Killers of the Flower Moon
USA 2023 dramma poliziesco 3h26’
Regia: Martin Scorsese
Soggetto: David Grann (Gli assassini della terra rossa)
Sceneggiatura: Martin Scorsese, Eric Roth
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Musiche: Robbie Robertson
Scenografia: Jack Fisk
Costumi: Jacqueline West
Leonardo DiCaprio: Ernest Burkhart
Lily Gladstone: Mollie Kyle
Robert De Niro: William Hale
Jesse Plemons: Tom White
Scott Shepherd: Byron Burkhart
Tantoo Cardinal: Lizzie Q
Cara Jade Myers: Anna Brown
JaNae Collins: Reta Brown
Jillian Dion: Minnie Brown
William Belleau: Henry Roan
Louis Cancelmi: Kelsie Morrison
Jason Isbell: Bill Smith
Sturgill Simpson: Henry Grammer
Tatanka Means: John Wren
Michael Abbott Jr.: Frank Smith
Pat Healy: John Burger
Gary Basaraba: William J. Burns
Gene Jones: Pitts Beatty
Tommy Schultz: Blackie Thompson
Everett Waller: Paul Red Eagle
Steve Eastin: giudice Pollock
Steve Witting: dr. James Shoun
Steve Routman: dr. David Shoun
Elden Henson: Duke Burkhart
Katherine Willis: Myrtle Hale
Talee Redcorn: Non-Hon-Zhin-Ga
Yancey Red Corn: Capo Bonnicastle
Jezy Gray: segretaria di Hale
Ty Mitchell: John Ramsey
Charlie Musselwhite: Alvin Reynolds
Pete Yorn: Acie Kirby
Brendan Fraser: avvocato W.S. Hamilton
John Lithgow: procuratore Leaward
Martin Scorsese: produttore show radiofonico
TRAMA: La storia è ambientata negli anni ‘20 attorno alla tribù indiana Osage che vive in Oklahoma. Molti nativi americani vengono uccisi uno ad uno dopo che la tribù si è arricchita grazie alla scoperta del petrolio. La serie degli omicidi spinge i nativi, con Mollie Kyle in testa, a recarsi a Washington per svegliare l’attenzione del Presidente. Si avvia così una approfondita indagine da parte dell’FBI.
Voto 8
Parafrasando un famoso titolo francese degli anni Novanta, ognuno cerca il suo cinema e Martin Scorse, il suo, lo esercita sempre, da decenni: film tosti, potenti, con basi solide. Come stavolta, con nativi e immigrati, che, questi ultimi, sarebbero i bianchi, con buona pace di Trump. Film abitualmente lunghi, qualche volta lunghissimi come questo. Il regista newyorkese è ben consapevole di non essere la prima persona a drammatizzare la storia, chiamiamola così, del Regno del Terrore degli Osage e che i suoi predecessori non sono stati esattamente il miglior esempio, ma prendendo come soggetto l’interessante libro/saggio di David Grann – in originale il titolo è il medesimo del film - termina descrivendo come l’FBI, che arrivò in Oklahoma anni dopo l’inizio degli omicidi, usò il caso per promuovere se stesso, anche con un episodio del radiodramma degli anni '30 The Lucky Strike Hour. Due decenni dopo, lo stesso J. Edgar Hoover partecipò al film di Jimmy Stewart The FBI Story, che contiene una breve ricostruzione del caso. Insomma, un classico esempio di un pezzo di storia molto interessante e adatto ad essere portato in più di una applicazione artistica.
Siamo quindi negli Anni Venti, quando Mollie Kyle (Lily Gladstone), una nativa americana della tribù Osage, come tutta la sua gente diventa inaspettatamente ricca sfruttando i giacimenti della terra dell’Oklahoma, dove erano stati deportati dall’Ohio, apparentemente pietrosa e poco promettente. In realtà quel sottosuolo nascondeva ingenti quantità di petrolio. Una fortuna incredibile che però i bianchi hanno limitato tramite una legge secondo la quale gli Osage sono comunque costretti a una condizione di tutela speciale: per reclamare il reddito sulle loro terre e spenderlo hanno bisogno di un cofirmatario bianco. Una sorta di abuso velato, in pratica. È per questo che, con convenienza reciproca, lì fioriscono matrimoni misti, spinti dal fatto che un coniuge ha modo di godere del proprio patrimonio mentre l’altro approfitterà dell’eredità lasciata, se sopravvive. E chissà come mai sopravvive sempre… Difatti, siccome non sono unioni dettate da veri sentimenti ma dalla opportunità, succedono fatti gravissimi e mai approfonditi, sia per ignoranza sia per omertà, ma soprattutto per l’arroganza degli uomini potenti che manovrano i fili della criminalità. Accade così che membri della tribù stanno morendo uno dopo l'altro, uomini e donne, uccisi da misteriose malattie, brutali esecuzioni, attentati dinamitardi e via dicendo. Reati inspiegabilmente impuniti e trascurati con la compiacenza dello sceriffo e dei medici. Chi governa realmente il territorio, come un boss mafioso, come capo indiscusso della delinquenza organizzata, è William Hale (Robert De Niro) che si fa chiamare addirittura Re.
Il film inizia con l’arrivo nella stazione di Fairfax di un reduce della Prima Guerra Mondiale, Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) che accetta di lavorare nella vasta tenuta proprio del ricco zio William, il quale ben presto lo incoraggia a sedurre e sposare Mollie per poi poter reclamare legalmente i suoi terreni. Queste prime scene ingannano: paiono un non facile periodo di inserimento del giovane uomo nel tessuto cittadino post-guerra e dell’affettuoso abbraccio dell’agiato parente che gli fornisce una buona occasione di lavoro e di matrimonio. È una strana città, dove non ci sono cavalli come in tutta quell’America da far west, non c’è qualche auto, ma un’invasione di auto: son tutti ricchissimi e comprano macchine anche costose. È proprio in un veicolo che Mollie e Ernest si conoscono e simpatizzano subito e lei, ingenuamente cede alla corte immaginandolo sincero. Tanto da giungere presto al matrimonio, con la soddisfatta regia di Hale che vede realizzare uno dei suoi tanti progetti che hanno lo scopo di far affluire nel suo patrimonio le ricchezze dei personaggi del suo giro. L’importante è che nel tempo ristretto di qualche anno essi muoiano lasciando l’eredità a qualcuno della sua famiglia, cioè a lui. Un’avidità senza limiti né di quantità né di legalità. Nel corso delle varie scene lo si nota costantemente in prima fila nei matrimoni, nei battesimi, ai funerali, agli avvenimenti più importanti della città, quasi come a controllare che tutto si svolga secondo i suoi piani, rispettato e riverito dalle altre personalità locali. Tutti al soldo del Re.
Se la natura criminale e turbata di quello che è un vero boss del malaffare si svela lentamente e progressivamente, nascosta della enorme ipocrisia che serve a mascherare la malattia di possesso e potere, sentendosi sempre inattaccabile e intoccabile, chi meraviglia è Ernest, che appare chiaramente succube dello zio, assecondandolo ad ogni richiesta, ma combattuto per via del sentimento sincero che prova per la donna tanto dolce e affezionata e di grande carattere che ha sposato e che gli sta dando dei figli. Uno sciocco uomo che naviga anche nel sottobosco delle rapine organizzate con la piccola manovalanza del suo giro. Tutto pare procedere secondo i piani malefici e a lunga durata di Hale fin quando le morti incessanti degli Osage, avvenute sempre in modalità anomali o violente, spazientiscono la comunità di quella etnia, per cui, sospinta anche da Mollie, decide di inviare un loro rappresentante nella capitale per svegliare l’attenzione delle autorità e per far iniziare le indagini. Ma ciò provoca maggiormente le reazioni del grande manovratore e il disegno degli indiani naufraga con l’uccisione del mandatario: chi si frappone ai piani di Hale viene costantemente stritolato e gli indigeni si sentono sempre più sotto tiro. Finalmente, quando si muove Mollie in prima persona, sollecitata dai sospetti che la tormentano e dal peggioramento delle sue condizioni di salute, l’astro nascente J. Edgar Hoover (allora non ancora trentenne) si interessa della faccenda inviando sul luogo una nutrita squadra di agenti federali, guidati da Tom White (Jesse Plemons): è in realtà la prima inchiesta che apre il Bureau e il direttore ha tutto l’interesse per ottenere il primo importante successo. Nel frattempo Mollie, affetta da un diabete inesorabile che cura con delle iniezioni ordinate dall’ingannevole Hale, non fa che peggiorare: Ernest gliele inietta ma i progressi non si vedono e i sospetti della donna si spostano sul marito e suo zio.
Con l’accompagnamento musicale perfetto e mai invadente di Robbie Robertson, il cui ritmato sottofondo accentua i momenti apicali, con alcune pause molto ben inserite che aumentano la tensione, Martin Scorsese è ancora per le strade dell’America, lì come era nata e narrata da lui in Gangs of New York o in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno, senza trascurare un titolo che ricorda la lunga lista di questi omicidi, America 1929 - Sterminateli senza pietà. Questa volta sono le vie lastricate di sangue dell’Oklahoma, terra che doveva essere il confino degli Osage e che invece era divenuta la fonte della loro ricchezza, ma loro nella Storia sono ormai una minoranza e perfino timorata, convertiti al cristianesimo, soddisfatti della loro agiatezza inaspettata, mentre il bianco è sempre il cattivo, e non di turno, ma di sempre, qui rappresentati da un uomo simbolo. È per questo che il regista sceglie la narrazione che è sì sempre quella dell’America violenta, ma stavolta vista con gli occhi delle vittime, per giunta nell’ambito di un’angosciosa storia così scomoda da voler essere stata dimenticata.
I decessi
Invece lui la tira fuori con la maestria riconosciuta, senza retorica o ammiccamenti, asciuttissima, quasi da cronaca asettica, tenendoci per 206 minuti prigionieri di uno scivolamento verso l’abisso dell’ipocrisia che domina i corpulenti uomini di potere di quella regione e di quei tempi. Uomini bianchi che accettano la promiscuità dei matrimoni con uno scopo ben preciso ma che non disdegnano affermare che uccidere un coyote o un indiano è la stessa cosa.
I giacimenti
Solo un grande regista come Scorsese sa gestire una storia piena di pozzi petroliferi, di Buick lussuose, di killers al servizio di chi paga meglio e di agenti FBI che cercano giustizia e fama. Una trama drammatica di estinzione e sfruttamento che inevitabilmente diventa un noir oscuro e infido, dove solo la dolcissima espressione di Mollie può vincere nella giungla della brutale modernità che avanza. Gli Osage hanno troppi gioielli per poter restare con i loro corpi nella tomba, sono un ostacolo all’avanzare del bianco malvagio. Quando poi Ernest, personaggio senza midollo, diventa lo strumento dell’ingordigia di un uomo potente e senza scrupoli, che ha il ghigno d’acciaio di Robert De Niro, solo una giustizia non corrotta (e questa è già una difficoltà locale) e un nucleo di poliziotti integerrimi possono interrompere una catena che pare inattaccabile. Il film dura tanto, sicuramente tanto ma mi chiedo cosa avrebbe potuto tagliare Scorsese in fase di montaggio, con la fedelissima Thelma Schoonmaker, dal momento che ogni scena è necessaria per capire l’evoluzione, ogni personaggio, dei tantissimi che affollano la storia, ha il suo peso – minore o maggiore – e un ruolo nello sviluppo, tra colletti bianchi, sceriffi asserviti, medici compiacenti, assassini senza indugi, rapinatori e dinamitardi che non hanno neanche paura di andare in carcere. Una pagina davvero nera dell’America sognata che ha tanto del western ma che il regista ha dipinto di nero come ha sempre fatto, per giunta con due degli attori più legati a lui.
Un aspetto rilevante è che ci sono momenti di violenza strisciante e di esplosioni ed altri di calma rasserenante, tipicamente indiana. Ed il viso sereno, lo sguardo pacifico, gli occhi che predicano dolcezza di Mollie sotto le sembianze di una vera osage, la splendida Lily Gladstone, sono il contrapposto della violenza esterna, soprattutto quando in uno dei momenti iniziali, durante la loro prima cena insieme a casa di lei, la donna dice all’uomo destinato a sposarla “Dobbiamo stare in silenzio per un po’ […] Stai fermo e basta”.
Forse è quell’atteggiamento che fa intenerire un pupazzetto stolto come Ernest, che non può fare a meno di amarla, che si accorge di provare qualcosa di nuovo, nonostante in seguito resti in balia degli ordini dello zio. È un po’ la fotografia del cinema di Scorsese, fatto di violenza ma anche di pazienza e calma, a volte solo apparente. I tumulti della Storia americana sono qui fortunatamente addolciti dalla abbondante grazia della bravissima attrice, il cui suono della voce ha il tono del miele in un bicchiere di acquavite aspra prodotta nei casolari dell’Oklahoma. Quasi tre ore e mezza di un fiume di fatti, parole, silenzi, sguardi, spari, incendi che procede con la lentezza e la solennità che ha sempre caratterizzato l’idea del regista, il quale si gode anche un attimo di recitazione concludendo il film durante uno show radiofonico che vuole ricordare quegli eventi e cita alcune frasi esplicative. Segno, secondo me, di quale partecipazione emotiva abbia investito Scorsese nel realizzare il film e forse persino un segnale riabilitativo a favore dei pellerossa che nel cinema hanno avuto perennemente l’ombra dei selvaggi, sino agli anni ’70 quando finalmente Soldato Blu e Un uomo chiamato Cavallo invertirono la visuale.
Film eccellente, che ha il sapore della Storia ma anche della Storia minore, che soddisfa la fame di cinema vero, sostanzioso e materico, con personaggi dipinti ad arte, prima scolpiti e poi rifiniti con precisione, con uno stuolo enorme di attori importanti, alcuni dei quali si affacciano solo nel finale. Ovviamente il regista si fida e si appoggia totalmente a due attori che conosce bene e che hanno conosciuti i fasti della loro carriera proprio con lui. Robert De Niro si è costruito il personaggio con una maschera ferrea finalmente differente da quella che si è giocata infinite volte negli ultimi anni e fornisce una prova solida, sicuramente né più né meno di ciò che Scorsese cercava, quindi perfetta. Leonardo Di Caprio - che era stato chiamato in primo momento per il ruolo dell’agente FBI che poi è andato all’affidabile Jesse Plemons, ma ha preteso invece quello di Ernest, spingendo il regista a riscrivere, assieme all’ottimo Eric Roth, la sceneggiatura su sua misura – ha assorbito un personaggio normalmente molto lontano dai suoi prototipi, essendo il suo protagonista alquanto ignorante e insignificante, difficilmente identificabile, succube del capo e falso e indeciso con la sua donna, un personaggio che non si sa come catalogare, senza ipotesi certe, che ha paura dello zio – che arriva persino a punirlo come uno scolaro indisciplinato – e che si accorge di amare la moglie, forse svuotato dalla Guerra vissuta. Davvero un personaggio inaspettato per il divo, con il grugno costantemente impostato, che ricorda un po’ quello tipico di De Niro e un po’ la mascella del Padrino di Brando.
Mollie - Lily Gladstone
Lily Gladstone? Infine, dico, la gente si è accorta di lei! Rivelatasi nel bellissimo Certain Women, di Kelly Reichardt, rivista in pochi film di successo fatta eccezione per lo stimato ma poco diffuso First Cow della stessa regista, qui dà finalmente la dimostrazione delle sue qualità, spandendo a destra e a manca la sua innata dolcezza e soavità, recitando con la calma della sua gente, con la saggezza interpretativa che le ha fornito il personaggio, donna a cui basta lo sguardo per riassumere senza parole i suoi sentimenti e in cui si legge prima l’amore e poi l’estrema delusione ed il dolore per quell’uomo che aveva sbagliato a giudicare e che la sta tradendo in così grave maniera. Com’è giusto che sia, si esprime con la solennità che amano i pellerossa, con la fermezza della voce suadente e armoniosa, sia in inglese che in siouan, apparendo sin dalla prima inquadratura bella e dolce, ritornando nel pieno della sua grazia appena la salute, rovinata dalla malattia inarrestabile, migliora. Mollie è l’accento di armonia che brilla in un mondo pieno di malvagità e sopraffazione e lei ne è la dimostrazione morale e fisica. Il regista le e ci regala primi piani come fosse una madonna, racchiudendo in quel viso, triste e suadente, l’amaro destino che aspetta lei e la sua razza.
Il paesaggio
Inappuntabili i costumi di Jacqueline West, bella la scenografia di Jack Fisk, mentre la fotografia di Rodrigo Prieto è ammirevole, carica di colori. La squadra è ineccepibile, all’altezza dell’arduo compito di girare un film di assoluto livello. Che è gangster movie, noir, western, poliziesco, dramma etnico, dramma familiare: c’è tutta la forza possente del cinema di armi e passione di Martin Scorsese, il cinema che si fa cinema in ogni sequenza. Traboccante di Storia e storie, di personaggi e di attori importanti. Lungo lunghissimo, tale da indurre un autore ruvido e schietto come Paul Schrader, già vecchio sceneggiatore di Scorsese, a dichiarare: “Ammiro Martin, ma non può costringermi a trascorrere tre ore e mezza in compagnia di un idiota!”. Se necessitava una definizione sintetica di Ernest Burkhart l’abbiamo avuta.
Riconoscimenti
2024 – Premio Oscar
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior regista
Candidatura per la miglior attrice a Lily Gladstone
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Candidatura per la migliore fotografia
Candidatura per il miglior montaggio
Candidatura per i migliori costumi
Candidatura per la miglior scenografia
Candidatura per la migliore colonna sonora
Candidatura per la miglior canzone per Wahzhazhe (A Song For My People) a Scott George
2024 – Golden Globe
Miglior attrice in un film drammatico a Lily Gladstone
Candidatura per il miglior film drammatico
Candidatura per il miglior regista
Candidatura per il miglior attore in un film drammatico a Leonardo DiCaprio
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Candidatura per la migliore sceneggiatura
Candidatura per la migliore colonna sonora originale
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