La donna che canta (2010)
- michemar
- 15 feb
- Tempo di lettura: 7 min

La donna che canta
(Incendies) Canada/Francia 2010 dramma 2h19’
Regia: Denis Villeneuve
Soggetto: Wajdi Mouawad (dramma teatrale “Incendies”)
Sceneggiatura: Valérie Beaugrand-Champagne, Denis Villeneuve
Fotografia: André Turpin
Montaggio: Monique Dartonne
Musiche: Grégoire Hetzel, Radiohead
Scenografia: André-Line Beauparlant
Costumi: Sophie Lefebvre
Lubna Azabal: Nawal Marwan
Mélissa Désormeaux-Poulin: Jeanne Marwan
Maxim Gaudette: Simon Marwan
Rémy Girard: notaio Jean Lebel
Abdelghafour Elaaziz: Abou Tarek
Allen Altman: notaio Maddad
TRAMA: In seguito alla morte della madre Nawal, due gemelli, Jeanne e Simon, scoprono alla lettura del testamento di avere un fratello e un padre ignoti. Dei due, in un primo momento, solo Jeanne decide di relazionarsi alla scoperta e di partire per Deressa, dove la madre compì i suoi studi universitari. Le ricerche della figlia procedono di pari passo con lo sguardo al tragico percorso giovanile della madre, entrambi diretti verso la verità sui parenti scomparsi.
Voto 10

È capitato a tanti di incontrare casualmente una persona e innamorarsi di colpo, immediatamente. Nella stessa maniera ignara, una sera di qualche anno fa mi imbattei casualmente sul canale che trasmetteva questo film e ne rimasi letteralmente stordito, anzi trafitto. Ero talmente rapito che non mi resi conto di aver assistito alla proiezione di quello che oggi reputo ormai il film più bello della mia vita, o almeno così mi parve e paradossalmente mi succede ancora adesso quando, dopo aver comprato il DVD, l’ho tenuto lì tanto tempo, fermo, per godere della visione successiva tanto desiderata. E poi ancora, ogni tanto – ma a tempo distanziato – lo rimetto nel lettore o resto catturato se la pay-tv lo rimette in onda.
Il talento di questo giovane e sconosciuto regista canadese del Québec al suo quarto lungometraggio, dopo i rivelatori e innovatori, e per questo interessanti Un 32 août sur terre, Maelström, Polytechnique, si rivela immediatamente per la sicurezza narrativa e l’autorialità con cui ci introduce nella storia e nella pesante atmosfera del Medio Oriente in ebollizione e sempre col fronte caldo non solo tra arabi e israeliani, ma anche tra gli adepti delle diverse religioni arabe. Le prime sequenze sono davvero paradigmatiche sia per la bravura del cineasta, ormai maturo per il grande salto, che per immergerci nel cuore del dramma che sta per accadere e che dà il via ad una lunga storia che attraversa decenni di vita di una donna e della sua famiglia.
Nawal e Jeanne sono madre e figlia e ripercorrono entrambe lo stesso tragitto nelle terre martoriate di un Medio-Oriente non ben identificato, nella zona tra la Cisgiordania, la Palestina, il Libano. Non è il destino che fa ripetere alla figlia Jeanne il percorso della madre, è la forza della volontà che spinge la figlia e che spinse la madre, è la ferma e coraggiosa voglia di arrivare alla verità che diventa destino. Nawal Marwan lo fa più di un paio di decenni prima nella disperata e impossibile impresa di ritrovare un figlio strappatole dai familiari perché lo aveva partorito per amore ma con un uomo da loro non gradito e da loro immediatamente giustiziato: lei cristiana e lui arabo, inammissibile e insopportabile per la famiglia di lei. E non lo ritroverà mai o forse tragicamente, troppo drammaticamente sì.
Jeanne deve rifare la strada tracciata dalla madre perché nel testamento lasciato a lei e al fratello Simon ha lasciato due lettere che devono recapitare assolutamente: una per il padre a loro sconosciuto e una per un fratello che neanche pensavano di avere. La ragazza così viene a conoscere chi veramente era Nawal Marwan e quante sofferenze aveva dovuto patire, che donna forte era stata sua madre, cosa aveva dovuto e saputo sopportare per aver vendicato la perdita di un bambino, frutto di vero amore. E perché la mamma era stata soprannominata la donna che canta.
Solo la necessità di arrivare alla verità, che anima tanto Jeanne, le dà il coraggio e la forza di non arrendersi davanti alle ostilità che incontra nella ricerca e smuove finalmente anche il fratello Simon che non voleva aiutarla, forse per la paura di trovarsi davanti ad una realtà che non vuol conoscere: “Stai zitto e vieni con me. È compito tuo trovare nostro fratello, se non lo vuoi fare per per lei o per te stesso, fallo per me!” Infatti, quello che scopriranno sarà tremendo, da lasciare sbigottiti e angosciati, perché “Uno più uno fa due. Uno più uno fa due, non può fare uno… Jeanne, uno più uno può fare uno?!” Il breve urlo che caccia la ragazza è uno dei momenti più stordenti del film, uno dei più difficili da interpretare per non risultare malamente melodrammatico. Ed invece è allucinante e insopportabile. Bravissima Mélissa Désormeaux-Poulin! Ecco perché anche un potente testimone di quei tempi cercava di fermarli: “A volte è meglio non sapere tutta la verità”. Ma come afferma il notaio, presso cui lavorava Nawal e che ha custodito le sue due lettere, la morte non è mai la fine di una storia. La fine della vita di Nawal è l’inizio della loro ricerca, al di là delle frontiere e attraverso il tempo, in un passato che non conoscevano. La scoperta della verità è l’inizio della loro vita. Nonostante tutto, alla verità bisognava arrivarci: ora sanno tutto. Tutto è chiaro.
Per arrivare al finale che rimane per sempre nella mente è necessario tenere saldi la testa e il cuore, seguire passo passo la tragica storia di Nawal e l’indagine affannosa di Jeanne e Simon, non distrarsi un minuto, perché il film si tinge di thriller (poi il davvero sorprendente regista Denis Villeneuve difatti si butterà anima e corpo nel genere, con Prisoners e con Enemy, quest’ultimo piuttosto di natura psicologica) e come in un thriller lo spettatore deve prestare continua attenzione. Villenuve non ci concede mai un attimo di tregua, ci porge continuamente scene una più drammatica dell’altra, ci mostra con crudezza (senza mai eccedere in scene di violenza fisica) la insanabile ferita di quelle martoriate terre, ci conduce sino al pugno nello stomaco del finale e a noi spettatori non rimane che respirare con calma per riprenderci.
Di Denis Villeneuve oggi è diventato ormai un hobby inutile sprecarsi in elogi, piuttosto mi piace far risaltare come la prova delle due protagoniste, Lubna Azabal e Mélissa Désormeaux-Poulin, è davvero convincente, esaltata anche dal fatto che si rassomigliano così tanto che nel montaggio ellittico che le mostra quasi in parallelo – anche se a distanza di anni - quando attraversano la polverosa e sassosa campagna e i villaggi arabi si può perfino confonderle. E ciò dà maggior forza alla immedesimazione della figlia nella figura della madre. Notevole anche il giovane Maxim Gaudette, alla sua seconda volta con il regista dopo il sorprendente bianco e nero di Polytechnique.
Tratto dall’opera teatrale di Wajdi Mouawad, libanese naturalizzato canadese, il soggetto è ispirato alla vita di Souha Fawaz Bechara e su avvenimenti accaduti durante la guerra civile libanese. Questa donna è un’attivista e scrittrice libanese nota in particolare perché all’età di ventuno anni tentò di assassinare il generale Antoine Lahad dell’Esercito del Libano del Sud. È nata a Deir Mimas, in Libano, da famiglia di religione greco-ortodossa: suo padre era membro del Partito Comunista Libanese e Souha stessa entrò di nascosto nel partito nel 1982, anno in cui Israele invase il Libano; fu attiva in seno agli organi del partito, come il Fronte di Resistenza Jammoul e l’Unione della Gioventù Democratica libanesi. lasciò il college nel 1986 e si unì alle attività militanti in Libano. Le fu affidato il compito di assassinare il generale Lahad: di conseguenza, si diresse a sud e si presentò alla famiglia dell’ufficiale come istruttrice di aerobica alla moglie Minerva. A poco a poco familiarizzò con i membri della famiglia visitandoli continuamente. La sera dell’attentato, il 17 novembre del 1988, la moglie di Lahad la invitò per il tè e lei accettò l’invito e vi rimase fino all’arrivo del generale. Bechara sparò due volte con una pistola 5,45 millimetri: il militare venne colpito una volta al petto e una volta alla spalla, poi Bechara gettò via la pistola prima che le guardie del corpo di Lahad l’arrestassero. Lahad sopravvisse all’attentato, mentre Bechara venne subito arrestata dalle guardie di sicurezza. Lahad trascorse otto settimane in ospedale, affetto da gravi complicazioni di salute, e il suo braccio sinistro rimase paralizzato. Bechara venne invece detenuta nella famigerata prigione di Khiyam, da cui venne rilasciata il 3 settembre 1998, a seguito di una intensa campagna libanese ed europea a suo favore.
La sceneggiatura scritta come sempre dal regista come faceva in quel periodo, stavolta coadiuvato da Valérie Beaugrand-Champagne, ne trae una storia liberamente simile e lascia il titolo dell’opera teatrale. Sullo schermo Incendies diventa gli scontri a fuoco nelle assolate campagne medio-orientali, è il fuoco di un bus di innocenti ancora vivi, è il tatuaggio su una caviglia, è la violenza degli stupri sistematici, è la musica struggente dei Radiohed, è l’incendio della mente e dello stomaco, è la ferita che lascia per sempre questo film incredibile:
We ride tonight
We ride tonight
Ghost horses
Ghost horses
We ride tonight
We ride tonight
Ghost horses
Ghost horses
Ghost horses.
(da “You and Whose army?”)
Il breve video che segue è un feroce segmento del reclutamento adolescenziale nelle file dei guerriglieri, bambini rasati per essere predisposti all’indottrinamento e alla preparazione psicofisica alle armi: il ragazzino su cui punta l’obiettivo di Villeneuve è quello dei tre puntini famigerati tatuati sul tallone sin dalla nascita, appena tolto alla mamma Nawal. Il lento, straziante ed esplicativo piano sequenza finale stringe l’inquadratura sempre più in primo piano sull’espressione smarrita di chi sta intuendo che quello sarà il suo prossimo futuro. Lui ci guarda dritto negli occhi, come chi si prepara a diventare uno di loro e non avrà pietà, qualsiasi compito gli spetterà. Mai immaginando ciò che gli toccherà davvero compiere e verso chi. Perché, in quel momento, essi non sono figli di nessuna donna. È lì la grande tragedia di questo film. Raramente il brano di un film (e il registro di interpretazione di Thom Yorke) è così efficace come in questa scena, densamente drammatica.
Riconoscimenti
Oscar 2011
Candidatura miglior film in lingua straniera
BAFTA 2012
Candidatura miglior film in lingua straniera
César 2012
Candidatura miglior film in lingua straniera
David di Donatello 2011
Candidatura miglior film in lingua straniera
In totale 41 premi e 20 candidature
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