La parete di fango (1958)
- michemar
- 2 mar
- Tempo di lettura: 8 min

La parete di fango
(The Defiant Ones) USA 1958 dramma 1h36’
Regia: Stanley Kramer
Sceneggiatura: Nedrick Young, Harold Jacob Smith
Fotografia: Sam Leavitt
Montaggio: Frederic Knudtson
Musiche: Ernest Gold
Scenografia: Rudolph Sternad
Costumi: Joe King
Tony Curtis: John “Joker” Jackson
Sidney Poitier: Noah Cullen
Theodore Bikel: sceriffo Max Muller
Cara Williams: madre di Billy
Charles McGraw: capitano Frank Gibbons
Lon Chaney Jr.: Big Sam
Claude Akins: Mack
Kevin Coughlin: Billy
TRAMA: Due galeotti riescono ad evadere durante un trasferimento. Uno è bianco, l’altro è nero. Sono legati ai polsi da una catena e non possono dividersi. Nonostante una fortissima rivalità, gradualmente il rapporto tra i fuggitivi si modifica.
VOTO 8

Negli Stati Uniti degli anni ‘50, la società era caratterizzata da tensioni razziali. Gli americani erano preoccupati per l’integrazione della cultura afroamericana nella loro società. Di conseguenza, molti stati, in particolare nel Sud, adottavano politiche di segregazione razziale. Hollywood, seguendo una politica di esclusione di star e di eroi neri dai loro film, contribuiva a questa divisione. Tuttavia, alcuni produttori e registi cercarono di affrontare il tema del razzismo producendo film che sensibilizzassero il pubblico. Stanley Kramer fu uno di questi e il suo film ne è un esempio eclatante. Ma non solo. Anzi, il film contribuì alla nascita di una delle prime grandi star del cinema nero americano, Sidney Poitier: nato in Giamaica, aveva il grandissimo dono di un notevole carisma ed una evidente intelligenza, oltre alle sue ragguardevoli doti recitative.
La trama si svolge, per giunta, nella zona meridionale degli Stati Uniti, dove la segregazione razziale è molto diffusa storicamente. Durante il trasferimento di alcuni detenuti, scoppia un temporale e il furgone cellulare su cui sono trasportati si capovolge a seguito di un incidente e precipita nella scarpata. Due di loro, il bianco John e il nero Noah, legati da una catena stretta ai polsi, riescono a fuggire mentre gli altri restano feriti e trasportati via con le ambulanze. Appresa la notizia dell’evasione, lo sceriffo Max Muller e il capitano di polizia Frank Gibbons organizzano immediatamente le ricerche con l’aiuto di cani specializzati. Immancabilmente, John è pervaso da un forte sentimento razzista e mal sopporta il dover condividere non solo la fuga, ma anche la compagnia dell’afroamericano, a cui è costretto suo malgrado, almeno fino a quando i due non avranno spezzato la catena che li tiene legati.
Sono stanchi, affamati, braccati, la manetta della robusta catena comincia a infettare il polso di John il terreno è difficoltoso e paludoso: la fuga è parecchio rallentata da tanti fattori. Il bianco vorrebbe dirigersi al sud, il nero neanche se lo sogna, data la maggiore ostilità razzista a cui andrebbe incontro. Per cui, per forza di cose, Noah riesce ad imporsi e si dirigono verso il nord evitando le strade, con la speranza di trovare uno strumento adatto a spezzare la catena. Che il razzismo sia una mentalità molto diffusa lo dimostrano diverse scene e discussioni tra i due: persino se si passano la sigaretta, il bianco non accetta quella già iniziata dal nero, suscitando la rabbiosa ironia del compagno, ma le dimostrazioni peggiori si riscontrano quando riescono a raggiungere una casa isolata nei boschi al limitare della grande palude in cui vivono una signora e suo figlio adolescente. Essendo stata abbandonata dal marito sparito chissà dove, la donna si mostra molto accogliente ma solo verso il bianco, offrendogli subito del cibo e siccome questi lo chiede anche per il compagno, è evidente quanto lei si meravigli e faccia uno sforzo malamente trattenuto al pensiero che lei debba servire anche un nero, guardato come e peggio di un animale.
La forzata convivenza durante la fuga porta fatalmente ad una maggiore conoscenza tra i due, soprattutto durante le soste nella boscaglia e nell’esigenza di aiutarsi nelle difficoltà ambientali, per nulla per generosità quanto per l’evidente necessità che cavarsela per uno vuol dire offrire aiuto forzato all’altro e il regista fa evidenziare come Noah, anche se malvolentieri, si adopera per collaborare mentre John lo fa molto controvoglia e perché non esistono altre soluzioni. Come dire che il razzismo non si cancella neanche nei momenti di estrema difficoltà o quando serve assolutamente cooperare per la salvezza di entrambi. Le punzecchiature sono continue, le frasi sono sferzanti se non proprio maligne, ma incredibilmente qualcosa comincia a cambiare nel rapporto tra i due. Non che nasca amicizia o stima, assolutamente no, ma a furia di stare assieme e di doversi aiutare, succede che prima di tutto diminuisce l’antipatia e la sfiducia e che poi, in fondo, cominciano a fidarsi l’uno dell’altro: una parvenza di legame cameratesco, di convenienza sì, ma anche di conoscenza reciproca che ammorbidisce la durezza precedente. Le disavventure finali li portano addirittura a gesti clamorosi che ci si può attendere solo da persone legate da forte amicizia e fedeltà, a scelte così coraggiose che ti puoi aspettare solo tra uomini sinceramente affiatati e che tengono alla salute dell’altro. Fino alla estrema rinuncia. Sarebbe sorprendente e irreale ma per come matura è solo la naturale conseguenza dell’evoluzione del rapporto che si è andato modificando man mano che combattono la stessa battaglia. Sono due criminali da piccolo cabotaggio, con al massimo qualche rapina, ma l’andamento della storia e per come vengono presentati e sviluppati nel loro carattere, il regista fa sì che lo spettatore simpatizzi per loro e che tifi per la riuscita della loro fuga.
Razzismo, amicizia che nasce, ruolo dell’unica donna che influisce sulla storia. Del primo non basta scriverne ma è necessario osservare come sia guardingo Noah, cosciente di come siano ritenuti le persone di colore nella società e come venga trattato dagli altri personaggi: partendo dal compagno di evasione, passando tra gli abitanti della regione e gli inseguitori, per finire alla mentalità che predomina la casa della donna della piccola fattoria dove sostano. Quella signora, pietosa e troppo accondiscendente verso il bel galeotto che per lei rappresenta solo la fuga (anche la sua) da un luogo che non ama, fino al punto che abbandonerebbe al fratello suo figlio, pur di scappare via e altrove con un uomo che rappresenta finalmente un compagno affidabile, quella signora è l’espressione compiuta del razzismo ritenuto normale lì e in quel tempo. “Pure a lui?” chiede meravigliata a John quando lui le dice di riempire un piatto anche per Noah, come dire che agli animali si danno i resti, mica il cucinato! A prescindere inoltre da come se ne sta lontana per paura di essere contagiata da chissà quale malattia infettiva. Il nero. Ma che pretende?
L’aspetto più bello umanamente e più costruttivo è il rapporto che si trasforma in alleanza e poi vera amicizia fraterna tra i due fuggitivi. Che sarà pure un espediente ammiccante ai fini delle simpatie che il film può attrarre da chi apprezza queste vedute liberal, ma che in realtà fa parte integrante del film e ne forma l’ossatura principale. Attenzione: è un film di soli maschi e quando compare – a prescindere dalle donne del piccolo borgo dove transitano i due e dove rischiano il linciaggio, evitato da un ex carcerato (Mack, interpretato dal classico caratterista dei tempi Claude Akins) – l’unica donna della trama capiamo che può essere la soluzione alla riuscita della fuga oppure la rovina dell’avventura. È facile però che la presenza femminile apra a due scenari: che sia ritenuta da un giudizio prettamente maschilista (alla fine degli anni ‘50, periodo del film, può accadere) il personaggio debole che può combinare solo guai e che non sa compiere la scelta giusta, oppure che quella per cui opta è comprensibile a causa della sua solitudine e il bisogno di avere un uomo nella vita. Due considerazioni opposte che ogni spettatore avrà davanti e che sceglierà a seconda del proprio pensiero. Fatto è che, in ogni caso, pensando alla personale convenienza, dà a Noah il consiglio che le fa comodo ma che fa arrabbiare e reagire “Joker”: siamo all’apice, alla decisione determinante, siamo alla dimostrazione di come il rapporto tra i due protagonisti sia maturato in un qualcosa che è più di un patto. È un vero legame affettivo fino al punto di mettere a repentaglio la propria salvezza per pensare a quella dell’altro, forte come l’acciaio della catena che li teneva uniti. Quindi, di conseguenza, chi passa vergognosamente da una trincea all’altra è l’unica donna del film.
Il ‘58, anno del film, indica la contemporaneità degli avvenimenti narrati, è il tempo in cui la gente d’America non si meraviglierebbe più di tanto se un nero venisse linciato o condannato sommariamente dal processo del villaggio, è la mentalità corrente e solo un regista come Stanley Kramer – che 9 anni dopo richiamerà l’attore di colore per Indovina chi viene a cena? – è il cineasta adatto per trattare un argomento così difficile e prendere le distanze dalla mentalità predominante e con grande professionalità trasforma il film in un manifesto di solidarietà e di democrazia. I due si odiavano ma la voglia di lottare assieme per la sopravvivenza nelle sterpaglie ma soprattutto nella grande buca di fango per nascondersi alla vista della gente, la cui parete scivolosa appare l’ostacolo peggiore della fuga, sembra la prova decisiva in cui comincia a saldarsi la loro amicizia. Colpisce la figura dello sceriffo Max Muller (Theodore Bikel) dotato di buon senso e umanità, che spicca nella massa degli inseguitori caratterizzati solo dalla voglia di raggiungere i fuggitivi e magari di lasciarli agguantare dai cagnoni che libererebbero volentieri. Deve faticare non poco per trattenere la voglia di giustizia “fai da te” degli uomini che collaborano: con la sua calma dà l’idea di rappresentare le idee del regista. Giustizia ma nella legalità.
Tante volte si parla di chimica all’interno di una coppia di attori, ma questa volta siamo all’esemplificazione più chiara che si possa immaginare: la recitazione e quell’amalgama tra i due protagonisti è di prim’ordine e lo si nota in particolar modo nelle scene di maggior suspense, come l’attraversamento del fiume delle rapide che portano via e l’uscita dalla buca dalle pareti di fango. Tony Curtis è superlativo e Sidney Poitier è magistrale. La sua performance rende tutti gli eventuali difetti del film degni di essere ignorati poiché trasmette la rabbia e il dolore del suo personaggio con grande effetto. Era uno di quegli attori che sembravano sempre pazzi, il che si adattava perfettamente alla maggior parte dei suoi ruoli. La sua recitazione porta ogni spettatore a identificarsi e a prendersi cura del suo personaggio. Questo Noah è solo l’inizio di una carriera formidabile e non basterà mai elogiarlo a sufficienza. Il film inizia con la sua voce che canta un blues triste dei neri d’America e termina con il canto che riprende. Come un lamento e protesta contro le ingiustizie sociali della società malata di discriminazione.

Riconoscimenti
Premio Oscar 1959
Migliore sceneggiatura originale
Migliore fotografia
Candidatura miglior film
Candidatura migliore regia
Candidatura miglior attore protagonista a Tony Curtis
Candidatura miglior attore protagonista a Sidney Poitier
Candidatura miglior attore non protagonista a Theodore Bikel
Candidatura miglior attrice non protagonista a Cara Williams
Candidatura miglior montaggio
Golden Globe 1959
Miglior film drammatico
Candidatura miglior film promotore di amicizia internazionale
Candidatura migliore regia
Candidatura miglior attore in un film drammatico a Sidney Poitier
Candidatura miglior attore in un film drammatico a Tony Curtis
Candidatura miglior attrice non protagonista a Cara Williams
Premio BAFTA 1959
Miglior attore protagonista a Sidney Poitier
Candidatura miglior film
Candidatura miglior attore protagonista a Tony Curtis
Festival di Berlino 1958
Orso d’argento per il miglior attore a Sidney Poitier
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