top of page

Titolo grande

Avenir Light una delle font preferite dai designer. Facile da leggere, viene utilizzata per titoli e paragrafi.

Cerca
Immagine del redattoremichemar

Lubo (2023)


Lubo

Italia/Svizzera 2023 dramma 2h55’

 

Regia: Giorgio Diritti

Soggetto: Mario Cavatore (Il seminatore)

Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla

Fotografia: Benjamin Maier

Montaggio: Paolo Cottignola

Musiche: Marco Biscarini

Scenografia: Giancarlo Basili

Costumi: Ursula Patzak

 

Franz Rogowski: Lubo Moser

Christophe Sermet: commissario Motti

Valentina Bellè: Margherita

Noémi Besedes: Elsa

Cecilia Steiner: Klara

Joel Basman: Bruno Reiter

Filippo Giulini: Antonio

 

TRAMA: Lubo è di etnia jenisch - la terza più grande comunità nomade europea dopo Rom e Sinti - che perde la sua famiglia per colpa della Kinder der Landstrasse, organizzazione retta sui principi dell’eugenetica dilaganti nell’Europa degli anni ‘30. La sua vendetta avrà risvolti inaspettati.

 

Voto 6



Nella sua scarna filmografia - questo è solo il suo quinto lungometraggio - Giorgio Diritti si è interessato soprattutto di storie di figure ben distinte dalla massa omogenea, dal popolo anonimo, pur essendo sempre persone semplici e invisibili. Persone comuni a cui il destino, per nascita o ambiente, ha riservato una vita difficile, osteggiata dal comune pensare, dal razzismo, della paura del diverso o dell’estraneo. Così era successo in Il vento fa il suo giro (2005), ad alcuni personaggi di L’uomo che verrà (2009), alla protagonista di Un giorno devi andare (2013), al più pregiato dei film, Volevo nascondermi (2020), il cui Ligabue ne è l’esempio più limpido. In questo caso, il protagonista è Lubo (Franz Rogowski), un artista di strada, uno zingaro di etnia jenisch che vaga per villaggi svizzeri con la sua famiglia e qualche parente, guadagnando il sufficiente per sopravvivere con piccoli innocenti e miseri spettacolini. Nel suo girovagare la famiglia viene fermata dai poliziotti che lo obbligano ad arruolarsi nell’esercito che lo stato elvetico sta allestendo impaurito dalla irrefrenabile intraprendenza di Hitler, che ormai minaccia gli stati confinanti. La famiglia resta abbandonata, quindi, dall’unico che poteva mantenerla e subisce le politiche di pulizia etnica ormai in atto in quegli anni.



Il momento storico e politico di quel Paese è caratterizzato dalla volontà del governo di eliminare i nomadi dalle strade, sottraendo loro i bambini da “rieducare” in istituti predisposti allo scopo. Per capire meglio è necessario sapere che il popolo Jenisch rappresenta la terza maggiore popolazione nomade europea, dopo i Rom ed i Sintie presenti soprattutto nel cuore dell’Europa. La Svizzera si comportava con loro come mostra appunto la prima parte del film. È l’inverno del 1939 quando Lubo viene velocemente coscritto nell’esercito nazionale per proteggere i confini da un’eventuale invasione tedesca e mentre presta servizio con molta malavoglia, contrariato specialmente perché è una persona fuori posto, viene a sapere che in sua assenza la polizia ha preso i suoi tre figli e la sua amata moglie è morta nel tentativo di impedirlo. Viene a sapere anche che bambini sono stati affidati dalla fondazione Pro Juventute a orfanotrofi e famiglie adottive svizzere come parte del programma Kinder der Landstrasse, che mira appunto a sradicare cultura e tradizioni di quella etnia su ispirazione dei princìpi dell’eugenetica. Insomma, è in pratica una vera e propria pulizia etnica, razzista quasi quanto quella iniziata nella Germania nazista, sebbene solo mirata agli zingari.



La terribile ed infame vicenda vide la Pro Juventute nascere nel 1912 sotto l’egida della Società svizzera di utilità pubblica e creata per sostenere i diritti e le esigenze dei bambini e dei giovani svizzeri, e di combattere la tubercolosi. Ovviamente era solo un pretesto di facciata e di giustificazione insostenibile. Come è facilmente reperibile in rete, si può sapere che dal 1926 fino al 1973 questa organizzazione attuò una politica di allontanamento forzato di bambini appartenenti al gruppo jenish in Svizzera con lo scopo (come veniva descritto dalla fondazione stessa) di “trasformare i bambini di famiglie nomadi in persone sedentarie e laboriose” (!). Il programma venne interrotto solo nel 1973, grazie alla pressione dei media e la conseguente attivazione dell’opinione pubblica. Per giunta non è mai stata chiusa dopo lo scandalo e il sito dell’ente, per un certo periodo, dichiarava che la fondazione “può contare su una storia di successo centennale. Una storia anche movimentata, ma ricca d'insegnamenti”: una vergogna. Come raccontare queste brutte vicende con una storia esemplare?



Ci pensa appunto Giorgio Diritti, mettendo al centro del film il personaggio di Lubo, un uomo che all’inizio sembra una persona quieta e molto legata alla famiglia, che però, per via delle vicissitudini, diventa cattiva, diventa un’altra persona, spinta da una voglia implacabile di vendetta, ma soprattutto dalla necessità di rintracciare i suoi tre figli ovunque siano andati a finire. In un collegio, in una famiglia adottiva, in qual che casolare di campagna. Per fare ciò inizia prima di tutto dalla diserzione, poi, cogliendo l’occasione di un lavoro di passeur per una notte, uccidendo il suo sconosciuto interlocutore in maniera feroce, sbalordendo lo spettatore che fino a quel momento lo aveva giudicato mite e timoroso. La missione da compiere era di portare in salvo nelle banche svizzere i gioielli, gli ori e il cospicuo contante delle famiglie ebree che scappavano dai nazisti. Quella enorme somma di danaro e i proventi della vendita dei gioielli, oltre al furto dei documenti e dell’auto di quell’uomo, avrebbero dato possibilità finanziarie e identità per cercare i figli, facendosi passare per un facoltoso commerciante austriaco. Lubo era diventato Bruno Reiter!



La costanza, l’estrema forza di volontà, l’abilità di sapersi presentare con la nuova identità nella migliore borghesia delle città svizzere e del nord Italia, portano l’uomo in contatto con le organizzazioni che si occupavano dell’operazione etnica e con le persone importanti vicine a questa. Ciò che lo spinge è un dolore sordo, è la smania assoluta di arrivare a riabbracciare i suoi piccoli e non esita, altro lato per lenire il male che prova, a sedurre le donne che vengono da lui attratte. Tutto serve per raggiungere lo scopo che si è prefissato, non avendo neanche il tempo per riflettere sugli ostacoli che ha superato con ferocia e calcolo. Frequenta persone altolocate, fa innamorare e seduce donne vedove e sposate pur di vincere la sua personale guerra con la Pro Juventute, a cui inevitabilmente giungerà sebbene non tutto gli andrà per il suo verso e a Bellinzona, dove sta trovando finalmente un po’ di pace creando una nuova famiglia, la sua vita avventurosa e variegata si incrocerà con il commissario di polizia svizzera Motti (Christophe Sermet), persona pervicace ma comprensiva.



Se la corsa di Lubo per arrivare ai figli non è vera ma molto verosimile, se perlomeno è un esempio che rappresenta una brutta pagina della Storia, gli intenti di Giorgio Diritti raggiungono l’obiettivo e questo argomento, che sicuramente è poco ricordato e discusso, è ritornato a galla, pur sempre in tono minimo, dato che il film, presentato a Venezia 2023, non ha riscosso molti consensi e ha anche girato pochissimo nelle sale italiane e inevitabilmente è passato alquanto inosservato. La vita funambolica di questo personaggio di fantasia riesce comunque a dare risalto ad una nuova vita in maschera, perfino anche nell’amore, vissuta sempre con un altro fine: placare il dolore primario, trovare la verità su bimbi di strada che il governo impone di rieducare sottraendoli alle famiglie. Il soggetto tratto liberamente dal romanzo di Mario Cavatore punta l’obiettivo su Lubo ma mette a fuoco l’eterno problema del razzismo e della razza pura, un concetto odioso e obbrobrioso che nella storia dell’umanità si riaffaccia ciclicamente. In alcuni Paesi è sempre presente ma nel resto del mondo va a cicli e quando, come in questi anni, guerre e carestie, spingono popoli a spostarsi tra nazioni e addirittura tra continenti ecco riaccendersi la fiamma dell’odio verso il diverso, l’estraneo, “l’invasore”. Questo film denuncia sì un orrore storico ma come negare che parli al presente?



Il progetto cinematografico è apprezzabilissimo, meno il risultato, perché la lunghezza impegnativa del film, sempre tenuto ad un livello di rigore che stanca la visione, induce ad una compartecipazione che purtroppo trova un limite e se le avventure del protagonista sono tante, va detto che sono anche se non ripetitive perlomeno monocordi, degne per davvero di una serie, data appunto la lunghezza. Sembra un romanzo ottocentesco mitteleuropeo, dalla bella fotografia dai colori intensi, dai notturni bui come i tempi che il continente stava per affrontare, con personaggi (tanti) che si danno il cambio, che vanno e non vengono più, con il Lubo costantemente sullo schermo, tenuto in tensione da un granitico Franz Rogowski, le cui peculiarità fisiche e di recitazione colorano fortemente il personaggio.



Attore con un passato di ballerino e giocoliere, un adatto rappresentante del mondo circense e dell’arte di strada, egli è l’attore adatto come forse nessun’altro e quella atipica ed apparente inespressività (e con quella anomala pronuncia dovuta al suo labbro simil Joaquin Phoenix) va a coniugarsi alla perfezione con il personaggio tenace e chiuso in se stesso con il suo segreto, persino con la paziente donna con cui voleva chiudere la vita, la Margherita di Valentina Bellè, a cui stava affidando il suo futuro e il suo sincero amore. Ma sempre chiuso come una cassaforte. Lui bravissimo, lei indecifrabile, ma questo è un mio problema, non essendo mai riuscito a capire la personalità della Bellè, e rimando sempre un mio sincero giudizio. Piuttosto è molto pregevole la prova dello svizzero Christophe Sermet, pacato e sicuro nella sua esibizione.



Cosa resta del film alla fine non è molto consistente, forse manca la grinta della regia, una necessaria incisività. La dolcezza e la mano leggera che abbiamo apprezzato in altre occasioni da parte di Diritti qui non è bastata perché evidentemente necessitava più cattiveria e più forza. Ma nel mio piccolo, al contrario di tanti critici di professione, trovo che la sufficienza non è negabile, almeno per il motivo che la messa in scena è dignitosa. Non spettacolare ma degna di essere giudicata positivamente.

Film in ogni caso interessante. Nel frattempo, si impara un altro momento negativo della Storia.



Riconoscimenti

2024 – David di Donatello

Candidatura miglior sceneggiatura non originale



12 visualizzazioni0 commenti

Post correlati

Mostra tutti

Land (2018)

Comments


Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

bottom of page