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Maestro (2023)


Maestro

USA 2023 biografico 2h9’


Regia: Bradley Cooper

Sceneggiatura: Bradley Cooper, Josh Singer

Fotografia: Matthew Libatique

Montaggio: Michelle Tesoro

Musiche: Leonard Bernstein

Scenografia: Kevin Thompson

Costumi: Mark Bridges


Bradley Cooper: Leonard Bernstein

Carey Mulligan: Felicia Montealegre

Matt Bomer: David Oppenheim

Maya Hawke: Jamie Bernstein

Sarah Silverman: Shirley Bernstein

Michael Urie: Jerome Robbins

Gideon Glick: Tommy Cothran

Sam Nivola: Alexander Bernstein

Miriam Shor: Cynthia O'Neal

Alexa Swinton: Nina Bernstein


TRAMA: La vita sentimentale e personale del compositore Leonard Bernstein e della moglie Felicia Montealegre: l’incontro a una festa nel 1946, un doppio fidanzamento e un matrimonio durato 25 anni, tre figli, le numerose relazioni omosessuali di cui lei era perfettamente a conoscenza.


Voto 6,5

La narrazione della lunga storia della vita del celeberrimo direttore e compositore Leonard Bernstein (Bradley Cooper) avviene con una sorta di intervista anche se non ha le caratteristiche dei film raccontati in prima persona: è seduto all’amato pianoforte suonando appassionatamente e concentrato, mentre la cinepresa lo riprende e l’intervistatore attende le ultime note. La didascalia introduttiva sembra più una chiave di chiusura di un lungo discorso e quindi di una summa della filosofia artistica del grande maestro: “Un’opera d’arte non risponde alle domande, le suscita; e il suo significato fondamentale sta fra la tensione delle risposte contraddittorie.” E indica anche, e prepotentemente, il volitivo carattere della persona, dotata di enorme talento e di immensi difetti. La storia parte da lontano, quando il protagonista cerca di emergere come direttore d’orchestra, sicuro delle sue doti, basate su una vasta sensibilità musicale. È ormai anziano e apparentemente stanco, capelli bianchi, rughe. Rivolgendosi al giornalista dice: “È sempre meglio al piano, non so perché”, rivelando subito quanto peso abbia nella sua vita la musica e lo strumento su cui ha sempre composto. Ed inizia a parlare accendendo una delle mille sigarette che vedremo tra le dita e le labbra in ogni singola scena, senza alcuna eccezione.

L’inizio dà l’impressione di essere una deliziosa e leggiadra commedia sofisticata degli anni Quaranta, accentuata dal bianco e nero racchiusi in uno schermo con rapporto 1,33:1 (come si usava in passato), mantenuto anche con la fotografia a colori, per passare solo nei pochissimi minuti finali al moderno 1,85:1, quando la povera Felicia, voltata di spalle, si allontana dalla vita. Nelle prime sequenze si scopre il debutto di Bernstein: siamo nel 1943, anno in cui si trova fortunosamente, quindi solo venticinquenne, a dover sostituire l’affermato direttore Bruno Walter per un importante concerto alla prestigiosissima Carnagie Hall di New York. Il successo è immediato ed altri ne seguiranno. Molto presto, l’artista conosce, in un party newyorkese, una bella attrice di origini costaricane Felicia Cohn Montealegre (Carey Mulligan), ebrea come lui, e con questa donna - nonostante abbia una relazione con un noto clarinettista orchestrale, David Oppenheim (Matt Bomer), uomo che aveva lasciato a letto all’improvvisa chiamata del teatro – inizia un rapporto forte, evidentemente attratto dalla sua vivacità e intelligenza, un carattere volitivo che lo fronteggia senza timore, pur consapevole degli affair extraconiugali (“Volevo dimostrare di poterlo sostenere, di essere forte così”). È un amore che scoppia con vigore, sincero ma, purtroppo, come tutti i rapporti che l’artista avrà nella sua vita, sempre preda dell’attrazione che subisce dalle persone che lo interessano. Di continuo. I due si sposano il 10 settembre del 1951. La coppia avrà due figlie e un figlio: Jamie, Alexander e Nina. Il musicista, parallelamente, non limiterà le sue passioni omosessuali e di conseguenza coltiverà altre relazioni con uomini, prevalentemente musicisti e allievi di direzione. Fino al punto che nel 1976, lascia la moglie e decide di andare a convivere con il direttore d'orchestra Tom Cothran. Quando però a Felicia viene diagnosticato un cancro al seno in fase avanzata che oramai ha intaccato anche un polmone, Leonard tornerà dalla legittima consorte fino al suo decesso, avvenuto il 16 giugno 1978.

Il film, seconda regia di Bradley Cooper, artista che punta sempre in alto e ai premi, persegue il compito di illustrare la vita privata tumultuosa e la luminosa carriera musicale, sia da scrivere che da dirigere. La prima è fatta di alti e bassi con la donna che nonostante tutto lo sostiene e gli dà una famiglia come punto di riferimento, che lui lascia e riprende più volte, ma a cui resta sempre molto legato, specialmente alla figlia maggiore Jamie (Maya Hawke) che rincorrerà per mitigare la rabbia di questa dovuta alle notizie della irrequieta vita sessuale del padre. La seconda è corollata da grandi successi nei teatri più importanti di tutto il mondo. Tanto che l’intero film è un omaggio ai brani celeberrimi che Bernstein ha scritto, con continui richiami alle belle sinfonie e solo qualche accenno – stranamente – alle musiche che aveva scritto per l’indimenticabile ed imitato West Side Story. Ovviamente il lato più difficile da sostenere sul set è stato per Cooper la gestualità di un direttore d’orchestra, che, come è intuibile, non è alla portata di tutti, né si può imparare dall’oggi al domani (una prova è l’incredibile interpretazione di Cate Blanchett in Tár). L’attore ha studiato con evidente impegno con due direttori d’orchestra, Gustavo Dudamel della Los Angeles Philharmonic e Yannick Nézet-Séguin del Metropolitan Opera e nel contempo a fatto tutto il possibile per rassomigliare – anche fisicamente, tanto da suscitare polemiche per il naso posticcio troppo “ebreo” a detta di alcuni critici – al mitico personaggio nei momenti topici delle esibizioni nelle prove e sul podio dei teatri. Emozionante e trascinante, e lunga, la sequenza dell’esecuzione della meravigliosa Sinfonia n. 2 di Mahler.

La stesura della sceneggiatura è molto curata anche per il notevole contributo di Josh Singer, autore (tra i tanti a cui ha messo la firma) di film ben più complessi come Il caso Spotlight, e The Post: difatti, anche questa è un’opera impegnativa sia dal punto di vista narrativo, come tutti i biopic, che di quello dei dialoghi, intensi e continui. Salta anche agli occhi quanto sia comunque un’operazione studiata con molta attenzione e con un occhio rivolto al pubblico e alla critica: le candidature e i premi sono benzina vitale per un cineasta come Cooper, che ormai da semplice attore di film di grande successo passa volentieri alla guida della regia. In questo suo secondo passo d’autore si ripete nell’esibire al suo fianco un’attrice di spicco con cui dividere lo schermo anche se è l’interprete principale. Qui Carey Mulligan, nelle vesti della moglie, non è che semplicemente si dimostra adeguata e ideale partner ma fornisce una prova talmente di classe che non poche volte lo spettatore comincia a dubitare chi sia veramente il personaggio principale.


E non solo perché la sua Felicia abbia un peso determinante nella vita di Bernstein, ma proprio perché la magnifica attrice è una interprete eccelsa che ha aumentato la forza recitativa di film in film, sin da quando era giovanissima nella pellicola, da me adorata, Non lasciarmi di Mark Romanek, ed in questa occasione usa come una potente arma psicologica il suo sorriso ora morbidamente felice, ora rigidamente di rimprovero. Trasmettendo come un segnale silenzioso ma trafiggente chiari messaggi indirizzati a quell’uomo trascinato dalle passioni. Sempre verso uomini, restando lei l’unica donna che lo aveva magicamente incantato. Un uomo sicuramente rovinato dall’egoismo, che spesso lo spingeva a dimenticare gli obblighi dei legami familiari per soddisfare continuamente il fascino che subiva alla vista di una nuova conquista. Come succede sempre - confidando di poter contare su un punto fermo della sua vita, cioè la moglie - quando questa si scoprì seriamente ammalata, egli avvertì di come non potesse fare a meno di lei e cercò in ogni modo di alleviarle i dolorosi ultimi mesi.

Evidente come Bradley Cooper cerchi in ogni maniera di trasmetterci i palpiti caratteriali dell’esimio personaggio, la vivacità sessuale, l’incostanza affettiva contrapposta alla coerenza artistica e alla tenacità interpretativa di Maestro d’orchestra. Ma tutto ciò poi risulta congelato in una confezione troppo convenzionale, un compitino svolto con diligenza che non raggiunge i picchi attesi come invece succede nelle immortali note dei più grandi musicisti che ascoltiamo lungo tutto il film, come un ricco collage di armonie tra le più famose della enciclopedia sinfonica e operistica. Fino a giungere - oltre alle musiche del citato West Side Story e Fronte del porto - all’opera più impegnativa che scrisse, la Messa scritta appositamente per l’apertura del John F. Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, nel settembre 1971, che forse rappresenta il punto più alto del suo personale pentagramma.

In un primo momento il film avrebbe dovuto essere diretto da Steven Spielberg, ma in seguito alla rinuncia da parte del regista, Bradley si è subito candidato per firmare la pellicola e l’altro è rimasto nelle vesti di produttore insieme a Martin Scorsese ed altri. Quindi seconda volta sulla sedia di regista ed entrambe le volte su soggetti molto attinenti alla musica e in tutti e due i casi ha spartito lo schermo con primedonne di classe (Lady Gaga e qui l’inestimabile Carey Mulligan) restando in ambedue i casi surclassato dalla loro bravura. Gli resta, ovvio, il merito di essersi impegnato a fondo, di prendersi il peso di un compito non facile (i biopic sono sempre una trappola), di entrare in buonissima mimesi con l’ingombrante personaggio, di porsi come eccellente attore come è ormai capace. Bravo anche a dare la perfetta illusione di suonare lui stesso l’amatissimo pianoforte del Maestro, sapendo imitarlo sulla tastiera mentre vanno in onda le vere note della pianista Victoria Ruggiero. Come anche nell’impostazione di un tono molto particolare della voce, alquanto nasale, per poterlo imitare anche nel parlare: ah, che danni fa il doppiaggio, anche in questo aspetto! (date uno sguardo al trailer posto alla fine dell’articolo)

Buon film, nel complesso, che si fa voler bene, che, per adesso (poi si vedrà) ha qualche candidatura ai Golden Globe e staremo a vedere per gli Oscar.

Riconoscimenti (per ora)

2024 - Golden Globe

Candidatura per il miglior film drammatico

Candidatura miglior attore in un film drammatico a Bradley Cooper

Candidatura miglior attrice in un film drammatico a Carey Mulligan

Candidatura miglior regista


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