L'ammutinamento del Caine: Corte Marziale
(The Caine Mutiny Court-Martial) USA 2023 dramma 1h48’
Regia: William Friedkin
Soggetto: Herman Wouk (opera teatrale)
Sceneggiatura: William Friedkin
Fotografia: Michael Grady
Montaggio: Darrin Navarro
Scenografia: Kirk M. Petruccelli
Costumi: Louise Frogley
Kiefer Sutherland: com. Philip Francis Queeg
Jason Clarke: ten. Barney Greenwald
Jake Lacy: ten. Stephen Maryk
Monica Raymund: com. Katherine Challee
Lance Reddick: cap. Luther Blakely
Lewis Pullman: ten. Thomas Keefer
Elizabeth Anweis: cap. med. Joan Lundeen
Tom Riley: G.M. Willis Seward Keith
Francois Battiste: cap. Randolph Southard
Gabe Kessler: SSC.3 Junius Urban
Jay Duplass: ten. med. Allen Bird
Gina Garcia-Sharp: stenografa
Stephanie Erb: RDML Lucille Stutz
Dale Dye: viceamm. R.T. Dewey
Denzel Johnson: J.P. Simmons
TRAMA: Il tenente della marina statunitense Barney Greenwald si trova suo malgrado a difendere in corte marziale dall’accusa di ammutinamento il suo parigrado Stephen Maryk, il quale, primo ufficiale di una nave comandata dal capitano di corvetta Philip F. Queeg, ha sollevato quest’ultimo dal comando dopo avervi osservato segni di instabilità mentale che avrebbero potuto causare gravi conseguenze, sia per il Paese che per l'equipaggio, durante una tempesta nello stretto di Hormuz.
Voto 7
Da una parte la rigidità dei regolamenti militari, dell’obbedienza assoluta agli ordini e ai gradi superiori, dall’altra l’eventualità imprevista di disobbedire per motivi di necessità, di opportunità, quindi di salvezza di vite umane (caso estremo), per giungere alfine ad un termine terribile che nell’ambiente della marina militare è uno dei punti più gravi a cui arrivare: l’ammutinamento. Vocabolo che diverse volte si è affacciato nei titoli della storia del cinema. Ma non è tanto il dualismo tra i due concetti che il film vuole affrontare quanto invece la rottura degli schemi inflessibili che il mondo degli uomini in divisa ritiene impraticabile. Il codice che domina le loro mansioni è ferreo, è scritto e imparato a memoria e solo su quel tracciato essi si muovono e convivono. L’idea che giunga il momento in cui sarebbe opportuno stravolgere l’ordine delle cose, in quell’ambiente, è così remota che accade più che raramente e quasi mai accettata e praticata. Quando succede non c’è altro che un processo che, in questo campo, assume una terminologia inquietante: la corte marziale. Che più che dal dio greco Ares, deriva da quello latino Marte.
Succede infatti che quando in un giorno di navigazione il capitano di corvetta della Marina degli Stati Uniti Philip Francis Queeg (Kiefer Sutherland), al comando del dragamine “Caine” nel Golfo Persico, mostra, almeno secondo i suoi sottoposti, segni di instabilità mentale che mettono a repentaglio la sicurezza della nave, il primo ufficiale, il tenente Stephen Maryk (Jake Lacy), lo solleva dal comando, destituendolo, ma una volta a terra – di conseguenza – viene accusato di ammutinamento e portato davanti alla corte marziale. Il tenente Barney Greenwald (Jason Clarke), un avvocato dal comportamento e dalla convinzione alquanto scettici, difende con mascherata (ma non più di tanto) riluttanza l’ufficiale accusato che ha preso il controllo della nave usurpandola al suo capitano mentre erano nel bel mezzo di una violenta tempesta in mare. Greenwald diventa sempre più preoccupato man mano che la corte marziale procede e si chiede se il caso del Caine sia stato un vero ammutinamento o semplicemente un insieme di atti coraggiosi di un gruppo di marinai che non potevano più fidarsi del loro instabile leader per evidenti motivi psichici. Questo è il resoconto, condensato nel capo d’accusa verso il giovane tenente, che viene esposto nell’aula del tribunale militare, in cui svolge quasi per intero tutti il film, presentandosi così come un chiarissimo courtroom drama, quindi un film drammatico essenzialmente ridotto e sceneggiato a dibattito processuale, con una corte che ascolta e fa domande, presieduta dal capitano Luther Blakely (il compianto Lance Reddick, a cui verrà dedicato il film), e che vede come figura di pubblica accusa la grintosa e ferrea ufficiale Katherine Challee (Monica Raymund). Sulla sedia dei testi sfilano l’accusato, il comandante che ha subito l’ammutinamento e altri militari di bordo, in un lungo, dibattuto, incerto, in alcuni momenti drammatico dibattimento che vede l’alternarsi degli stati d’animo degli interessati a seconda di quale direzione prende la lancetta della bilancia della Giustizia.
Si potrebbe immaginare sia un film, essendo essenzialmente di dialoghi, senza azioni e pochi cambi di scena, monotono o addirittura noioso, ed invece tutt’altro: dopo aver preso il ritmo, sia il film che lo spettatore, diventa una interessante e appassionante discussione legale, in cui fa specie che lo scettico avvocato difensore, in più occasioni, non interviene per opporsi ad una domanda dell’accusa o una obiezione lecita che vengano accettate dal severo Blakely, non solo meravigliando costui, ma spingendolo al punto di intervenire lui stesso per chiedere a Greenwald come mai non abbia interrotto. Segno più che evidente che quest’ultimo stia compiendo a fondo il suo compito ma quanto sia combattuto internamente dalle personali perplessità. Come è evidente, non è un’opera di sfondo giuridico, bensì con ampi risvolti morali e psicologici, mettendo al centro dello schermo non tanto l’accusato che deve difendersi dimostrando la giustezza della sua azione di ribellione, sebbene incoraggiata e sostenuta dai colleghi a bordo della nave, ma piuttosto il personaggio ambiguo e non chiaro del comandante Queeg. Il quale, man mano che la procedura va avanti, parte con la sicurezza di un ufficiale competente e autorevole, esperto nel suo lavoro, spiegando i suoi metodi e la sua valenza nel mestiere ma prosegue scivolando lentamente nelle sabbie mobili dell’insicurezza e delle contraddizioni che lo inghiottono in maniera inesorabile.
Le nevrosi vengono a galla, la spavalderia iniziale diventa vanagloria, le sue gravi indecisioni nei momenti tragici vissuti a bordo nel momento difficile delle scelte assumono le sembianze di macigni che pesano sulla condotta che, a detta dei presenti in quei momenti, doveva essere un’altra e che stava diventando pericolosa per il natante e per gli uomini. Un nervosismo evidenziato dal gioco di due biglie che il comandante ruota freneticamente tra le dita della mano, dita che non sono mai state ferme sin dalla prima udienza. Non poche volte l’accusa mette in difficoltà Maryk e ciò serve alla regia per instillare continue gocce di thriller alla narrazione e puntualmente appare la sincerità del giovanotto che si sentì in dovere di intervenire, per il bene di tutti.
Già, non ho scritto ancora dell’autore. Il motivo c’è e ne vale la pena trattarlo. La regia puntuale e la serrata e cronometrica sceneggiatura tengono in piedi un film che si fa appassionante di minuto in minuto, come deve essere un buon film. Tratto dall’opera teatrale di Herman Wouk (che ne trattò anche in un libro), l’ultimo film di William Friedkin uscito postumo e terminato a fatica – per questo motivo fu assistito da Guillermo del Toro – è anche un manifesto ultimo del suo cinema ribelle e indipendente, un anticonformista che firma l’ultimo film come emblema dell’”andare contro”, dando ritmo forsennato non ad uno dei suoi celebri inseguimenti ma ad un sostenuto dibattimento legale. Da notare a parte, questo è il non so quale remake (quarto, quinto, sesto?) del libro o opera teatrale portato sul grande schermo dopo che in diversi ci hanno pensato (persino Altman per la TV) ma il pensiero di un appassionato non può non fare a meno di andare a quello del 1954 a firma di Edward Dmytryk (altro regista reietto dalla Hollywood anticomunista) chiamato L’ammutinamento del Caine, film memorabile che vede un altrettanto memorabile cast in cui primeggia in assoluto una delle migliori prove di Humphrey Bogart, con uno dei personaggi più nevrotici che abbiano attraversato la sua carriera: il suo Philip Francis Queeg è esemplare e il gioco delle biglie è nato nelle sue mani. Con tutti il rispetto per il compianto Friedkin, quello fu un grandissimo film.
A prescindere dai paragoni, in ogni caso siamo di fronte ad un film buonissimo e a dar lustro all’operazione del grande e irripetibile regista, per sue scelte oculate, vi troviamo eccellenti interpreti, tutti compenetrati nei rispettivi ruoli, a cominciare dalla prova che esibisce un attore più visibile ormai nelle serie in streaming che nei cinema: l’ottimo Kiefer Sutherland. Doveva rendere prima credibile e poi inaffidabile il suo comandante e ci riesce magnificamente, con un tono di voce che lentamente mette turbamento a chi lo ascolta (attenzione: doppiaggio che non può mai, pur se adeguato, rapportarci al bel lavoro che l’attore compie). Il suo personaggio arriva altero e sicuro ma deposizione dopo deposizione si irrigidisce, si innervosisce, comincia a rispondere con meno sicurezza e fanno capolino le mitiche biglie tra le mani. Solo un gradino sotto, ma in ruoli più abbordabili, il militare sotto processo Stephen Maryk interpretato molto bene nel suo personaggio in chiaro-oscuro dal buonissimo Jake Lacy, come d’altronde gli altri, con evidenza maggiore a favore di Lance Reddick. Eccellente anche la presenza dell’unica donna presente tra i personaggi importanti, Monica Raymund, che il regista sceglie per l’accusa, rompendo – proprio come piaceva a lui – lo schema classico dell’ambiente militare maschilista. L’altro attore in grande evidenza è anche Jason Clarke, che finalmente si sta affermando nei film importanti (vedi anche Oppenheimer), in un ruolo chiave non solo ai fini del percorso procedurale ma anche, e direi soprattutto, perché il suo ruolo di avvocato difensore per dovere – già evidenziato dal colloquio introduttivo nel corridoio che conduce all’aula – arriva al gran finale facendo eruttare le sue personali valutazioni alla pari di un vulcano che non poteva più restare dormiente. Finito il suo compito, esplode nella scena conclusiva esponendo le sue idee critiche insultando apertamente sia il difeso che l’ufficiale che aveva contribuito in maniera determinante alla decisione finale della giuria. Monologo che si materializza con un gesto/getto per confermare la volontà di ribaltare la verità stabilita da una giuria. Una vera e propria resa dei conti. Un gesto ribollente e ribelle, perfettamente integrato nella filosofia di cinema non integrato del grande regista. E, ancora tipicamente alla sua maniera, ci coglie di sorpresa con un taglio secco di quella sequenza per far partire senza indugio i titoli di coda, sferzati dal ritmo di Lowdown dei Boz Scaggs and David Paich. Mica Orietta Berti!
“È un film che aspettavo da tempo di fare, originariamente scritto da uno dei maestri del suo tempo, Herman Wouk. Sapevo di voler creare uno scenario molto teso e pressurizzato che si muovesse rapidamente come un pipistrello uscito dall'inferno. Ho scelto intenzionalmente di mantenere la questione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato il più ambigua possibile. Sono rimasto costantemente impressionato dal livello di competenza che i nostri attori hanno portato nei loro ruoli e credo che queste siano alcune delle migliori interpretazioni che abbia mai visto.”
Che la terra ti sia lieve, Hurricane Billy!
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