La zona d’interesse
(The Zone of Interest) UK/Polonia/USA 2023 dramma 1h45’
Regia: Jonathan Glazer
Soggetto: Martin Amis (romanzo)
Sceneggiatura: Jonathan Glazer
Fotografia: Łukasz Żal
Montaggio: Paul Watts
Musiche: Mica Levi
Scenografia: Chris Oddy
Costumi: Małgorzata Karpiuk
Sandra Hüller: Hedwig Höß
Christian Friedel: Rudolf Höß
Medusa Knopf: Elfriede
Daniel Holzberg: Gerhard Maurer
Sascha Maaz: Arthur Liebehenschel
Max Beck: Schwarzer
Wolfgang Lampl: Hans Burger
Ralph Herforth: Oswald Pohl
Freya Kreutzkam: Eleanor Pohl
Johann Karthaus: Klaus Höß
Luis Noah Witte: Hans-Jurgen Höß
Nele Ahrensmeier: Inge-Brigit Höß
Lilli Falk: Heidetraut Höß
Imogen Kogge: Linna Hensel
Medusa Knopf: Elfryda
Zuzanna Kobiela: Aniela
Shenja Lacher: Fritz Bracht
Rainer Haustein: Richard Glucks
Benjamin Utzerath: Fritz Sander
Thomas Neumann: Karl Prufer
Klaudiusz Kaufmann: Bischoff
TRAMA: La vita quotidiana delle famiglie che abitano vicino al campo di concentramento di Auschwitz negli Anni Quaranta, durante la Seconda Guerra Mondiale. In particolare, la famiglia Höß, che vive in un’elegante casa di campagna vicino al fiume. C’è il capofamiglia Rudolf, sua moglie Hedwig e i loro figli. Intorno a loro gravitano altre persone, con cui gli Höß condividono le giornate.
Voto 8
Sono quasi 80 anni che si girano film e documentari sulla Seconda Guerra e segnatamente sull’Olocausto e sui campi di concentramento, ma gira e rigira, in qualche modo, si sono tutti equivalsi nel mostrare le tragicissime immagini e sempre impressionando lo spettatore. Qualche autore meglio, altri meno, ma tutti con le intenzioni di testimoniare l’orrore vissuto. Poi esistono migliaia di libri, romanzi o no, per descriverlo a parole ed uno di questi è il romanzo soggetto del film, scritto da Martin Amis, che Jonathan Glazer ha portato sullo schermo, scegliendo di realizzarlo secondo il suo ormai noto stile. Perché, in effetti, anche se ne abbiamo sentito parlare e letto tanto volte - e purtroppo ci si è perfino abituati, o, meglio, assuefatti - il regista londinese va oltre il modo consueto: la Storia viene scarnificata, asciugata, stilizzata, ridotta a immagini glaciali e asettiche, come se si stesse assistendo ad una scena ordinaria di scarsa importanza. Come se tutto fosse normale. Perché, in effetti, tutto pare normale, come la vita tranquilla della numerosa famiglia del comandante Rudolf Höß.
Infatti, questi (Christian Friedel), che è l’ufficiale responsabile di Auschwitz, e la moglie Hedwig (Sandra Hüller) da tempo si impegnano a costruire la vita che sognavano per la loro famiglia, nel piccolo idillio di una casa con ampio giardino costruita accanto al campo. Premiato per il suo lavoro nell’organizzazione del campo di sterminio, compresa la costruzione di un nuovo crematorio più efficiente (impressionante la semplicità con cui viene mostrato il progetto per una “lavorazione” a ciclo continuo, con una pianta disegnata sulla carta come un qualunque condominio), Höss viene promosso a viceispettore di tutti i campi di concentramento del Reich e deve trasferirsi a Oranienburg, vicino a Berlino. Si oppone inutilmente e nasconde la notizia a Hedwig per diversi giorni, perché lei è talmente affezionata alla casa che lo prega di convincere i suoi superiori a lasciar restare almeno lei e i bambini, richiesta che viene accolta. Dopo alcuni mesi di lavoro a Berlino, Höss viene incaricato di dirigere un’operazione definitiva a lui intitolata, che trasporterà 800.000 ebrei verso Auschwitz per essere eliminati. E così, il gerarca nazista può tornare a vivere con la famiglia nella sua perfetta casa preferita.
La zona d’interesse è giusto quella attorno al campo, un’area amministrata e controllata dalle SS, delimitata da un muro neanche tanto spesso, in cui si trovano i loro uffici e le case in cui vivono con mogli e figli, come una qualsiasi tranquilla cittadina in cui le giornate passano come se la guerra non esistesse. Non esiste perché non ci sono avvisaglie di battaglie, se non fosse per le divise dei nazisti e qualche rumore fastidioso di fondo che perdura per tutta la durata del film e a cui nessuno ci fa più caso: è come se si ascoltasse lo stormire del bosco vicino, o il canto degli uccelli, o il rumore del traffico. Tutto normale. Ed invece, mentre noi osserviamo il quieto comportamento della famiglia Höss, quel sottofondo ci trasmette solo e continuamente spari di fucili, grida strazianti di dolore, cani cha abbaiano, treni carichi di deportati che arrivano con il fumo della locomotiva al di là del muro. Oltre a questo rumore di fondo, ce n’è uno visivo: il rosso delle fiamme che brucia in continuazione, più dardeggiante di notte. Colorazione a cui non fa più caso nessuno, tranne la mamma della signora che arriva felicemente come ospite per qualche giorno ma che va via di corsa e segretamente di notte dopo essere stata attratta ed incuriosita dai bagliori ed essersi affacciata alla finestra della camera. Intuendo inorridita (è l’unico essere umano dell’intero film a restare impressionata dalle attività del luogo), ha voluto dileguarsi senza salutare neanche la figlia.
La zona d’interesse è un luogo ma anche un pezzo di umanità sorda e cieca che ha deciso di ignorare ciò che accade, di non guardare le ciminiere che emanano esalazioni umane, le cui ceneri si spargono ovunque: l’importante è che la servitù le lavi dagli stivali del comandante quando rientra in casa, pronti e puliti per il giorno dopo. I figli giocano con i figli dei vicini nel prato e nella piscina, mentre il gerarca, in completo bianco e sigaretta in bocca, si gode la vista dell’ariana e maschia gioventù. L’importante è scappar via dal fiume dove lui pesca e i figli si tuffano allorquando che si accorgono di essersi contaminati da quella polvere grigia. Le soddisfazioni sono altre: “Le vedi le dalie?” si vanta Hedwig con la madre, come anche le rose, i fagiolini, le verze, l’albero di mele, la serra che un detenuto le sistema per l’inverno. “Questi fiori sono bellissimi. Le azalee, abbiamo anche degli ortaggi, qualche erba aromatica, rosmarino, barbabietola. Questo è finocchio, girasole. E qui c’è il cavolo rapa. I bambini adorano il cavolo rapa!”. È la casa che hanno sempre desiderato, il resto non conta e lei è soddisfatta, felice. Tutti vivono tranquillamente la propria idilliaca quotidianità, arricchita anche dai saltuari arrivi di effetti personali requisiti ai detenuti: pellicce, gioielli, vestiti, persino rossetti. Provati con letizia e vanità, come fossero regali.
L’efficienza e la produttività del lavoro di Rudolf sono ormai riconosciute e gratificate nelle alte sfere militari e gli elogi si sprecano, con la sua estrema soddisfazione del lavoro che va avanti: la più massiccia operazione di deportazione, gli 800.000 ebrei, verso lo sterminio del programma viene affidata a lui in una riunione dei più alti ufficiali SS che pianificano l’operazione alla pari del gruppo dirigente di un’azienda internazionale, con treni, arrivi, sistemazioni, gas e cremazione in maniera industriale, senza interruzione come un altoforno d’acciaieria. Tutto con freddezza, precisione teutonica, come se non stessero parlando di esseri umani. Ma è inutile specificare questi particolari, perché quello che fa impressione non sono i tecnicismi attuativi dello sterminio di massa, bensì l’asetticità e la mancanza di orrore, il freddo calcolo e l’indifferenza di chi abita nei pressi dei campi, il ritenere tutto ciò normale. Questo è ciò che fa paura di questi personaggi, inquadrati a loro volta da una macchina da presa precisa e glaciale come loro, senza il senso del drammatico o del disgusto. Loro agiscono e noi guardiamo inerti, facendoci risultare questo quadro orrorifico come familiare, assodato, normale. Sicché l’Olocausto si manifesta così vicino eppure così lontano, con tanto di camera con vista sull’orrore. Parafrasando ancora un film, come un gruppo di famiglia in un interno che vive lontano dall’inferno. Osservare la morte senza vederla. Ciò è reso possibile anche dalle scelte di Jonathan Glazer, il quale non mostra una violenza che sia una, un cadavere, una goccia di sangue. Nulla. Come non accadessero. L’orrore è vago sullo sfondo visivo e sonoro.
Viene spontaneo ripensare alla semplice spietatezza del titolo di un libro molto tristemente famoso: La banalità del male. Ma sicuramente siamo anche oltre la banalità. Qui siamo all’assoluta indifferenza, alla suprema assenza emotiva. Per questo il regista sceglie un registro simile ai personaggi: ci mostra e basta, che forse è anche peggio che ostentare la violenza. Ogni regista che si è occupato della Shoah lo ha fatto o in modo consueto (e sono stati la maggior parte) o allontanandosi dal cliché, come accaduto ne Il figlio di Saul di László Nemes e in pochi altri, oppure come questo film che si muove – con i dovuti distinguo – come nel suo precedente (di 10 anni prima) Under the Skin, fantascientifico on the road di una aliena (Scarlett Johansson) per le strade attonite di Glasgow fotografata come Rudolf, umano tra gli umani che di umano non ha nulla. Medesimo direttore della fotografia, Łukasz Żal, che esalta alcune sequenze con i toni brillantissimi ed altri meno, e contrastando la visione quando si trasforma in una pellicola “al negativo” (mediante una camera termica) nella sequenza in cui una giovanissima inserviente degli Höß esce nottetempo dalla villetta e lascia delle mele nei campi dove vanno a lavorare i reclusi.
Ancora il montatore Paul Watts, come anche l’autrice delle magnifiche musiche Mica Levi, che, come in quel film, imprime nei brani il senso del mistero e del buio, anzi della notte dell’uomo, una musica che disegna i contorni della tragedia immane. Scenografia pulita, linda, ordinata, in casa come nel prato; costumi, oltre le divise altere, perfetti come si addice alla famiglia di un ufficiale del Terzo Reich. Tutti nomi eccellenti del cast tecnico che lavorano all’unisono con l’unico scopo non di stupirci ma di farci riflettere. Si inizia con lo schermo totalmente nero, mentre pian piano giungono le note della valente musicista e si finisce ancora con il nero, come il buio dell’umanità, dopo che, solo qualche attimo prima, l’occhio della macchina da presa passa dalla fiction per entrare nella Storia e nel Ricordo, nei corridoi del Museo di Auschwitz-Birkenau dove oggi sono conservati molti oggetti personali delle vittime: i vestiti, le scarpe e i famigerati pigiami a righe. Sempre mentre le note di Mica Levi martellano il tempo della sciagura.
Lui è Christian Friedel, l’indimenticato giovane maestro de Il nastro bianco di Haneke, perfettamente in linea con l’impassibile e arrivista personaggio. Potrebbe essere, in effetti, Rudolf il protagonista ma la formidabile Sandra Hüller, come le capita ogni volta, si impadronisce della scena con la sua Hedwig perché, se il marito organizza lo sterminio, lei ha tutte le colpe immaginabili di una persona che decide di ignorare, ha occhi solo per il giardino e l’orto, non vuole mollare la casa tanto ambita. Non so chi sia più colpevole tra i due o tutti gli altri, ma forse lo siamo tutti ogni volta che giriamo lo sguardo e ignoriamo le nefandezze che accadono. Jonathan Glazer - di cui apprezzo i due film precedenti, nonostante i tanti critici che flagellano Birth - Io sono Sean - firma un film, girato in tedesco, in cui cala il silenzio nei momenti dove gli altri fanno rumore, in cui inquadra la pulizia dove gli altri mostrano la sporcizia, in cui un testo ebraico non viene cantato ma solo sottotitolato mentre la ragazzina suona le frasi musicali al pianoforte. A che serve parlare se già sappiamo? A che serve girare scene di persone nude avviate verso le “docce” se già sappiamo?
Son convinto che Glazer non vuole spaventare, non aveva intenzione di produrre ancora un film come i tanti che conosciamo, lui lavora piuttosto ad un interrogativo mostruoso: ognuno di noi, può diventare un mostro, un carnefice? Ci troveremmo di nuovo a condurre una vita normale in presenza di una tragedia simile? Certo, con sei milioni di persone non accadrà più, ma qual è il limite minimo di morti per cui dobbiamo iniziare a reagire? Bastano quelli di Gaza in questi giorni in cui scrivo? O è sufficiente un numero esiguo?
Solo loro erano definibili (col significato di oggi) nazisti? Ma poi, a che serve la definizione del comportamento di una o più persone? Se, in concomitanza di altri genocidi, noi continueremo a fingere di non sapere e a fare la vita di sempre in famiglia e in gita come gli Höß, andare al fiume e in canoa come gli Höß, pescare come gli Höß, noi tutti siamo come gli Höß.
Allora vuol dire che dobbiamo stare in guardia di noi stessi.
Film agghiacciante, immagini di aberrante bellezza, inquadrature contrastanti tra spensieratezza mostrata e catastrofe invisibile, primi piani per celare lo sfondo. Vento che porta anime: via, via, sbarra le finestre, ritira il bucato. Altrimenti entrano in casa.
“Io non ho paura delle urla degli uomini malvagi, ma del silenzio degli onesti.” (Martin Luther King)
Joseph Wulf (storico ebreo tedesco-polacco, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz) scritto nel 1943 a Oswiecim, Auschwitz III:
Raggi di sole
splendenti e caldi.
Corpi umani
giovani e caldi.
E noi che siamo imprigionati qui,
i nostri cuori non sono ancora freddi.
Anime in fiamme
come il sole ardente.
Che squarciano e sfondano
attraverso il loro dolore.
Perché presto vedremo quella bandiera sventolare
la bandiera della libertà
che deve ancora arrivare.
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