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My Name Is Joe (1998)


My Name Is Joe

UK/Germania/Spagna/Francia 1998 dramma 1h45’


Regia: Ken Loach

Sceneggiatura: Paul Laverty

Fotografia: Barry Ackroyd

Montaggio: Jonathan Morris

Musiche: George Fenton

Scenografia: Martin Johnson

Costumi: Rhona Russell


Peter Mullan: Joe Kavanagh

Louise Goodall: Sarah Downie

David McKay: Liam

Anne-Marie Kennedy: Sabine

Lorraine McIntosh: Maggie

Gary Lewis: Shanks

David Hayman: McGowan


TRAMA: Joe è un proletario dall'aria sorridente, uscito dalla sua dipendenza all’alcol. Si dà da fare con un’energia inesauribile per la scalcagnata squadra di calcio che allena in un quartiere disgraziato e popolare di Glasgow. La vita sembra farsi più dolce quando incontra Sarah, un'assistente sociale single che cura le centinaia di casi particolarmente difficili della zona.


Voto 8,5

Il grande pregio di Ken Loach (e quindi del suo lavoro) è principalmente seguire e mostrarci impietosamente e costantemente personaggi credibili in situazioni realistiche. Non c’è nulla di inventato e fantasioso se non le storie scritte, nell’ambito di situazioni però sempre attendibili per parlare dei problemi della povera gente, come una sorta di moderno neorealismo impressionante. Le sue trame, quasi sempre ricamate dal fedelissimo Paul Laverty, non sono evasione ma sono spesso cupe e talvolta addirittura deprimenti perché raccontano le prove e le tribolazioni di coloro che quotidianamente si impegnano in lavori massacranti cercando di racimolare abbastanza per mettere il pane in tavola. Riguardano uomini e donne intrappolati dalla povertà e da un sistema sociale a cui non importa se vivono o muoiono. E riguardano le conseguenze, a volte tragiche, delle azioni che alcuni di loro intraprendono nel vano tentativo di liberarsi dalle anguste circostanze.

Ed è ancora così in questo bellissimo film, che però non ha del tutto l’aspetto negativo avendo anche lampi di tranquillo ottimismo e di una discreta dose di umorismo legato ai personaggi. C'è un po’ di romanticismo, qualche battuta tra amici e perfino la sensazione che l'assenza di denaro non equivalga per forza alla mancanza della speranza. Ma è un equilibrio fragile, che non può durare e, prima che arrivino i titoli di coda del film, ci saranno violenza, tragedia e la consueta spiacevole dose di realtà per il protagonista che è indubbiamente un tipo affabile e pieno di buona volontà. Il film è ambientato a Glasgow, in Scozia, dove gli accenti sono talmente impenetrabili che i produttori arrivarono alla decisione di far circolare a volte la pellicola nei paesi anglosassoni con i sottotitoli. Un accento così duro da suonare come girata con un cast germanico.

Come suggerisce chiaramente il titolo, lui è Joe Kavanagh, un alcolizzato in via di guarigione dopo che ha capito che doveva dare una raddrizzata alla sua vita frequentando un corso di Alcolisti Anonimi, dove ad ogni seduta inizia a parlare presentandosi “Mi chiamo Joe e sono un alcolizzato”. Dopo dieci mesi, finalmente ne è fuori e da disoccupato sopravvive con il sussidio di stato e facendo qualche piccolo lavoro in nero, cercando di non farsi scoprire pena la perdita dell’aiuto governativo. La sua unica attività, oltre che rilassarsi nella musica di Beethoven che gli ha aperto nuovi orizzonti, è allenare una squadra di calcio talmente scalcagnata che vederli all’opera fanno ridere ma anche commuovere per l’impegno che ci mettono: gente raccattata nel quartiere tra giovani e meno giovani, che non hanno nulla di atletico e che si presenta in campo con magliette sporche. La sua opera è comunque apprezzabile anche per il semplice motivo di creare solidarietà e amicizia.

Tra di loro milita Liam, un giovane sposato con Sabine, una tossicodipendente con cui ha avuto un bambino vispo e intelligente di quattro anni, ma vivendo una vita al limite della povertà. Joe ha un occhio di riguardo per lui, si rivede in lui e cerca di dargli una mano prima che la situazione precipiti ancor di più: è un piccolo spacciatore che ambirebbe a cambiar vita ma è già indebitato con il boss del quartiere e la situazione va peggiorando dal momento che anche la moglie è molto indebitata con il mafioso. È in casa loro che ha modo di venire in contatto con l’assistente sociale che li cura, la single e sempre disponibile e sorridente Sarah. Le strade di Joe e Liam si incroceranno sempre più, fino al drammatico epilogo. Joe è davvero un brav’uomo, una persona a modo che si è trovato enormemente in difficoltà nella vita e ha trovato rifugio solo nella bottiglia, specialmente dopo un bruttissimo episodio di violenza causato dall’annebbiamento della testa in preda all’alcol. Da allora lui non si è saputo perdonare ma ha capito che doveva raddrizzare la vita e cercare un futuro migliore. Per questo motivo vive solo e la simpatia nata dal primo istante verso Sarah, ben presto ricambiata, sembra un cambiamento positivo e promettente. Per entrambi, dato che lei vive da sola e ha timore di avvicinarsi ad un uomo di cui ha ancora qualche perplessità. Invece l’amicizia diventa amore, sincero, forte. Ma quando i rapporti tra il boss e la giovane coppia di Liam precipita sino al punto di allarme, Joe deve intervenire senza paura per difendere il giovane amico e protetto, anche a costo di rimetterci fisicamente. Non ha paura di affrontare McGowan e i suoi uomini e accetta, suo malgrado, un pericoloso compito per ripagare le duemila sterline di debito di Sabine e Liam, pur di sanare la scomodissima circostanza. L’importante è che la sua amata Sarah ne rimanga all’oscuro, temendo la separazione se solo venisse a conoscere ciò che sta compiendo. Joe è davvero un brav’uomo e per nulla al mondo rinuncerebbe a quella donna che significa speranza e tranquillità, che ama sinceramente per la prima volta in vita sua, ma la disastrosa situazione la può sistemare solo lui e in quella maledetta maniera. Non c’è scampo!

Forse mai un film di Ken Loach ha avuto un finale così tragico, davanti agli occhi impotenti di Joe. Dopo una prima metà in cui i nostri poveri eroi si battono per barcamenarsi e sopravvivere ma trovano momenti anche di serenità e barlumi di prospettive positive, una visione di coppia stabile e perfino accenni divertenti, la seconda è una rovinosa discesa verso l’inevitabile, del regolamento dei conti, della strada verso le piccole felicità preclusa da chi non ha scrupoli, dove le buone intenzioni vanno ad infrangersi nella dura realtà. Non è un quartiere per i buoni intenzionati. Ancora una volta il regista ci sbatte in faccia cosa significa non contare nulla se si è ai margini della società, cosa significa nuotare nel mare in tempesta della vita difficile, guardarsi intorno e sperare inutilmente che qualcuno allunghi una mano di aiuto. Nel colloquio animato con Sarah al momento del chiarimento, Joe lo dice chiaramente ed elenca con foga e delusione i motivi evidenti per cui gli ultimi saranno ultimi per l’eternità: “Mi dispiace ma noi comuni mortali non viviamo nel tuo mondo pulito. Non tutti possono andare alla polizia, non tutti ottengono prestiti in banca, non tutti possono partire. Non tutti possono scegliere! Io non ho avuto scelta!” Ecco, questa è la durissima realtà, è il Vangelo degli ultimi. E loro non ci possono far nulla, sono solo le vittime di un sistema che non offre le stesse chances a chiunque. Chi di qua e chi di là. Non c’è scampo!

Come sempre un film che fa, pari alle altre volte, rabbia, dispiacere, senso di impotenza, orrore per l’ingiustizia sociale, in una società in cui, come diceva il buon Daniel Blake, l’essere umano, pur se ultimo, non può essere solo un numero dei database delle istituzioni. Dov’è la dignità?

Per rendere tutto ciò più credibile di quello che è già a primo sguardo, necessita una sceneggiatura attendibile, di dialoghi efficaci, di attori (quelli di Loach sono per la stragrande maggioranza sconosciuti) credibili come le storie in cui si trovano, che sappiano recitare con molta naturalezza. E loro, tutti, lo sono, in un coro che sembra registrato in un documentario, a cominciare dalla splendida e sensibile Louise Goodall (Sarah) e finire al bravo David McKay (Liam) con la compagna Anne-Marie Kennedy (Sabine), all’amicone Gary Lewis (Shanks) di cui Joe racconta nell’incipit le disavventure tra la prigione e il dormitorio, avanti e dietro “come un treno”. Su tutti si erge un maestoso (perbacco, che attore!) Peter Mullan al suo secondo film con Loach dopo Riff Raff, non ancora quarantenne e nel pieno dell’ascesa attoriale, prima di una lunga e premiante carriera che lo ha visto sedere dietro la macchina da presa con l’indimenticabile Magdalene, vincitore a Venezia nel 2002. Una prova interpretativa che muove l’anima dello spettatore, con quel duro accento scozzese che conosce bene essendo cresciuto davvero in un sobborgo di Glasgow dove visse in una famiglia con un padre alcolizzato, violento e dispotico, tanto che Peter a quattordici anni cercò di avvelenarlo con dei sonniferi. L’attore ideale per Loach e per questo commovente film che si mescola con il thriller. Un dramma forte che deve farci riflettere e che parte dalle mani di un regista che ha sempre criticato e fatto notare come i governi laburisti britannici abbiano rovinato le persone meno abbienti, dimenticandole nei quartieri periferici ad arrangiarsi.

Sebbene la dipendenza sia un elemento chiave, il film non parla tanto dell'abuso di sostanze tossiche quanto dell'accettazione delle conseguenze delle proprie azioni. Nel tentativo di espiare i suoi misfatti passati, Joe cerca di salvare un altro uomo, ma finisce per affrontare la realtà che, invece di risolvere la situazione, potrebbe causare ulteriori danni. Va riconosciuto il merito a Ken Loach di non offrire risposte facili a domande difficili e, a differenza di una produzione hollywoodiana, non è detto che le cose vadano per il meglio. La più grande forza di questo film senza fronzoli è il senso della cruda realtà. L'umorismo e la tragedia sono presentati senza un accenno di melodramma e il film lascia ogni spettatore con un senso di inquietudine. Se la definizione di grande opera è un film con almeno un paio di scene memorabili e nessuna brutta, allora è senza dubbio all'altezza di essere così definito. Anzi, grandissimo, uno dei più tragici e belli del regista inglese, che sa sempre dove mettere la macchina da presa e restituirci così le vibrazioni dei personaggi, gestendo al meglio i momenti importanti e meno con le musiche adatte: qui anche con potenti brani delle rockband inglesi.


Lunga vita a Ken “il rosso”!

Riconoscimenti

1998 - Festival di Cannes 1998

Miglior attore a Peter Mullan

1998 – British Independent Film Awards

Miglior film

Miglior regista

Migliore sceneggiatura

Candidatura miglior attore a Peter Mullan

Candidatura miglior attrice a Louise Goodall


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