Non lasciarmi (2010)
- michemar
- 13 giu 2021
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 16 mag 2023

Non lasciarmi
(Never Let Me Go) UK 2010 dramma/fantascienza 1h43’
Regia: Mark Romanek
Soggetto: Kazuo Ishiguro (romanzo)
Sceneggiatura: Alex Garland
Fotografia: Adam Kimmel
Montaggio: Barney Pilling
Musiche: Rachel Portman
Scenografia: Mark Digby
Costumi: Rachael Fleming, Steven Noble
Carey Mulligan: Kathy
Andrew Garfield: Tommy
Keira Knightley: Ruth
Sally Hawkins: Miss Lucy
Charlotte Rampling: Miss Emily
Andrea Riseborough: Chrissie
Domhnall Gleeson: Rodney
Nathalie Richard: Madame
Isobel Meikle-Small: Kathy da bambina
Ella Purnell: Ruth da bambina
Charlie Rowe: Tommy da bambino
TRAMA: In un'Inghilterra alternativa distopica, dove la scienza medica ha fatto enormi progressi, Kathy, Ruth e Tommy sono tre bambini che crescono nel collegio di Hailsham, del tutto isolato dal mondo, in un clima particolare. A sedici anni, completati gli studi, i tre ragazzi lasciano Hailsham per andare nei cottages a completare la loro educazione per diventare prima "assistenti" e poi "donatori"; questo infatti è il loro destino sin dalla nascita: sono dei cloni umani, i cui organi sono destinati ad essere espiantati. Nonostante siano perfettamente consapevoli del loro destino, nutrono però sentimenti che li lasciano sperare di poter modificare il corso degli eventi.
Voto 8,5

I tantissimi film che trattano il terrorizzante argomento dei futuri distopici sono tutti proiettati appunto negli anni lontani, ambientando le varie trame in tempi a venire, con la tecnologia molto avanzata che permette con sistemi sofisticati il controllo dei cittadini, sottoposti a rigide leggi che governano quell’epoca. Il romanzo del Premio Nobel britannico ma di origine giapponese Kazuo Ishiguro è invece indietro nel tempo ed è già un posto dove, almeno dal punto di vista narrativo dell’autore, l’ucronia è già in atto. Siamo nel pieno degli anni ’60 e tutto è cambiato: il futuro distopico è già tra noi. La pellicola del chicagoan Mark Romanek ci porta sin dall’introduzione in quel periodo, mediante una didascalia che ci rivela:
La svolta nella scienza ebbe luogo nel 1952. I medici finalmente potevano curare l’incurabile. Nel 1967, l’aspettativa di vita era arrivata a 100 anni.

Facile intuire, osservando il prosieguo della storia, che il notevole passo avanti nella longevità degli uomini è dovuto anche, se non soprattutto, al trapianto degli organi che si ammalano dato che la materia prima, cioè gli organi dei donatori, è continuamente disponibile, almeno per i più abbienti. La miracolosa situazione si è concretizzata con la produzione, se così si può dire, di bambini mediante clonazione, processo ormai avanzato ed efficiente con cui, in una sorta di collegi, i ragazzini sono trattenuti con rigorose regole riguardanti l’istruzione, l’alimentazione ed il comportamento. Tanti piccoli adolescenti a cui non viene detto quasi nulla del loro amaro destino e crescono innocenti e rispettosi, sotto la severa sorveglianza di un gruppo di rigidi istruttori coordinati dalla direttrice Miss Emily, ferrea donna che controlla che tutto vada come previsto. Siamo nel collegio di Hailsham (la prima parte di questo nome ricorda in maniera impressionante il saluto nazista), nella campagna inglese del Sussex, completamente isolato dal resto del mondo. Lì i giovanissimi, tutti vestiti uguali, studiano proficuamente arte, storia e letteratura, e vengono sollecitati anche ad esprimersi con creatività nelle loro attitudini artistiche, come il disegno o la pittura. La zona è delimitata da uno steccato oltre il quale è assolutamente vietato andare, pena affrontare pericolosissime situazioni da cui, si narra, è impossibile cavarsela. Un bimbo, gira voce, venne ritrovato legato ad un albero con i piedi e le mani tagliate; una ragazzina fu ritrovata, dopo una breve fuga, esanime pochi metri oltre il recinto di legno morta di fame e sete. La nuova istruttrice Miss Lucy, scoperta la situazione, fa presente ai giovanissimi che son solo storie, che nessuno potrebbe confermare queste leggende: il risultato è che solo dopo qualche giorno di servizio l’insegnante viene sostituita. Pare di assistere ad una riedizione di The Village di M. Night Shyamalan: da quel luogo non si esce perché al di fuori si annidano i mostri, cioè il sapere, la libertà, lo svincolo dal potere costituito; invece dentro i limiti si è protetti educati sfamati. Nel college ci sono tra gli altri Kathy, Ruth e Tommy, anche loro cresciuti in quello che (a loro) sembrava un istituto per orfani, che solo in seguito scoprono di essere dei cloni "realizzati" come riserve di organi umani per malati facoltosi. Donatori per nascita, non per scelta, ma vivi, e come tali pensanti e sofferenti.

Kathy H. oggi ha ormai 28 anni e osserva dietro lo spesso vetro della sala chirurgica con triste espressione. Sono 9 anni che assiste i pazienti, i suoi cari amici, anche i più intimi come Tommy e Ruth, pronti per donare gli organi per cui sono stati “creati” e parcheggiati nel collegio. È il loro amaro destino, è un traguardo indesiderato ma segnato sin dalla loro “nascita” e giunti alla piena giovinezza vengono scelti per la donazione. Alcuni non riescono a sopravvivere al primo intervento, altri al secondo, altri ancora, invece, ma pochi in verità, stanno bene anche dopo la terza asportazione: lunghe cicatrici, fisico provato, voglia di vivere che viene a mancare per l’estenuante attesa del momento del loro sacrificio. Dopo aver ricevuto l’educazione nel collegio, molti di essi vengono trasferiti in fattorie trascorrendo oziosamente il tempo ma purtroppo sempre in attesa della chiamata. Sono rilassati, vanno in giro, cercano di rendersi utili ma non è un periodo felice, essendo consci del destino che li attende e tutte le loro attività sono incupite da questa cappa di attesa ineluttabile. Qualcuno poi, come Kathy, assume il compito di badante stando vicino ai chiamati alla donazione, così come fa ritrovando la cara e indebolita Ruth, con cui andrà a cercare l’esausto e triste Tommy, di cui entrambe si erano innamorate.

Quando Kathy osserva dietro la vetrata l’intervento su Tommy, suo unico amore di sempre - scena da cui parte il lungo flashback dell’intera narrazione - ella riflette sul forte legame che ha unito il trio vissuto sul grande prato di Hailsham, su quel periodo spensierato in cui il futuro non faceva paura e l’unica suo preoccupazione era vedere come Ruth le stava rubando quel timido ragazzo che per sfogare le piccole delusioni della vita e le derisioni ricevute dagli altri per la sua timidezza urlava a squarciagola la sua rabbia, così come farà nel finale, dopo l’ennesima delusione del mancato rinvio della sua ultima chiamata. La vita, che nonostante tutto hanno vissuto nel college, riflette Kathy guardando l’orizzonte della campagna mentre il rosso tramonto va a illuminare il cielo, non è stata diversa da quella degli altri adolescenti, in quel periodo nulla le sembra le sia stato tolto; semmai, come succede a tutto noi umani, è nel prosieguo che avvertiamo le assenze, le mancanze, gli affetti non goduti. È la vita che non basta mai. Nessuno avverte la sensazione di aver vissuto abbastanza fino al punto di poter dire “ok, posso andare”, a maggior ragione quei ragazzi, la cui voglia di allungare l’esistenza pur di qualche anno diventa straziante. Come anche lei, che dopo i 12 anni previsti da badante, le sarà richiesto di presentarsi a compiere il destino. Anche il replicante Roy Batty (ricordate?) chiedeva più tempo, più vita. E mentre lei si abbandona alla campagna, riascoltiamo il brano della cassetta che Tommy le aveva regalato quasi come un pegno d’amore: “Ciò che rendeva quella cassetta tanto speciale per me era una canzone in particolare, la numero tre, Never Let Me Go. È un lento, musica d'atmosfera, tipicamente americano, e c'è quel verso che si ripete quando Judy canta «Non lasciarmi... Oh, tesoro... Non lasciarmi...» Avevo undici anni allora, non avevo molta dimestichezza con la musica, ma quella canzone, beh, ne rimasi affascinata. Continuavo a riavvolgere il nastro esattamente nel punto dell'inizio, in modo da poterla ascoltare ogni volta che me se ne offriva l'occasione.”

La malinconia che percorre l’intera storia pervade ogni istante, anche quelli più allegri e spensierati, perché essa è scolpita nelle espressioni dei tre inseparabili e non li abbandona mai. Tommy è per giunta silenzioso e timido, persino goffo, gentile d’animo, si sentiva attratto dalla bontà di Kathy, ma l’egoismo e la voglia di primeggiare di Ruth lui li ha subiti e non ha posto resistenza alcuna quando lei ha preso possesso del suo cuore. Ma non dell’anima, che era rimasta negli anni ad attendere l’avvicinamento inevitabile dell’altra, che sin da quando era ragazzina lo guardava silenziosa e malinconicamente sorridente. Il film è tutto scritto nel sorriso triste di Kathy, dal modo di accettare le cose così come vanno, per non interferire su quella che in fondo ha sempre ritenuto la sua migliore amica. È tutto inciso tra le piccole rughe che si formano al lato degli occhi malinconici di una giovane attrice che già si era egregiamente distinta in An Education (in seguito arriverà la consacrazione di Drive [recensione]) e truccata, pettinata e vestita come qui quella minuta giovane ragazza fa ancor più tenerezza: è la conferma del talento naturale di Carey Mulligan, la cui malinconia innata la rende unica in questi tipi di personaggi, fino al punto da pensare che nessun’altra attrice avrebbe potuto fare meglio di lei. Bella e malinconica come nessuno: straordinaria in questo film, come saprà ripetersi in altri, in particolar modo in Shame (recensione). La perfetta fotografia della Kathy di Ishiguro. Tre attori magnifici: lei e Keira Knightly formano la coppia ideale per rappresentare i due caratteri così differenti. L’una dolce e riflessiva, l’altra vivace e innervata nel parlare, dal sorriso spigoloso, dalla bellezza sfacciata. Andrew Garfield è forse, nonostante una carriera già densa di personaggi, in una dei ruoli migliori della sua vita, dove trova adito per esprimersi al meglio.

E se questi tre sono perfettamente al loro posto, il merito va dato a chi li ha scelti, perché ci ha visto bene subito e non ha sbagliato e se il film ha un valore ed è stupendamente bello gli onori vanno al padrone di casa, a Mark Romanek, un regista da cui poi mi sarei aspettato solo meraviglie ed invece solo tanti video short, tanti video musicali, qualche puntata di serie TV ed un promettente film di 8 anni prima, anch’esso apprezzabilissimo (One Hour Photo). Perché è sparito dal grande schermo? La regia impeccabile ha trasportato tutto il senso del bellissimo romanzo, è riuscita a stabilire un’alchimia invidiabile tra i tre protagonisti, ha saputo mostrare la durezza della direttrice del collegio (chi meglio di Charlotte Rampling?), ha inquadrato i ragazzini nell’aula magna come piccoli inconsapevoli soldatini devoti alla causa maggiore della nazione, ha saputo dare lezione di misura, ha fatto rendere al massimo il materiale a disposizione. Egli ci induce ad amare considerazioni, come ovviamente nel romanzo, tra cui quella su un’allarmante bioetica (2.0? 4.0?) dove l’uomo diventa fornitore e risorsa per la sua stessa specie, con preoccupanti riflessi classisti e morali. Il regista, definito da buona parte della critica “neokubrickiano”, ci spiazza con un’estetica dal forte sapore dolcemente plumbeo, con passaggi struggenti perfettamente rappresentati dal viso della Mulligan, in una vita/non-vita appena confortata dall’amore che sfiora i tre personaggi. Dove sei Romanek? Manchi.

Premesso che la sceneggiatura è scritta da Alex Garland, colui il quale poi da regista firmerà Ex machina (recensione) e Annientamento, va detto che la fotografia di Adam Kimmel e le musiche di Rachel Portman sono amabili come il film, che è bellissimo e imperdibile.
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