L’ufficiale e la spia (2019)
- michemar
- 24 nov 2019
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 18 ago 2023

L’ufficiale e la spia
(J’accuse) Francia/Italia 2019 dramma storico 2h12’
Regia: Roman Polański
Soggetto: Robert Harris (romanzo)
Sceneggiatura: Robert Harris, Roman Polański
Fotografia: Paweł Edelman
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Jean Rabasse
Costumi: Pascaline Chavanne
Jean Dujardin: ten.col. Marie-Georges Picquart
Louis Garrel: cap. Alfred Dreyfus
Emmanuelle Seigner: Pauline Monnier
Grégory Gadebois: magg. Hubert-Joseph Henry
Mathieu Amalric: Alphonse Bertillon
Melvil Poupaud: Fernand Labori
Éric Ruf: col. Jean Sandherr
Laurent Stocker: gen. Georges-Gabriel de Pellieux
François Damiens: Émile Zola
Michel Vuillermoz: ten.col. Armand du Paty de Clam
Denis Podalydès: Edgar Demange
Wladimir Yordanoff: gen. Auguste Mercier
Didier Sandre: gen. Raoul Le Mouton de Boisdeffre
Vincent Grass: gen. Jean-Baptiste Billot
Hervé Pierre: gen. Charles-Arthur Gonse
Laurent Martella: cap. Ferdinand Walsin Esterhazy
Luca Barbareschi: Philippe Monnier
TRAMA: Il 5 gennaio 1895 il capitano Alfred Dreyfus, un giovane soldato ebreo, viene accusato di essere una spia della Germania e condannato all'ergastolo sull'Isola del Diavolo. Tra i testimoni della sua umiliazione vi è Georges Picquart, che è promosso invece alla direzione dell'unità di controspionaggio militare che lo ha incastrato. Quando però scopre che informazioni segrete arrivano ancora ai tedeschi, Picquart viene trascinato in un pericoloso labirinto di inganni e corruzione che minaccia non solo il suo onore ma anche la sua stessa vita.
Voto 8,5

Dopo due anni da un film appena passabile (Quello che non so di lei [recensione]) e dopo sei da Venere in pelliccia (recensione) film di ben altra levatura, Roman Polanski torna alla grande con un’opera maestosa.
Solido, perfettamente scritto assieme a Robert Harris, autore anche del romanzo su cui è basato, girato con estrema cura nei particolari e nell’ambientazione, diretto da una mano felice e magistrale, interpretato in maniera austera da un inappuntabile Jean Dujardin, è un film che fa venire in mente il Grande Cinema, quello classico dei grandi maestri. Semplicemente perché Polanski è un grande autore.

Impostato sulle cronache del tempo, ampiamente annotate dai giornali e dagli storici, è un vero legal-movie in cui la ragione di stato, la cieca inflessibilità dei militari, l’omertà degli alti ufficiali e l’antisemitismo imperante in Francia e in tutta Europa negli anni alla fine del XIX secolo (sentimento quest’ultimo che si riaffaccia spesso e in maniera periodica nel genere umano) portarono alla condanna del 35enne capitano Alfred Dreyfus accusato di spionaggio a favore dell’Impero germanico e condannato alla degradazione e alla deportazione perpetua ai lavori forzati nella colonia penale dell'Isola del Diavolo, nella Guyana francese, il 5 gennaio 1895. Negli anni a seguire ebbe notevole peso la disonestà dei vertici del tribunale militare che non vollero ammettere il gravissimo errore giudiziario commesso in prima istanza, particolare che gravò anche nel secondo processo dove l’accusato vide solo una ipocrita riduzione della pena. Soltanto la costanza e la perseveranza del tenente colonnello Marie-Georges Picquart - in primo momento anche lui poco predisposto per motivi razziali verso il giovane ebreo, ai tempi della scuola militare in cui uno era docente e l’altro allievo – porteranno, con grave rischio della sua carriera e della sua incolumità sociale, a far venire a galla la verità. Operazione che richiese anni per dimostrare quanti documenti apocrifi erano stati prodotti per arrivare alla ingiusta condanna di un innocente: false lettere scritte imitando la scrittura di Dreyfus e prodotte come prove schiaccianti con la collaborazione di un grafologo disponibile a collaborare con la macchinazione predisposta dagli uffici del reparto di spionaggio interno.

È un film che non stanca in nessuno dei 132 minuti della durata, nonostante i dibattiti giudiziari che non si rivelano mai noiosi, anzi tutt’altro, perché la dimensione thriller impostata dal regista ci tiene sulla corda continuamente, come un vero giallo giudiziario, appassionante e vibrante. Il montaggio scelto per la prima parte richiede una particolare attenzione in quanto si alternano sequenze che riguardano il prima e il dopo la condanna e la sua esecuzione, il che porta alla necessità di saperle distinguere. E solo dopo circa un’ora di proiezione si sente per la prima volta la parola “innocente”.
È un grandissimo film che allenta appena la presa dell’indagine storico-legale solo nei momenti di intimità di Picquart con l’amante Pauline Monnier (la sempre seducente Emmanuelle Seigner, che non manca mai nei film del marito), istanti di romanticismo per mostrarci la vita personale di un ufficiale integerrimo e coscienzioso, che per onestà intellettuale rivedrà pian piano i suoi pregiudizi verso il povero accusato, fino al punto di venire insultato dagli inferociti cittadini come traditore e filoebraico. Alla lunga Picquart si rivela invece uomo retto e coraggioso, pronto addirittura a sfidare i potenti vertici dell’esercito francese pur di dimostrare la verità. D’altro canto, è anche un film che sa raccontare il dolore sordo, inascoltato e impotente di un uomo che proclamava la sua innocenza, proprio lui che come discendente di una ricca famiglia ebrea alsaziana si era arruolato nell’esercito francese (cosa rara) dopo che i tedeschi avevano occupato la sua terra di origine. Una innocenza proclamata ad alta voce, in ogni occasione, in ogni momento, perfino durante la lacerante cerimonia della degradazione avvenuta con le truppe militari schierate nell’enorme cortile della Scuola di Guerra, con i cittadini che insultavano il condannato. Questa imponente e solenne scena, che apre il film con un sontuoso e lento piano sequenza che zuma con calma verso il drappello che accompagna il prigioniero, ci immette subito e direttamente nel cuore del film, sin dai primi istanti, con il volto di Dreyfus sbiancato, nervoso e incredulo, quello di un giovane ufficiale che ha le sembianze di un uomo d’altri tempi. Mentre il popolo dei cittadini, sarcastico e inviperito, sghignazza:
“Ha la faccia di un sarto ebreo che piange per l’oro che non ha più.”
“I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli ebrei.” “È il progresso!”

Eppure, quegli ufficiali irremovibili avevano paura che il tappo dell’omertà e delle complicità saltasse facendo scoprire le gravi irregolarità processuali, tanto che a Picquart fu apertamente ordinato: “Non voglio avere un altro affare Dreyfus!” “Non è un altro affare Dreyfus, generale: è lo stesso!” fu la secca risposta. Per la fortuna del tenente colonnello e di tutti i cosiddetti dreyfusiani, si ersero a paladini un importante editore e uno scrittore della levatura come Émile Zola, il quale coraggiosamente pubblicò sul quotidiano lo storico articolo indirizzato al sindaco intitolato a caratteri cubitali “J’accuse…” che, come ben sappiamo, è divenuto nel corso degli anni il termine più utilizzato per denunciare misfatti di ogni genere con schiettezza e chiarezza. Lo scrittore elencò coraggiosamente i nomi delle persone che avevano mistificato la narrazione dell’affaire e falsificato le prove portate in tribunale. Denunce che ebbero un effetto dirompente nella politica e nell’ambiente militare, ambiente che immediatamente reagì condannando ad un anno di reclusione e a 3.000 franchi di ammenda Émile Zola. Tutto era nato allorquando Picquart gli aveva riferito che “Qualcuno deve raccontare questa storia, come ufficiale in servizio io non posso dire niente.” E Zola: “Voi no, ma io sì!” Purtroppo sul momento con scarsi risultati ma con la conseguenza che ormai lo scandalo era di pubblico dominio.

Gran film, imperdibile e di gran pregio, appassionante come se non conoscessimo le vicende, avvincente e imponente come le bellissime inquadrature, sostenute dalla irreprensibile regia. Un’opera che rappresenta l’anti-belle-époque. Tocco invisibile ma incisivo è il commento musicale di Alexandre Desplat che accompagna il film: è così leggero e così poco invadente che si avverte appena, come a non voler interferire con il racconto drammatico e complesso; la fotografia è adeguata ai tempi in maniera ineccepibile, degna del cinema classico a cui questo film fa riferimento.
L’affaire Dreyfus è stato definito storicamente uno degli scandali e degli errori giudiziari più gravi della storia moderna e questo film lo dimostra, eppure il mio pensiero va a tutte quelle persone che sono state condannate ingiustamente in tante zone del mondo, che hanno subito supplizi e pene senza aver commesso alcun reato. Tanti sono stati perfino giustiziati e solo dopo anni è stata scoperta a loro innocenza. Dreyfus fu uno scandalo enorme ma non l’unico, eclatante sì, ma solo perché gli altri sono passati sotto silenzio.
I riferimenti alle vicissitudini giudiziarie personali di Roman Polanski sono evidenti, a prescindere dal giudizio che possiamo dare noi, e la scena finale in cui l’innocente Alfred Dreyfus chiede il riconoscimento degli anni di anzianità persi per ottenere il grado di ufficiale che gli spetterebbe mi ha dato l’idea di ciò che il regista sta chiedendo alla comunità internazionale, essendosi sempre proclamato innocente rispetto alle accuse di stupro per cui è stato condannato moltissimi anni fa. Lui, lo pensiamo tutti, ha scelto il povero capitano ebreo Alfred Dreyfus per rappresentare la sua vicenda. Tanto che il titolo originale (ben diverso da quello nostrano) è, secondo me, sia l’urlo di Émile Zola che la vibrante protesta di Roman Polanski: J’accuse!
(Nota aggiuntiva: con questo scritto non intendo assolvere né accusare il regista in merito ai suoi guai giudiziari, le mie riflessioni riguardano solo quello che il film mi ha suscitato. Dispiace solo che non riesce più a concorrere per gli importanti premi di Hollywwod).
Riconoscimenti
2019 – Festival di Venezia
Leone d'argento - Gran premio della giuria
Premio FIPRESCI al miglior film in concorso
Green Drop Award
2020 - Premio César
Miglior regista
Migliore adattamento
Migliori costumi
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