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L'ospite (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 20 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

L’ospite

(The Little Stranger) UK/Irlanda/Francia 2018 horror 1h51’

Regia: Lenny Abrahamson

Soggetto: Sarah Waters (The Little Stranger)

Sceneggiatura: Lucinda Coxon

Fotografia: Ole Bratt Birkeland

Montaggio: Nathan Nugent

Musiche: Stephen Rennicks

Scenografia: Simon Elliott

Costumi: Steven Noble

Domhnall Gleeson: dr. Faraday

Ruth Wilson: Caroline Ayres

Charlotte Rampling: Mrs. Ayres

Will Poulter: Roderick 'Roddy' Ayres

Anna Madeley: Anne Granger

Oliver Zetterström: giovane Faraday

Camilla Arfwedson: giovane Mrs. Ayres

Harry Hadden-Paton: dr. Granger

TRAMA: In un piccolo e isolato villaggio inglese, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il dottor Faraday viene chiamato a curare un mal di schiena nella vecchia tenuta di Hundreds Hall, una proprietà che conosce sin da quando era bambino perché vi lavorava la madre come domestica. La residenza appartiene a Mrs. Ayres, una vedova che vi vive con i due figli adulti, Caroline e Roddy. Gli Ayres accolgono a braccia aperte Faraday, che ben presto si interessa al mistero che aleggia intorno alla costruzione e a un malvagio fantasma.

Voto 7


Dopo il simpatico Frank con Michael Fassbender e il successo del claustrofobico Room (recensione), Lenny Abrahamson ci parla - come nel precedente - di un luogo circoscritto, non di pochi metri quadri come quello, anzi anche enorme dato l’esiguo numero di persone che vi abitano, di una grande villa nobiliare. Hundred Hall, immersa nel verde del Warwickshire, nell’Inghilterra rurale, è la protagonista non recitante del film, il luogo classico del classico plot da film horror dove i proprietari, anche in questa occasione ricchi caduti in disgrazia finanziaria, sono abbastanza misteriosi per poter lasciare tranquilli gli spettatori. È una enorme abitazione ormai con troppe stanze, qualche piano disabitato e lasciata andare: troppe ragnatele, troppi ricordi non molto belli da cancellare. Anche chi vi abita sembra decadere nell’aspetto fisico e forse mentale.


Chi scombina i piani di un noioso e ripetitivo modo di vivere ormai in declino è il giovane dottore che arriva inatteso, in sostituzione del precedente. Si chiama Faraday e ci tiene molto a entrare in quella grande casa perché aveva avuto modo di accedervi da bambino, figlio di una donna che vi aveva prestato servizio come cameriera. Ricorda bene e con qualche rammarico quei tempi, quando era stato premiato dalla padrona di casa e nella foto ricordo era stato seminascosto in seconda fila dalla piccola figlia Suzy posizionata davanti. Come un piccolo dispetto involontario. Ragazzina che morì quasi subito dopo in non chiare circostanze. (Una piccola digressione: il piccolo Oliver Zetterström, interprete del giovanissimo Faraday, mi ricorda in maniera impressionante Justin Korovkin, il Samuel di The Nest – Il nido, recensione) Sì, la combinazione dei personaggi di Abrahamson è sufficientemente scontata con persone con traumi pregressi: la padrona di casa, Mrs. Ayres, enigmatica e di poche parole; il maschio di casa, il figlio Roddy, notevolmente limitato dalle ferite della Grande Guerra che lo ha reso fortemente claudicante e devastato nel volto; la sorella Caroline che sconta una vita ritirata e rinunciataria; una giovanissima cameriera scioccata dalla vita a cui assiste e che non vede l’ora di licenziarsi. Rare le visite dei notabili dei dintorni, pochi i contatti con la gente del paese. L’idea di Roddy è di disfarsi della proprietà, legata a brutti ricordi e con vividi presentimenti negativi. L’arrivo però dell’intraprendente e compassato dottor Faraday cambia il ritmo monocorde della villa, ma viene accettato con molte riserve da parte della famiglia, a cominciare dalla zitella stagionata che non può fare a meno di notare il forte interessamento verso di lei, nei confronti del quale è nel contempo tentata a cedere. La sua scarsa attitudine ad accettare la vicinanza fisica di un uomo la spaventa e la attira nello stesso tempo. La classica situazione viene completata da strani rumori che ogni tanto si sentono e da segni inspiegabili lasciati sul muro e nei vecchi e vuoti armadi delle stanze non più frequentate: minime scritture che paiono la firma della defunta Suzy. Il mistery comincia a colorarsi di horror. Sembrava un romanzo ottocentesco e invece acquista il colore del sangue.


È la casa che domina la veduta arrivando dalla strada del bosco in cui è immersa, è la villa che incute timore a chi la guarda, è quella che pian piano diventa la padrona della trama, è lì che avvengono gli strani fenomeni che allarmano chi vi abita e di cui il dottor Faraday cerca una spiegazione pratica e logica. Quello stabile assurge a co-protagonista con le campanelle collegate con le stanze vuote che suonano, con i rumori e gli scricchiolii del legno delle scale e degli armadi. Si ha la netta sensazione che la grande cucina, con quella serie di campanelle sulla parete, diventi l’epicentro e la raccolta di messaggi e preannunci misteriosi. La casa, abbandonata dall’incuria e dall’atteggiamento passivo dei tre abitanti, sta prendendosi una rivincita come un individuo rancoroso. Inoltre, Hundred Hall sembra una casa infestata: da chi e da cosa non è facile capirlo. Un fantasma o una maledizione come teme Roddy? Lo scenografo e art director Simon Elliott è bravissimo nel costruire e arredare spazi sempre poco illuminati, immersi in una luce opaca e verdognola, pieni di coni d’ombra, dove ovunque potrebbe annidarsi qualcosa. Soprattutto è capace di trasmettere la sensazione che la casa sia un organismo vivo, con i suoi pavimenti di legno e le sue boiseries, i suoi velluti e i suoi specchi. La scenografia mi è parsa, oltre alla ottima recitazione degli attori, la vera rivelazione del film, curatissima in particolari che possono ricordare vagamente un’ambientazione gotica ma che non è l’impronta che il regista ha voluto esaltare ma che serve a contribuire alla rappresentazione cercata con attenzione. Se a ciò aggiungiamo i curatissimi costumi dell’epoca ad opera di Steven Noble il quadro diventa completo, fino all’ultimo fotogramma.


Le figure principali sono interpretate molto bene dagli attori: Domhnall Gleeson è stupefacente nella trasformazione in un personaggio da primo novecento, con sfumatura alta, baffetti e capelli rossicci (sua caratteristica da perfetto irlandese come il glorioso padre), postura da dottore austero e da giovane speranzoso invaghito (?) dell’erede femminile; Ruth Wilson, bravissima, una vera sorpresa nel ruolo della imbronciata e poco disponibile Caroline; Charlotte Rampling, esperta di lungo corso e adeguata nel ruolo della padrona di casa, ermetica come una cassaforte con i suoi segreti e timori; Will Poulter che accentua le sue caratteristiche somatiche per diventare un burbero e instabile amministratore di casa Ayres. Un quartetto ineccepibile che, pur se in un film che di per sé non dice molto di nuovo, esalta adeguatamente l’opera di Lenny Abrahamson, facendoci rimanere in tensione fino alla fine.


Il personaggio più interessante rimane comunque il giovin dottore. Il suo ruolo è centrale nella trama anche dal punto di vista psicologico, insinuandosi in quell’aristocrazia morente con il disagio dell’uomo di umili origini che tenta la scalata sociale. All’inizio senza dar fretta all’avvicinamento, poi sfidando le circostanze tenta l’affondo, in una notte umida, piovosa e buia, nella sua auto con l’apparente disponibilità di Caroline, nel bosco, come si usava negli anni dell’italico boom economico con la piccola utilitaria appena acquistata e usata come un talamo occasionale. Sequenza importante per osservare il comportamento dei due personaggi in un momento topico per la loro descrizione esplorativa. Anche lui, come la casa, tenta il riscatto di classe.


Alla fine ne rimarrà uno solo, in una enorme casa ancor più fatiscente di prima.



 
 
 

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