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Land (2018)

Land

Italia/Francia/Olanda/Messico/Qatar 2018 dramma 1h51’

 

Regia: Babak Jalali

Sceneggiatura: Babak Jalali

Fotografia: Agnès Godard

Montaggio: Nico Leunen

Musiche: Jozef van Wissem

Scenografia: Dimitri Capuani

Costumi: Carolina Olcese

 

Rod Rondeaux: Raymond Denetclaw Yellow Eagle

Florence C.M. Klein: Sally

Wilma Pelly: Mary Denetclaw Yellow Eagle

James Coleman: Wesley Denetclaw Yellow Eagle

Georgina Lightning: Battie

Antonia Steinberg: Rosie

Griffin Burns: Eli

Andrew J Katers: Peter

Mark Mahoney: maggiore Robertson

 

TRAMA: Nella riserva indiana di Prairie Wolf vive la famiglia degli Yellow Eagle, i Denetclaw della tribù dei Lakota Sioux. La notizia della morte di Floyd, il figlio minore, avvenuta da soldato in Afghanistan, mette alla prova i rapporti tra i fratelli rimasti.

 

Voto 6,5



Chi non conosce le opere precedenti e successive di Babak Jalali deve prepararsi mentalmente al suo straordinario cinema lento e riflessivo, ma denso di significati e di umanità, di enorme predisposizione a comprendere la vita difficilissima che ogni minoranza di questo mondo deve sopportare per sopravvivere. Prova ne è che, iraniano nato in un paese alla frontiera col Turkmenistan, esordisce nel lungo con la sua prima opera, Frontier Blues, dove protagoniste sono le persone che vivono nel difficile confine fra Iran e Turkmenistan, appunto. E si ripete, si ripete in altri luoghi della Terra e con altri popoli limitati e circoscritti dal mondo occidentale o dalle maggioranze, diciamo, non silenziose ma invadenti. Ed ecco allora, come naturale percorso artistico ed esistenziale, questo film ed il successivo e bellissimo Fremont. Racconti di individui solitari, isolati (spesso ad opera di altri), incompresi, abbandonati nell’incuranza altrui. Persone taciturne che osservano la propria vita e quella di chi passa accanto e preferiscono dialogare il meno possibile vista l’inutilità di farlo.



Ora siamo negli USA ma in una zona dove non pare di essere in America se non per il paesaggio, e il regista chiama il film semplicemente Land, terra, quella brulla della riserva Prairie Wolf, dove vivono i nativi americani Denetclaw e dove il figlio maggiore Wesley si trascina nei pressi del confine per sbronzarsi di birra. Tutto il giorno, tutti i giorni. La famiglia protagonista è composta da pellerossa e vive nella riserva, dove viene raggiunta dalla notizia che Floyd, il suo più giovane componente, è morto durante il servizio militare in Afghanistan. In attesa del rientro del corpo, l’unico a non sembrare particolarmente colpito da quanto occorso è proprio il fratello Wesley, troppo intontito dall’alcol. La sua unica preoccupazione è quella di entrare in possesso di almeno due lattine di birra e, per tale ragione, è costantemente in contatto con la popolazione bianca che gestisce il negozio di liquori. Un’esplosione improvvisa di violenza spingerà Raymond, figlio maggiore di Wesley e a sua volta padre di due figli, a cercare di far qualcosa per riguadagnarsi quel rispetto da uomo che da troppo tempo ha perso.



Il film, lento e struggente, è diretto e sceneggiato da Babak Jalali, tra l’altro cresciuto a Londra, che del cinema della sua terra d’origine non conserva nulla di tipico, se non per il fondo di saggezza che evidentemente porta innato. Tant’è che questo soggetto è lontanissimo da ciò che ci si potrebbe attendere da un mediorientale. Quello che vuol mettere in evidenza è infatti come il popolo dei nativi, ridotto in macerie, si senta straniero nei luoghi della propria terra e come sia stato portato ad uno stadio vicino alla marginalità sociale. E lo strumento utilizzato per condurre a questa anomala forma di schiavitù è stato l’alcolismo. La riserva è un luogo simbolo della convivenza talvolta impossibile tra i nativi e i discendenti dei colonizzatori europei: morti precoci, suicidi, invalidità al lavoro e alla vita sin dalla più giovane età.



Il lavoro del regista non è lento per errore, anzi è volutamente molto lento ed è una storia dell’oggi con i problemi che affliggono la società moderna, con gli indiani di oggi, i quali lavorano nella fattoria dei bianchi che mantengono una difficile coesistenza fatta di scarso rispetto. Dall’atmosfera che si percepisce sin dalle prime inquadrature si intuisce che finirà malissimo, forse in tragedia. Tra il silenzio e la polvere tirata dal vento, i corpi abbandonati semisdraiati vicino al muro del locale di Sally, di uomini e di qualche donna – solo un’adolescente bianca in bicicletta si avvicina per chiacchierare, presto rimproverata -, sono lì a testimoniare come è degenerata l’esistenza e come il governo degli USA, nel corso di decenni e decenni, abbia preferito isolare i nativi senza l’uso della forza ma fornendo loro solo l’occasione sporadica del lavoro e tanto alcol, anche se vietato nella riserva. Per questo motivo la locanda è lì, al confine, vicino a quel cartello che indica il limite. Confine che non è disegnato, non è marcato fisicamente, ma da un semplice cartello che dice solo This is Indian Country, una nazione che fu, distrutta e seppellita dai soldati e dai coloni. Come un’antica Gaza.



Sabbia, vento, strade polverose, pickup che percorrono, spariscono e abbandonano la scena nel silenzio. Uno di questi è di Mary, l’anziana mamma che ogni mattina accompagna Wesley al bar lasciandogli qualche dollaro per le birre affinché non faccia sciocchezze per procurarsi malamente dei soldi. Meglio così che mollarlo all’avventura. Mentre l’unico con la testa a posto, e uscito dalla riabilitazione, è Raymond che va a lavorare nella fattoria. Nel frattempo, gira la voce che i bianchi, non visti, aggrediscono i rossi per ucciderli e farne, con la pelle, dei burattini: solo fantasie di chi è ubriaco da mane a sera. Ma intanto. Lo Stato li tiene così, lontano dagli occhi e dal cuore (non succede così anche nel bel I segreti di Wind River di Taylor Sheridan, dove i primi sospettati sono i nativi?) e usa contro di loro ancora violenza quando l’esercito deve stabilire l’indennità per la morte del soldato ucciso in Afghanistan: 100.000 dollari se caduto in azione, circa un quarto se se l’è andata a cercare. Facile immaginare cosa stabilisce la commissione preposta. Un ulteriore sfregio. Il laconico Raymond non fa una piega ma non accetta i funerali di stato previsto per i militati caduti in guerra e rifiuta la bandiera a stelle e strisce. Drappo celebrato nei film americani, piegato a triangolo e consegnato solennemente ai familiari. Qui no, viene invece deposto ai piedi del maggiore Robertson indispettito.



Babak Jalal è un autore che ho scoperto tardi e mi dispiace, ma ci vuole pazienza, e non poca: il suo cinema lento può essere rifiutato ma quando lo si intercetta e lo si assimila si resta incantati e se ne capiscono gli alti intenti. Questo film, per esempio, l’ho terminato scettico ma mi è rimasto dentro, a lungo, come un vino d’annata che lascia un eccellente retrogusto, lungo e gradevole, seppure a proposito di un film triste, sull’ennesima prepotenza dell’uomo bianco. Il funerale finale è l’unico momento magico del mondo tribale, con il canto funereo che veniva eventualmente inserito nei film di propaganda americana con i pellerossa cattivi. Però c’è un barlume di speranza: forse, quei pochi soldi dell’indennizzo, almeno basteranno per disintossicare Wesley?



Un film ma quasi un documentario, con attori poco professionisti o completamente dilettanti, che rendono ancora più realista la storia e la visione. In cui ci sono due trincee: da una parte i coloni che hanno vinto la guerra, dall’altra gli indians che hanno incorporato la sconfitta, il declino e l’eliminazione. Una tragedia umana raccontata con lunghe inquadrature fisse dove la macchina da presa non segue i personaggi che invece entrano ed escono dal campo visivo, al massimo la seguono, perché quello è l’occhio del regista, ed anche il nostro. Dove della violenza si sente solo parlare e se ne vede pochissima, anche se esiste. La produzione parla di tante nazioni, anche di Italia, perché è sviluppata tramite il TorinoFilmLab e co-prodotta da Rai Cinema.

Babaki Jalali è un piccolo grande autore.



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