La quattordicesima domenica del tempo ordinario
Italia 2023 dramma 1h38’
Regia: Pupi Avati
Sceneggiatura: Pupi Avati
Fotografia: Cesare Bastelli
Montaggio: Ivan Zuccon
Musiche: Sergio Cammariere, Lucio Gregoretti
Scenografia: Marco Dentici
Costumi: Maria Fassari
Gabriele Lavia: Marzio Barreca
Edwige Fenech: Sandra Rubin
Massimo Lopez: Samuele Nascetti
Lodo Guenzi: Marzio Barreca da giovane
Camilla Ciraolo: Sandra Rubin da giovane
Nick Russo: Samuele Nascetti da giovane
Fabrizio Buompastore: Dalmastri
Cesare Bocci: padre di Marzio
Sydne Rome: madre di Sandra
Pilar Abella: proprietaria boutique
Tony Cercola: Romoli
Anna Safroncik: Anna Nascetti
TRAMA: Bologna, anni '70. Marzio, Samuele e Sandra sono giovanissimi e ognuno ha il suo sogno da realizzare. I due ragazzi, amici per la pelle, fondano una band chiamata ‘I Leggenda’ e sognano il successo. Sandra è di una bellezza abbacinante e aspira a diventare modella. Qualche anno dopo, nella quattordicesima domenica del tempo ordinario, Marzio e Sandra si sposano mentre Samuele suona l’organo per loro. Trentacinque anni dopo fanno il consuntivo delle loro vite, dei loro rapporti e, soprattutto, dei loro sogni.
Voto 6-
Che tutta la filmografia di Pupi Avati sia votata ai tempi andati e che non ci sono più, anzi che non si ripetono, non è una novità. Tutte le sue opere sono un album dei ricordi, a volte rimpianti, che hanno marchiato la sua vita tra il cinema e la musica. Storie nostalgiche e malinconiche, molto spesso con molti elementi biografici, come ancora in questo film. Tanti sono i riferimenti alla sua vita di giovane che voleva fare il musicista e che invece ha fatto il regista. Persino nel titolo ha richiamato una data importante della sua vita, quella, come nel film, del giorno del suo stesso matrimonio. Come avviene tra Marzio e Sandra che si uniscono sull’altare giusto la quattordicesima domenica del tempo ordinario che corrisponde alla settimana, nell’ambito del calendario religioso, nei dintorni della Quaresima.
La trama si sviluppa nella Bologna degli anni '70 quando Marzio, Samuele e Sandra sono giovanissimi e ognuno ha un suo sogno da realizzare: la musica e la moda, con la speranza del successo. I due ragazzi, amici per la pelle, fondano il gruppo musicale “I Leggenda” sognando Sanremo, mentre Sandra è un fiore di bellezza e aspira a diventare indossatrice. Qualche anno dopo, nella domenica del titolo, Marzio sposa Sandra e durante la cerimonia Samuele suona l’organo. Per l’occasione, la data liturgica diventa addirittura il titolo della canzone scritta dai due, la sola da loro incisa, la sola ad essere diffusa da qualche radio locale, con la speranza di approdare al Festival. Negli anni a seguire, quando tutto sembra loro possibile, si appalesa all’improvviso una rovinosa tempesta che spazzerà ogni illusione. Ritroveremo i protagonisti 35 anni dopo, quando tutto è cambiato e le cose non sono andate come speravano. Marzio è rimasto il solito giovanotto invecchiato, illuso e sfortunato, squattrinato e iscritto nella lista dei rischi bancari, sempre all’inseguimento del traguardo lontano come un miraggio, solo e sconosciuto, nell’appartamento in cui visse per poco tempo con la donna che ha sempre amato, ma senza più le pareti tinte di blu come amava Sandra. E chitarra al seguito. Samuele invece si è imborghesito e ha fatto una luminosa carriera in banca. Proprio l’opposto. Come cantava Antonello Venditti, quando sognava la rivoluzione giovanile del ’68 “Compagno di scuola, compagno per niente, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?” Ecco, appunto. Ed allora, cosa è stato delle loro vite, dei loro rapporti? Ma soprattutto cosa ne è stato dei loro sogni? Amarezza, nostalgia, malinconia, le spinte emotive di Avati.
Marzio è rimasto tale e quale, gli altri due sono cambiati con la maturità caratteriale: uno è diventato addirittura il presidente della banca, l’altra lo ha mollato non sopportando più la sua gelosia e per averle mentito nel momento più drammatico della sua vita ancora giovane. Quella gelosia che lo tormentava da giovane, quando aggredì un giovanotto in un cinema e che riappare, sempre violenta e irragionevole, da anziano in un ristorante. Non è mai cambiato, neanche l’amore verso la donna. Un giro intorno all’esistenza che, quando rallenta, approda prima nel tragicissimo evento che pone fine alla vita di Samuele, e poi nella immancabile reunion finale. Come quando il tram della vita sta facendo le ultime fermate prima di andare al deposito e l’autista guida con più prudenza e cerca di godere gli ultimi tratti della corsa. Come dice appunto Avati: “Credo che il condividere la cosiddetta terza età, questa stagione così complicata della propria vita con qualcuno che ti conosca e che ti stia accanto possa rappresentare un sollievo non indifferente.”
Poteva essere un film allegro come una commedia che racconta la vita di tre persone che si son volute bene ed invece è un excursus abbastanza triste, un racconto che illustra (e questo è proprio nelle intenzioni dell’autore) i fallimenti e i sogni infranti. “Come alla fine del percorso della propria vita e in generale di tutti quanti noi, si ha come la netta sensazione che i sogni che avevi fatto fin da quando eri ragazzino non si sono realizzati. E il mio racconto inizia proprio in un posto di Bologna: un chiosco di gelati realmente esistito e che da piccolo frequentavo anche io, apparentemente magico in cui davvero si aveva le percezioni che tutto era possibile. Poi ho immaginato il trascorrere del tempo, una coppia separata che si rincontra dopo 35 anni e che fa i conti con l’intero loro percorso. E quel lento riavvicinarsi mettendo sul piatto gioie, dolori, delusioni ma anche la voglia di fare l’ultimo pezzo della vita insieme.” La dimostrazione di ciò che afferma è che in un certo qual modo quel Marzio gli rassomiglia non poco, un perdente che non ha smesso di sognare ad occhi aperti pensando di rimettere in piedi il duo che cercava di scalare la salita del successo anche se avevano scritto ed inciso solo un brano. Da anziano è deluso e amareggiato, vive solitario, quasi ai margini della società a cui cerca comunque, anche ora, di svegliare l’interesse verso di lui, perché, infatti, non si è mai arreso. È questa la sua forza, caparbio come da giovane, vestito di pelle e stivaletti.
A riportarlo alla realtà è proprio il ritrovamento della bellissima Sandra, la quale, da parte sua, fa bene a rimproverarlo dolcemente: “Sei entrato in un'età difficile dalla quale un po’ ci si vergogna e dalla quale tutti si aspettano che prima o poi ci si arrenda.” Ma il bello dell’amore, quello vero, è che non muore mai e dopo tanti decenni rieccoli a guardarsi negli occhi e a intuire che l’uno ha bisogno dell’altra e viceversa. Una semplice storia d’amore, quindi? No, ha tanti eventi anche drammatici e tanti ricordi personali inseriti: oltre a quelli accennati, anche quello del padre scomparso quando sia il protagonista che il regista avevano un’età ancora adolescenziale e che, come succede a tanti di noi in quelle condizioni, resta una ferita aperta, non potendo mai dire al genitore: vedi cosa sono riuscito a fare? sei contento, ti ho reso fiero? peccato che non mi hai potuto aiutare e consigliare, ne avevo bisogno. Resta un rapporto talmente breve che diventa un mito, un sogno, ricordato sempre come un bell’uomo, affascinante, che divertiva le donne. E quando le diverte, si sa, le conquista.
Più nostalgico e malinconico il film non poteva essere, ma non colpisce come avrebbe potuto, che poi è l’emblema del cinema di Pupi Avati, perennemente ad un passo dal confezionare un’opera che lasci il segno. Tranne qualche rara occasione (La casa delle finestre che ridono, Una gita scolastica, Regalo di Natale, Il papà di Giovanna, forse anche Dante) gli altri suoi film sono accettabili e godibili ma sino ad un certo punto, troppo semplicistici nella stesura della scrittura, sempre rivolti al passato mai affrontando seriamente la vera commedia o il più serio dei drammi. In questo film, per esempio, la prima mezz’ora è caratterizzata da fin troppo brevi lampi narrativi per spiegare l’inizio della carriera musicale dei due giovani, saltando continuamente da una scena all’altra, mai completando a dovere la sequenza. Un collage continuo di piccoli tasselli per dover costruire il quadro completo. Dialoghi essenzialmente semplici che sfiorano gli argomenti per dover passare subito ad altro. La fotografia è buonissima ma, a ben osservare, mi ha fatto troppo venire in mente la fiction televisiva (ho scritto ripetutamente che per me ciò non è un difetto in sé ma per un film da sala sì). È un racconto facile, già sentito tante altre volte, nulla di nuovo. Forse è proprio per questo che Avati si rifugia continuamente nella memoria e nell’album delle vecchie foto, quando i sogni di gioventù parevano ancora tutti possibili. Ma se vuoi scrivere un dramma devi andare fino in fondo, magari rimarcando caratteri ed avvenimenti in modo più incisivo. Per contro e per fortuna è un cinema intimista, riservato, non urlato (vade retro Muccino!), con il sorriso socievole, dalla lacrima popolare, abitato dalla borghesia che sa di naftalina, da persone mai veramente cattive (escludiamo i suoi horror, la sua vera passione), dalle emozioni contenute.
Di certo l’autore ha potuto disporre di un cast con alcuni nomi di prestigio, tra cui spicca un grande attore e regista teatrale: Gabriele Lavia si è prestato al personaggio in maniera ovviamente eccellente. Da evidenziare la presenza della sempre affascinante Edwige Fenech riapparsa dopo anni di assenza (intanto ha fatto la produttrice), il primo ruolo drammatico per Massimo Lopez, l’efficace performance, anche se breve, di Cesare Bocci, il cameo di una spaventosa Sydne Rome, il debutto interessante della bella e giovane Camilla Ciraolo (poi si vedrà se promette davvero). Ma chi davvero rappresenta il film, più dell’importante presenza di Lavia, è Lodo Guenzi, il cantante de Lo Stato Sociale che ormai si è dato al cinema (vedi Est - Dittatura Last Minute) e che con il suo sciocco sorriso riesce a rappresentare al meglio il senso del film e del suo protagonista: irruente, dall’entusiasmo facile, ingenuo, poco riflessivo, spontaneo, sognatore. Se è questo che Avati cercava nel suo interprete, il giovanotto centra in pieno l’obiettivo e dà pienamente l’idea del carattere quasi infantile di Marzio. Il brano, un vero leitmotiv che si ripete e che si intitola come il film, è una canzone facile e quasi inconsistente nel corso della visione, ma sui titoli di coda parte la versione di Sergio Cammariere (che l’ha scritta con Avati) e assume tutt’altra veste, molto apprezzabile.
Come spesso accade, Pupi Avati resta a galla tra la mediocrità e la sufficienza, che non però raggiunge in pieno perché alla fine dei conti, di questo film come di altri, non resta molto in mano. Pare sempre che manchi la spinta decisiva. Piacevole, forse; convincente davvero, non molto.
Comments