Monica
USA/Italia 2022 dramma 1h46’
Regia: Andrea Pallaoro
Sceneggiatura: Andrea Pallaoro, Orlando Tirado
Fotografia: Katelin Arizmendi
Montaggio: Paola Freddi
Scenografia: Andrew Clark
Costumi: Patrik Milani
Trace Lysette: Monica
Patricia Clarkson: Eugenia
Adriana Barraza: Leticia
Joshua Close: Paul
Emily Browning: Laura
TRAMA: Dopo una lunga assenza, una donna trans ritorna a casa per occuparsi della madre morente.
Voto 6,5
La breve trama su indicata potrebbe essere una specie di (inutile) spoiler. Non perché sveli granché, non è questo ciò che si deve scoprire della vita della protagonista man mano che si sviluppa il lentissimo procedere del film. Monica (Trace Lysette) - chi non conosce la storia non può intuirlo subito, anzi c’è da attendere – oggi è una transessuale, lo è da tempo, da quando, anni e anni prima, è andata via di casa perché la madre Eugenia (Patricia Clarkson) si è espressa con scarsa comprensione e con durezza alla fermata del bus. Come sempre accade, vistasi non accettata, è andata via per la sua strada, ma soprattutto per la sua vita, ed ora, dopo tantissimo tempo, al corrente della malattia terminale della mamma, ha deciso di farle visita e fermarsi per un po’. Inizialmente è tornata per un paio di giorni, come dice in un messaggio vocale a chi forse è il suo l’uomo: “Jimmy, so che hai detto che volevi un po’ di spazio, ma non intendo farti pressione... Mi manchi molto e volevo solo parlare con te di alcune cose. Chiamami. Ti amo molto.” Messaggio di cui poi corregge il saluto in un più semplice “Ti amo”. La vediamo in una scena fare massaggi ad un uomo nudo, ma non capiremo mai se sia davvero una massaggiatrice o una prostituta. La decisione, comunque, di tornare non è facile ma è dovuta perché da parte sua l’amore verso la madre non è mai mancato o probabilmente è solo una forte nostalgia. L’unica perplessità è, semmai, se Eugenia sarà in grado di riconoscerla: non solo sono passati diversi anni ma la trasformazione fisica è tale che pare un’altra persona.
Ricevuta con affetto dal fratello Paul (Joshua Close) e dalla sorella Laura (Emily Browning), ma anche dalla badante Leticia (Adriana Barraza), i primi contatti di Monica con la madre sono timidi e delicati per non rovinare la sperata accoglienza, cercando di minuto in minuto di avvicinarla e stabilire un rapporto di fiducia. Cosa non facile dal momento che non pare la riconosca, non dà segni di sorpresa o di rifiuto, come si temeva. Eugenia guarda con sospetto quella bella donna come un’estranea e non le dà molta confidenza. La figlia aspetta, arriveranno istanti migliori, si farà accettare come gradita ospite, primo o poi. Questo avanzamento è lento, dettando i tempi anche al film e alla sceneggiatura fatta di poche parole e molti sguardi tra le due, quando invece con sorella e fratello si sviluppa una piacevole complicità, fatta anche di bei ricordi, di benevolenza che non è mai mancata. Anche i piccoli figli di Laura sono aperti e accoglienti verso quella sconosciuta. In buona sostanza, fanno del loro meglio per accettare l’identità di Monica e non le causano alcun problema al riguardo. Quindi nessuna domanda sul cambiamento o sulle difficoltà incontrate oppure sulla sua vita privata. Sotto questo aspetto Monica non lo dà a vedere ma certamente è contenta della delicatezza e del rispetto a proposito della sua privacy. Lo apprezza. Monica, riferendosi alla madre: “Non mi ha riconosciuta”. Paul: “Beh, ti aspettavi che lo facesse?”
Andrea Pallaoro lavora sul soggetto inteso come script e sul soggetto come protagonista con estrema attenzione, dedicandole un’infinità di primi e primissimi piani, spesso, all’inizio, seminascondendola da tendine, occhialoni da sole, finestrini della sua spider e racchiudendola in formati ristretti dello schermo (in formato 1,2:1), ottimamente fotografata da Katelin Arizmendi, esaltando la bellezza di un viso carnoso dagli occhi azzurri. Tristi, afflitti, che hanno sofferto: nulla sappiamo di come le è andata la vita fino a questo punto, di certo pare sola, non è felicissima, ma almeno si è realizzata, è lei, è Monica. Non sapremo mai neanche il suo nome da ragazzo: Monica, come dice alla mamma, è un nome che ha scelto.
Nome di donna, come Hannah, il film precedente, passando dal viso enigmatico di Charlotte Rampling a quello della chioma fulva di questa ragazza che non sa bene ancora il suo futuro. Ora è Monica e sua madre, che molti anni prima l’ha disconosciuta e che pare abbia voluto dimenticare la “perdita” del figlio che aveva sempre creduto e saputo maschio, la vede tornare come non l’ha mai vista. La giovane ha pazienza, conscia che la donna sia ottenebrata dalle tantissime medicine che prende e che rifiuta con testardaggine, perché la fanno star male, fino a scambiarla per una nuova badante, rifiutandola. Poi, accettandola, perlomeno in presenza di Leticia. È un cammino lento, lentissimo, fatto di frasi trattenute e di studio come tra due animali che devono conoscersi e avvicinarsi. Almeno con lo scopo essenziale di capire cosa hanno perso entrambe.
Pallaoro, tenendola sempre e continuamente in scena, si distingue per la volontà di allontanarsi dalle narrazioni punitive e tragiche spesso associate alla comunità transgender e, più in generale, al mondo LGBTQ+. La messa in scena è caratterizzata da una sottrazione accurata, evitando melodrammi, scene madri, confronti violenti e monologhi esplicativi. Nessuna alza mai la voce. La protagonista emerge come un personaggio autonomo e completo, la cui storia e identità si sono liberate dalla consueta idea di fare i conti col passato, come si suol sempre dire, o di fornire spiegazioni. Il film la pone al centro della scena, senza giustificare il comportamento ostile e talvolta inaccettabile della sua famiglia, evitando così un cliché del cinema che va tanto di moda e che tende a focalizzarsi sulle difficoltà e sofferenze non della protagonista queer, ma di chi la circonda. Lo stesso regista non ha fatto mistero che il suo è un discorso sull’identità di ciascuno di noi, un’identità messa alla prova dalle trasformazioni del corpo e dell’anima e dalla necessità di fare i conti con le ferite, di ricucire legami familiari sfilacciati. Al di là del gender o meno.
Due quindi gli obiettivi che il regista intendeva perseguire: la vicenda personale inserita in quella familiare, funestata da una malattia terminale, e la messa a fuoco della personalità della ragazza al centro del racconto. Per cui, sin dall’incipit, possiamo ammirare le inquadrature dedicate con l’unico scopo dello studio accurato del comportamento del quotidiano e dei gesti naturali che ella compie, ma, nello stesso tempo, Pallaoro non evita di illustrare i suoi silenzi significativi quando trova difficoltà a riprendere le relazioni con il fratello e la sorella. In realtà, come detto, lei sceglie sempre di tacere per il timore di far saltare il banco e dover scappare di nuovo. E le capita pure di fare così, salvo poi tornare indietro per riprendere il filo interrotto, ben sapendo che altrimenti non rivedrebbe più sua madre. L’altra scelta ben precisa dell’autore è quella, opportuna, di far mostra del corpo sensuale della donna se non per lo stretto necessario e per una scena di sesso che ha ritenuto giusto inserire, ma sempre con lo scopo di spiegare la persona.
Ci sono momenti, grazie all’ammirevole recitazione, in cui le cose non vengono dette, ma i personaggi dicono molto con il linguaggio del corpo e le espressioni. I membri della famiglia non esprimono facilmente le emozioni, non sono molto espansivi, ma sotto ogni dolore o confusione, c’è ancora l’amore. Il film, recitato molto bene da tutti, probabilmente non sarà considerato un classico sull’identità transgender, ma ha un approccio credibile nel ritrarre questioni delicate che non sempre hanno risposte facili o risultati attesi.
Presentato in anteprima mondiale e in concorso alla 79.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2022, su quattro candidature ha vinto il Premio Arca CinemaGiovani.
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