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Miss Violence (2013)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 8 ott 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 21 dic 2023


Miss Violence

Grecia 2013 dramma 1h38’

Regia: Alexandros Avranas

Sceneggiatura: Alexandros Avranas

Fotografia: Olympia Mytilinaiou

Montaggio: Nikos Helidonidis

Musiche: Nikos Moutselos

Scenografia: Eva Manidaki

Costumi: Despina Chimona

Themis Panou: padre

Rena Pittaki: madre

Eleni Roussinou: Eleni

Sissy Toumasi: Myrto

Kalliopi Zontanou: Alkmini

Constantinos Athanasiades: Philippos

Chloe Bolota: Angeliki

TRAMA: Il giorno del suo undicesimo compleanno, Angeliki salta dal balcone della sua abitazione. Mentre la polizia e i servizi sociali cercano di capire le ragioni di quello che appare come un suicidio, la sua famiglia continua a ripetere che si è trattato di un incidente. Quale oscuro segreto ha portato con sé nella tomba? Perché i familiari si ostinano a cercare di dimenticarla e ad andare avanti con le loro vite?


Voto 7,5


“Dormi, Eleni, dormi.”

L’esortazione che la madre rivolge alla figlia che riposa sul divano è un po’ la sintesi brevissima di questo sconcertante e orrorifico racconto della vita ormai consolidata di una solo apparente famiglia normale, dove tutti i particolari mostrati paiono normali(zzati). Se Alexandros Avranas vuole immediatamente spalancare la nostra attenzione lo fa subito, all’inizio del film, così da togliere ogni dubbio sulla natura dell’opera. Infatti, dopo solo qualche istante, durante la festa in famiglia per gli 11 anni di una delle ragazzine di casa, Angeliki, questa, proprio mentre gli altri si dividono le fette di torta, scavalca il parapetto del balcone e si lancia giù, sfracellandosi al suolo. Perché questa sciagurata scelta consapevole? Cosa succede fra quelle mura e in quella famiglia che sembra così ordinariamente normale? Il gioco perverso e riuscitissimo del regista è quello che, nel contempo di quella falsa ordinarietà, lascia qui e là piccoli segnali di inquietudine, di mistero, di angosciante. Perlomeno ci fa porre tante domande a cui Avranas non ci dà risposte immediate ma ci conduce lentamente, sequenza dopo sequenza, a dedurre con sgomento la cruda realtà, come una scoperta compassata e progressiva, parimenti allo stupore e al ribrezzo di ciò che si rivela. E la Miss del titolo non inganni, non precede un nome ma una situazione.


Gli attori che agiscono nella casa ora sono sei familiari: il papà, sempre in giacca e cravatta come un compìto signore di mezza età irreprensibile, che tiene il gruppo in pugno, con ordini perentori a cui nessuno ardisce disobbedire, come persone senza sentimenti e reazioni, alcune delle quali sotto farmaci psicotici; la mamma, spesso intontita e appena sorridente senza sorriso, che assiste assente senza apparenti contraccolpi a ciò che avviene, o forse semplicemente rinvia per debolezza ogni decisione; Eleni, la figlia maggiore, ha due figli di cui non si sa chi sia il padre e che annuncia candidamente di essere ancora una volta incinta; i due bimbi in età scolare sono controllati a comandi secchi dal nonno, che fa le veci di un padre fantasma, controlla che facciano i compiti e li accompagna e ritira da scuola, li punisce severamente ad ogni minimo e irrilevante sbaglio; infine c’è Myrto, la figlia più giovane, tenuta praticamente nascosta, essendo lei la seconda che sta subendo la tirannia del capofamiglia, seconda vittima in ordine di tempo e di età, dopo la maggiore. Si vive in un clima da rigorosissimo collegio, con un padre che coordina ogni movimento, ogni decisione da prendere, ogni comportamento da adottare nei rari casi di uscita. Nessuno bussa mai alla porta, nessuno esce di casa se non accompagnato dall’uomo.


Le attinenze con il capostipite del nuovo cinema greco e anche il più famoso, il primo Yorgos Lanthimos per intenderci (poi i successi internazionali iniziati con the Lobster [recensione] lo hanno allontanato dai suoi inizi), soprattutto con ciò che si vede in Doogtooth (recensione), sono evidentissime. Stesso tipo di inquadrature fisse a medio campo, rigidità fisica dei personaggi, colore sbiadito della fotografia, assenza di musica che si rifà ad un lampante Haneke, eccettuato l’inopinato momento di Toto Cotugno con L’italiano. Stesso ambiente casalingo che ricorda la disciplina di un campo di concentramento. Sembra di assistere ad una replica condominiale di ciò che accadeva nell’altro in una comoda villa. Un cinema nichilista che osserva e mostra la violenza psicologica, che stavolta diventa tragicamente fisica, da abuso sessuale che va oltre l’immaginazione. Tutto ben mascherato dal viso tranquillizzante che i due genitori mostrano alla macchina da presa, a cominciare dal padre quando si rivolge agli insegnanti della scuola, dove avviene il primo episodio che fa scricchiolare la rigida impalcatura della famiglia: il piccolo maschietto di casa rivela qualcosa di anomalo alla maestra, che fa scattare la visita degli assistenti sociali. Cosa succede adesso? Praticamente nulla, perché i due incaricati dall’assistenza sociale fanno domande, cercano di capire, ma non si accorgono di nulla davanti alle espressioni perplesse e meravigliate dei due genitori, non sanno trarre alcuna conclusione durante il colloquio, neanche dopo un incontro separato con Eleni e quindi, peggio ancora, non intervengono per porre rimedio. E così tutto continua imperterrito.


Sullo sfondo, al difuori da questa famiglia, oltre le mura della casa, la crisi politica ed economica ma soprattutto sociale di un Paese, come la Grecia, che sta crollando sotto il peso delle condizioni imposte dall’UE e dalla cosiddetta troika. Il film è tratto tragicamente da una storia vera, avvenuta però in Germania, ma rapportato nella nazione del regista diventa una metafora della penisola ellenica, assume le vesti di critica che punta l’obiettivo, della macchina da presa e dell’attenzione, sulla situazione sempre più precaria di quello stato. Per l’appunto, dando uno sguardo sociale, dice lo stesso Alexandros Avranas: “Da qualche parte, vicino al centro della città, colorati palazzi creano un mondo grigio. L'insopportabile quiete della routine quotidiana è spezzata dal suicidio di una ragazzina. Simbolo di tutti quei bambini costretti a sottostare alle regole di una società dura e senza speranza, la ragazzina e il suo gesto mettono a nudo e rivelano ogni tipo di sfruttamento e di manipolazione che si compie all'interno di quel sistema che alcuni si ostinano ancora a chiamare ‘famiglia’, in cui un padre che impone ordini e funzioni di ogni componente esercita il proprio potere per vie non differenti da quelle usate da chi manipola la società. Mi chiedo sempre chi ha il potere: colui che colpisce o chi invece sente il dolore? La violenza più dura è quella del silenzio e del non detto.” Una famiglia segregata che rappresenta una nazione isolata dal resto d’Europa e messa in ginocchio da una crisi che non conosce pietà e che fa strage tra i più deboli della società.




Fa impressione riflettere sul fatto che volutamente a questa violenza domestica - che si scopre andando avanti nel film, che non nasconde ai nostri occhi l’instradamento agli abusi compiuti da padre sulle figlie, che lo porta persino a concederle ai suoi amici – venga abbinata nell’atroce titolo la parola “Miss”, come a voler diminuire la tragedia della brutalità di quello che vi si racconta, ingentilire il dramma mentale e fisico a cui le ragazze e tutto il nucleo familiare devono sottostare. Solo realizzando tutto ciò, nel corso della visione, si riesce a comprendere l’angoscioso gesto che caratterizza l’inizio del racconto. Un suicidio liberatorio deciso al compimento degli 11 anni, età in cui le altre sorelle hanno dovuto subire l’iniziazione che il padre impone loro. Sconcertante, doloroso, insopportabile film girato benissimo, da un regista che raggiunge lo scopo e viene giustamente premiato con il Leone d’Argento a Venezia 2013, dove viene privilegiata anche l’interpretazione di Themis Panou nei panni del padre, attore che si meravigliò della sua Coppa Volpi, essendo stato fino ad allora un ordinario interprete di piccole parti in una manciata di film, ma più adatto al teatro che frequentava di più. Non pensava che uno sconosciuto attore greco potesse vincere un premio così importante in un Festival così famoso. Alla domanda quale siano state le scene più difficili da girare, lui risponde: “Sono state due. La prima è quella in cui il padre offre la figlia a due uomini e poi ne abusa anche lui; l’altra è quando gli casca il pezzo di torta di compleanno della ragazzina che si è suicidata. Quest’ultimo momento doveva durare poco: il protagonista poteva lasciarsi andare appena, ma poi riprendersi subito, per non farsi perdonare dal pubblico. Nel primo caso invece non doveva esserci solo sesso, ma anche un minimo di amore.” Perché in effetti quell’uomo è un disgraziato (letteralmente, fuori dalla grazia divina) ma che in fondo prova amore nei confronti delle sue vittime.

Alla fine arriverà infatti la cruenta giustizia terrena, poco dopo aver udito: “Dormi, Eleni, dormi.”


Riconoscimenti

2013 – Festival di Venezia

Leone d’Argento al regista Alexandros Avranas


 
 
 

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