L’accusa
(Les choses humaines) Francia 2021 dramma 2h18’
Regia: Yvan Attal
Soggetto: Karine Tuil (romanzo)
Sceneggiatura: Yaël Langmann, Yvan Attal
Fotografia: Rémy Chevrin
Montaggio: Albertine Lastera
Musiche: Mathieu Lamboley
Scenografia: Samuel Deshors
Costumi: Carine Sarfati
Ben Attal: Alexandre Farel
Suzanne Jouannet: Mila Wizman
Charlotte Gainsbourg: Claire Farel
Mathieu Kassovitz: Adam Wizman
Pierre Arditi: Jean Farel
Audrey Dana: Valérie Berdah
Benjamin Lavernhe: avv. Arthur Célerier
Camille Razat: Quitterie
Judith Chemla: avvocato di Mila
Laëtitia Eïdo: Yasmina Vasseur
TRAMA: Alexandre Farel è il figlio del conduttore televisivo molto importante Jean Farel. Claire, sua madre, ha lasciato il marito e vive con Adam Wizman, separato anche lui dalla moglie Valérie, ebrea e molto religiosa dalla quale ha avuto una figlia, Mila. Quando Alexandre ritorna dagli Stati Uniti dove stava terminando gli studi, raggiunge per una sera sua madre e incontra Mila, figlia di Adam. Insieme andranno a una festa per gli amici studenti del liceo. Il giorno successivo, la polizia arresta il giovane, accusato di stupro dalla ragazza.
Voto 6,5
Alexandre è colpevole? O è vittima di una falsa accusa? La verità è unica e certa? In questo dramma, che ha una valenza sia giuridica sia morale, interferiscono le differenze di classe, di religione e la pressione dei media, oltre che la questione etica e di una giustizia che deve fare chiarezza. Almeno ai fini di una equa e meritata sentenza del tribunale. Il problema centrale, sia della storia in sé che del dibattito giudiziario, non è se il rapporto sessuale sia avvenuto o meno, perché l’accusato non lo nega, piuttosto è – e siamo alle solite, come sempre accade brutalmente in queste occasioni – se questo sia stato consensuale o no. E quindi, nel secondo caso, è chiaramente un reato. Gravissimo. Da punire severamente.
La sceneggiatura, scritta anche dal regista Yvan Attal - nella vita reale padre dell’attore protagonista e marito della Gainsbourg - si avvale del romanzo (omonimo del titolo originale) di Karine Tuil, scrittrice parigina che a sua volta è stata ispirata da un fatto di cronaca accaduto in un campus della californiana Stanford University. L’autore la divide in tre tronconi basati sui tre punti di vista sostanziali e sulla chiara intenzione di esporre i fatti presunti a seconda di chi li riporta: lui, lei e il processo. I primi due si sviluppano nella versione di Alexandre e della diciassettenne Mila, l’ultima parte si svolge quasi interamente durante il dibattimento con le domande dell’accusa, della difesa e della giuria e le testimonianze degli attori della vicenda, compreso gli stretti conoscenti dell’accusato e gli esperti, psicologi e medici, con il loro parere tecnico. È un connubio tra dramma umano (lato fortemente richiamato dal titolo del romanzo) e dramma giudiziario, che porta il film a voler illuminare le asimmetrie esistenti in più di un aspetto dell’opera: c’è una notevole distanza classista tra le due famiglie di provenienza dei due giovani, c’è una ben differente mentalità (anche di cultura) tra loro e tra Alexandre e Mila, c’è una enorme lontananza nelle esperienze sessuali tra i due contendenti che mirano a rendere credibile la propria versione dei fatti.
Siccome il regista non esporrà mai la “vera verità”, evitando di raccontare in alcuna occasione come sia andata realmente quella maledetta notte, il film diventa una mera esposizione soggettiva nelle prime due fasi e non resta che affidarsi alle indagini della polizia e poi alle deduzioni della corte. Ammesso che si possa giungere a realizzare ciò che sia effettivamente successo. Ma come si fa a dare credito alla tesi se c’era il consenso o no della ragazza? A sentirli separatamente, entrambi appaiono sinceri, anche se emotivamente il pubblico può essere condizionato dalle lacrime di Mila o, all’opposto, dalla presupponenza di Alexandre, dalla candida innocenza giovanile della prima o dalla sicumera del secondo. Inutile dire, ahimè, che i relativi genitori sono totalmente di parte (e ciò è comprensibilmente umano), fino al punto che si rovinano i rapporti, finora felici, tra la mamma di lui, Claire, ed il suo amante Adam, padre di lei, mentre il vecchio Jean Farel pare quasi orgoglioso della mascolinità esibito dal figlio, tanto da essere raffigurato, oltre che potente conduttore televisivo, come un individuo non rassegnato alla pace dei sensi.
Le caratteristiche dei vari personaggi vengono immediatamente spiegati sin dalle prime scene, come quella del talk show televisivo a proposito dell’argomento femminista che coinvolge Claire Farel a confronto con un’opinionista di convinzioni differenti, mentre la scena seguente segue l’arrivo di Alexandre all’aeroporto di Parigi, il cui comportamento si rivelerà, durante la nottata seguente, in antitesi alle tesi femministe della madre. Quasi come una versione francese del #MeToo americano, il film di Attal si incunea, alla stregua di un film-inchiesta, nella diatriba scorticando a sangue vivo la pelle di una feroce bestia che non vuole morire: lo stupro. Parola tremenda, che spaventa e inquieta, che urla giustizia, che – ammettiamolo – gonfia il petto dei maschilisti e dei fautori del patriarcato (non è stata la tappa successiva?) e che mobilita giustamente le donne. Gliel’ho chiesto e mi ha accontentato; c’ho provato e non diceva di no; ma “succhiamelo, troia” si dice in quei momenti, no?; non ha opposto resistenza; non ha mai detto di no; era consenziente, il topos. Di rimando: mi ha fatto bere e non sono abituata; ho fumato ma non è mia abitudine; mi ha minacciata; non volevo farlo, mi ha costretto con la forza. La partita è aperta: i genitori credono solo ai propri figli, le dichiarazioni sembrano tutte sincere, la polizia è dura con gli accusati di stupro, almeno in Francia, almeno all’inizio. Eppure, Alexandre pare convincente. Eppure, Mila è distrutta. “Le cose umane” sono pressocché indimostrabili, sono sentimenti e sensazioni e in un’aula di tribunale non riescono a sedersi comodi e ogni confronto in merito non porterà mai ad una verità assoluta pubblica, tranne quella che conosce solo chi vi ha partecipato. Per questo la sentenza finale qui arriva abbastanza salomonica: ti condanno ma non sono certo, per cui sospendiamo la pena. È una non-condanna ed è contemporaneamente una non-assoluzione. Resta lui altezzoso e arrogante come sempre (il suo avvocato difensore d’ufficio ha sempre fatto fatica a limitare questi difetti di approccio), lei riconosciuta vittima ma delusa. Qual è la verità? Stupro o addirittura vendetta per essersi pentita a posteriori? Il film non ce lo mostra, i due hanno due versioni, la Pubblica Accusa e la giuria trovano una sentenza sotto forma di compromesso.
Il film non è lontano dalla realtà. Come vanno a finire i processi nella cronaca che leggiamo tutti i giorni sono dello stesso materiale inconsistente: spesso c’è la condanna ma il processato continua a urlare la sua innocenza mentre la presunta vittima, nonostante tutto, è consapevole che rimarrà la peggiore esperienza della sua vita. Ma andando nello specifico, chi dice il vero tra Alexandre e Mila? In ogni caso è preferibile, per lo scrivente, esprimersi sul film che sulla repellente vicenda umana, che travalica le nostre prerogative e va oltre le nostre possibilità e comprensione in senso strettamente penale. Molto meglio (conveniente?) esprimersi sull’opera di Yvan Attal, che - scontato l’apprezzamento delle intenzioni, ancorché non prenda posizione e si limiti ad esporre le tesi – non affonda mai le unghie della carne viva dell’ambiguità, trascurandole e stimolando invece le reazioni psicologiche dello spettatore verso i privilegi di una famiglia altolocata e le ipocrisie ambientali. Costellando inoltre la folla dei personaggi con alcune figure che hanno poca consistenza (vedi la giovane amante del patriarca Jean, di cui pochissimo si conoscerà). Può contare però su una buona sceneggiatura e sulle esperte interpretazioni degli ottimi attori che dirige bene, conoscendo ovviamente in maniera perfetta la moglie (Charlotte Gainsbourg sempre eccezionale) ed il figlio protagonista, oltre al più che navigato Pierre Arditi, punto di riferimento per i grandi registi francesi storici. Giudizio certamente positivo per il giovane Ben Attal alla sua sesta apparizione ma sempre e soltanto diretto dal padre: chissà cosa vorrà dire questa particolarità (un po’ come succede con Pier Giorgio Bellocchio). Sul ventiseienne non mi sbilancio troppo non avendo potuto ascoltarlo in originale (la versione è doppiata) e va solo puntualizzato che sa esprimere abbastanza bene il carattere impulsivo del ricco rampollo infastidito dalle legittime reazioni della giovane vittima.
In ogni caso, la caratteristica del film, come già precisato, è quella di non chiarire esattamente l’imputabilità della colpa di Alexandre o, viceversa, se si è trattato di una reazione di pentimento e vendetta da parte di Mila. L’unica cosa chiara è che in un certo qual modo la regia spinge a schierarsi per la prima ipotesi perché tra lo smarrimento e le lacrime la ragazza appare sincera, oltre che addolorata per non essere creduta in modo assoluto. Persino la sentenza è meno netta rispetto a ciò che ci si dovrebbe attendere. Probabilmente perché proprio Yvan Attal non ha voluto prendere una chiara posizione e lo rivela nelle sue dichiarazioni presentando il film (che è arrivato in anteprima alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia il 9 settembre 2021, fuori dal concorso principale): “Mi ha commosso l’imputato (in cui potevo riconoscere mio figlio) e mi ha commosso la vittima (in cui potevo invece riconoscere mia figlia). Mi sono totalmente identificato con i genitori dei due giovani coinvolti nella vicenda. Ho modificato la struttura della storia in modo che il pubblico avesse il tempo di affezionarsi a loro. Io stesso, ad esempio, volevo sapere da dove venivano, chi erano, come ognuno di loro ricordava la sera prima del dramma, perché lei pensava che quello accaduto fosse uno stupro e lui invece un rapporto consensuale. L’argomento è contemporaneo, i personaggi complessi. E per la prima volta il libro mi ha permesso di allontanarmi dalla commedia e di tornare verso un genere che desse la possibilità di fare un film con elementi con cui non avevo mai lavorato prima: una stazione di polizia, un tribunale, una perquisizione domiciliare e così via.” E, come optano alcune volte i registi, il formato dello schermo passa dal corrente 16 mm. al quadrato 1/33 per le sequenze della festa e dei fattacci che ne seguono.
Di sicuro il film colpisce e fa impressione perché se ci si compenetra nel dramma della ragazza se ne resta scossi, se poi ci si sostituisce ai genitori si soffre come un fatto personale e si prova dolore, pur restando di parte (Mio figlio? Impossibile!). Sotto questo punto di vista, se il pubblico prova queste reazioni, vuol dire che la scrittrice prima e il regista dopo hanno fatto un buon lavoro. Il verdetto? Beh, io ho una mia teoria molto personale e quindi vale zero, alla pari della mia convinzione che ogni colpevole è da curare, sempre: la giustizia vera e assoluta non esiste perché l’unica verità assoluta esiste e la conosce solo chi c’è, in aula si arriva ad una verità che è solo giudiziale e serve a scrivere una sentenza. Altrimenti non ci sarebbero gli errori giudiziari, l’infallibilità non è dell’uomo. Nello specifico, se il giovanotto ha commesso reato va condannato senza se e senza ma.
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