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Let Go (2024)

Let Go

(Släpp taget) Svezia 2024 dramma 1h50’

 

Regia: Josephine Bornebusch

Sceneggiatura: Josephine Bornebusch

Fotografia: Ragna Jorming

Montaggio: Sarah Patient Nicastro

Musiche: Uno Helmersson

Scenografia: Cian Bornebusch

Costumi: Clara Ahlström

 

Josephine Bornebusch: Stella

Pål Sverre Hagen: Gustav

Sigrid Johnson: Anna

Olle Tikkakoski Lundström: Manne

Leon Mentori: Gabriel

Tone Danielsen: Astrid

Niklas Falk: Arild

Lola Zackow: Angela

Irma Jämhammar: Liz

Mathias Lithner: Frank

Lotten Roos: Lakae

Louise Sondlo Zapata: Lulu

 

TRAMA: Stella si destreggia tra le richieste del piccolo figlio, della lunatica figlia adolescente e del marito lontano. Ne consegue il caos fino a quando un messaggio suggerisce un viaggio di famiglia per superare delle difficoltà e riunirli.

 

Voto 7



Da Una moglie di John Cassavetes prendi Gena Rowlands e scaraventala in Svezia e ti ritrovi Stella, non trasandata come l’originale americana ma sfinita alla medesima maniera. È sposata con Gustav, marito sempre impegnato con la professione di psicologo ma soprattutto fedifrago per via di una relazione con una collega; è madre di Anna, che, nella delicata età di adolescente ribelle, è scostante e nervosa, in una parola intrattabile; è madre anche di Manne, un diavoletto di bimbo che si nasconde dietro la maschera di wrestler, ha sempre bisogno di un contatto con la madre e va sorvegliato continuamente. È ancora una bella donna ma i tre familiari la stanno stressando e conducendo verso il più totale sfinimento, soprattutto a causa del fatto che non sa dire mai di no, a nessuno: corri di qui, corri di là, discuti inutilmente con Anna, Manne è sparito e deve rincorrerlo, ovunque vada a mangiare deve stare attenta che non gli propinino cibo sbagliato, in quanto affetto da celiachia. Il marito? Assente anche quando c’è, distratto nei suoi pensieri e per le “distrazioni” ed è il tipo di uomo che non sposta neanche una sedia.



Stella (Josephine Bornebusch) deve provvedere a tutto, lavorando per due genitori, e, come ci si aspetta in queste situazioni, non riceve il minimo di attenzioni dall’uomo. È ancora una bella donna, perfino attraente se si volesse più bene, ma non è che sia spettinata, solo che i capelli non sono mai in ordine, zero trucco, vestita sempre alla stessa maniera. Non ha tempo per badare a se stessa, sono troppe le preoccupazioni che le danno gli altri tre e ha un grave difetto: si sente responsabile di ogni cosa che accade o che può accadere in casa e ai suoi e quindi è in totale tensione continua per controllare tutto. È sul punto di esaurimento come una pila quasi scarica ma non cede, anzi ricarica la molla di continuo pur non sapendo da dove ricavare le energie necessarie.



Ci manca solo una brutta notizia sulle sue condizioni di salute che purtroppo arriva puntualmente, preferendo – eccola ancora all’opera come sua abitudine – non dire nulla a nessuno per non farli preoccupare, come se fosse incaricata dal destino a sopportare tutto da sola. I diverbi coniugali non mancano e durante l’ennesima cena fallita, in cui la ragazza sbatte la sedia a terra per reazione, il bimbo la imita per gioco, Gustav (Pål Sverre Hagen) si alza dalla tavola noncurante, il nodo viene al pettine e la conclusione è inevitabile. Lui le riferisce che è stanco della situazione (!) e preferisce divorziare. La risposta negativa della donna inasprisce la discussione che diventa litigio, chiudendo definitivamente le pur minime possibilità di dialogo e coesistenza.



Lei vuol recuperare l’affetto e la stima di Anna perché non sopporta lo stato delle cose ed anche perché così è ancora più isolata in famiglia. A parte il fatto che le vuol bene come è normale che sia. Il loro ultimo litigio è dovuto alla gara a cui la giovane vuol partecipare a tutti i costi, un concorso di pole dance che si svolge in un’altra città a cui Stella non è intenzionata di darle il consenso. Invece la donna capisce che quel sì può diventate un’occasione, quella di riavvicinare tutti, quella di riunire la famiglia in auto e in viaggio, in albergo e nel locale della gara: può diventare l’opportunità giusta per riconciliarsi. Ora è deciso: si parte tutti assieme, felici, fintamente, come una volta.



La trasferta sarà faticosa sotto tanti aspetti. Una notte difficile presso la nonna, il freddo, la valigia con l’abbigliamento della gara dimenticata a casa, le telefonate segrete tra Gustav e l’amante, la scoperta della tresca da parte di Stella, le conseguenti aspre discussioni. L’orlo del precipizio familiare. Dopo una notte di bagordi la sera precedente alla gara, la rivelazione inevitabile della malattia, il peggioramento, il marito che riflette e ammette gli errori del comportamento finora assunto. Ma le cose non potranno mai andare a posto del tutto, non bastano le compresse di morfina, non è sufficiente l’armonia e gli affetti ritrovati, il male avanza. Riuscirà comunque la paziente madre e moglie nel suo intento di ristabilire la quiete familiare? Ritroverà l’amore del marito e l’affetto dei figli? E soprattutto, centrerà l’obiettivo principale del suo affannarsi, che consiste in buona sostanza nel lasciare la famiglia in buone mani: in poche parole, sarà in grado Gustav di badare ai figli in sua assenza come non ha mai fatto prima? Perché è questa la sua principale preoccupazione e non si lascerà vincere dal male fin quando non sarà certa che tutto sarà sotto controllo e i figli cresceranno bene e protetti. Per lei non conta altro.



Un normale tragico racconto di famiglie pronte a spezzarsi, una comune storia di tradimenti coniugali e di contrasti tra genitori e figli, di incomprensioni generazionali. Tutto rientra nella normalità quotidiana e quindi potrebbe sembrare un film qualunque, magari scritto bene e senza la scontata melodrammaticità inesorabile di queste narrazioni. Invece il film conquista, pur nella sua semplice complessità ed il merito ha un solo nome: Josephine Bornebusch, nome da noi sconosciuto di una svedese di Stoccolma nota in patria per numerose partecipazioni a film e regista di tante serie TV. È l’assoluta protagonista per aver interpretato e diretto con garbo e delicatezza il film e scritta una buonissima sceneggiatura fatta di dialoghi preziosi, di giusti toni, di parole adeguate, senza mai scendere al livello del compiacimento della commozione. Un’artista che ha sacrificato la bellezza naturale di cui è dotata per compromettersi con la sporcizia di un personaggio sacrificato alla famiglia e all’amore perduto per strada, come succede spesso con le donne che soffocano la vita personale per dedicarsi ai figli e spariscono agli occhi dei mariti, sordi e ciechi. La Bornebusch lavora di frasi giuste e di espressività, con labbra e occhi che parlano davanti agli altri e al pubblico quando si ritrova abbattuta nella solitudine.



È stata lei che mi ha svegliato nel torpore della visione in un film piccolo e giusto, rivelando la bravura di un’attrice che merita di più, che sa stabilire l’empatia con il pubblico nella sua battaglia, anche capace di saper scrivere ed immaginare un progetto che si rivela meno piccolo del previsto. Il cui titolo ci anticipa il suo sforzo di lasciarsi andare solo quando ha messo a posto le cose e può partire soddisfatta. Al contrario dello spettatore che non si lascia andare perché resta afferrato nel cuore dal ritratto forte e onesto di una famiglia in crisi che rischiava di andare a rotoli. Genitorialità, amore, comunicazione e dolore: è un film che fa sorridere in alcuni momenti simpatici ed emozionare in altri, costringendo a riflettere sulle relazioni, senza paura di mostrare i lati più oscuri della vita, ma che allo stesso tempo apre a scorci di speranza.



Complimenti a Josephine Bornebusch, che evidentemente ha qualcosa da dire e da dare al cinema. Spero che lo dimostri ancora e presto.



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