, emblematica metafora di come si guastano e non si riparano le relazioni che dovrebbero durare nel tempo. Pronti via e Ági suona il campanello al cancello della casa, prossima ex di Klára per iniziare le manovre: questa esce, si avvicina all’ingresso del cortile di terra e sabbia (giocattoli sparsi, una piccola altalena, segno evidente della presenza di due piccoli figli) e apre, o almeno prova con vari tentativi non riusciti, di far funzionare la chiave nella vecchia serratura del cancello. Scena che si ripete alla prima apertura del nuovo appartamento dove sbarcare i pacchi. No, non tutto gira a dovere come si sperava e la giornata non inizia sotto i buoni auspici. Ma perché si è giunti a questo punto? Cosa è successo tra Klára ed il marito Áron (Márton Pallag) che accoglie Ági con un’espressione mista di risentimento e tristezza? Cosa spinge la moglie a rinunciare a tutto e ricominciare una nuova vita altrove? L’atmosfera è così tesa che immediatamente scoppiano le discussioni di come sono state confezionate le scatole dall’uomo, o perché vi ha messo anche quello che lei vuol lasciare ai figli per quando stanno in quella casa, o perché quello è suo e quello no, e così via. Solite frizioni e soliti dispetti tra coniugi in guerra. Ági non è la persona che intende intromettersi: lei vuole solo aiutare e offrire la collaborazione richiesta dall’altra, altrimenti, da sola, non sarebbe mai riuscita. Punto. Per cui, sempre con il suo berretto di lana (non conosceremo mai la sua nuca), il giaccone di felpa e i lunghi capelli biondi che le scendono sulle spalle, il sorriso sempre pronto, trasporta, carica, stipa, spinge e guida.



Avanti e dietro tra i due alloggi, una giornata infinita su e giù per le scale, faticosamente, senza sosta: il film - nel suo contenuto importante, per spiegare completamente la situazione e le motivazioni della separazione – si dipana solo e quasi completamente nell’abitacolo della piccola utilitaria. Qui le amiche parlano di tutto o, meglio, di ogni cosa, dalla più frivola fino alla più seria della loro ancora breve esistenza, soprattutto di ciò che riguarda quella della moglie in evasione: le discussioni in famiglia, le incomprensioni, l’insofferenza. È una lenta scoperta della realtà coniugale che si srotola come sul lettino di uno psicanalista: noi siamo i testimoni e siamo nella testa di Ági che ascolta e che al massimo sorride, così come fa davanti ai familiari dell’amica (intanto arrivano i suoceri, sempre affabili, quindi è un dissidio di coppia e basta), sorride alle chiacchere di Klára, quando rincontra il ragazzo che ha voluto lasciare ma che adesso serve come mano d’opera, e quando ecco uno dei motivi del distacco: il nuovo compagno (già poco sopportato) di Klára. Parlano, parlano, mentre scorrono le immagini della città, degli edifici stile “barocco sovietico”, degli incroci. È nell’abitacolo che conosciamo meglio le due donne, la loro noia (in fondo, sono davvero annoiate come pare spesso la vita dell’Europa dell’Est?), le scarse speranze nel futuro. Intanto si prova a girare pagina.



Ma ciò che si rivela agli occhi è il grigiore della vita, la mancanza di entusiasmo, di colore e di calore umano, fatta eccezione quello tra le due. Tristi i palazzi della città, degli interni degli appartamenti, delle piccole stanze sovraffollate di oggetti e mobili. L’eccitazione proviene solo da qualche brano brillante dell’autoradio, che paiono lo spunto per una ribellione che non arriverà mai. Persino il finale è triste, persino il cellulare di chi dovrebbe risollevare il morale della serata di Ági squilla a vuoto. Cosa resta? Doveva essere il resoconto del fallimento di un matrimonio con figli e si è trasformato in un road movie forzato, non del consueto lungo viaggio di liberazione o di crescita ma di un andirivieni a tappe, dove le confidenze vengono interrotte ad ogni giro di boa. Mente noi siamo negli occhi e nel cervello di Ági nel secondo giorno dell’anno. I festeggiamenti del nuovo anno sono finiti ed il nuovo giro del pianeta significa ricominciare una vita diversa, perché quella precedente non era stata gradita.



Interessante questo esordio, anche se piccolo ma ricco di sfumature caratteriali, di illustrazione della vita quotidiana dell’Est europeo e di tante minime solitudini. Brave le due attrici Zsuzsanna Konrád e Csenge Jóvári e ben scritti i dialoghi che diventano l’essenza e l’ossatura essenziale del film.



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