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Pain Hustlers - Il business del dolore (2023)


Pain Hustlers - Il business del dolore

(Pain Hustlers) UK/USA 2023 dramma/poliziesco/biografico 2h3’


Regia: David Yates

Soggetto: Evan Hughes (romanzo)

Sceneggiatura: Wells Tower

Fotografia: George Richmond

Montaggio: Mark Day

Musiche: James Newton Howard, Michael Dean Parsons

Scenografia: Molly Hughes

Costumi: Colleen Atwood


Emily Blunt: Liza Drake

Chris Evans: Pete Brenner

Catherine O'Hara: Jackie Drake

Andy García: dr. Jack Neel

Jay Duplass: Brent Larkin

Brian d'Arcy James: dr. Nathan Lydell

Amit Shah: Eric Paley

Chloe Coleman: Phoebe Drake

Aubrey Dollar: Andy

Michael Kosta: Guy Schatz

Nick McNeil: Randy

Willie Raysor: Matt Ellison

Alex Klein: Sidney

Valerie LeBlanc: Laurene

Bella Winkowski: Luna


TRAMA: Dopo aver perso il suo impiego, un'operaia accetta un lavoro in una start-up farmaceutica sull'orlo del fallimento per poter mantenere la figlia, ma si ritrova coinvolta in pericolose attività illegali.


Voto 6,5

Tutto vero, tutto maledettamente vero.

È la storia di una donna intraprendente, alla ricerca dell’affermazione dell’eterno sogno americano ma anche di realizzare un suo qualcosa nella vita disgraziata che conduce: in Florida, nel 2011, Liza Drake (Emily Blunt) è una madre single di Phoebe, una adolescente irrequieta e ribelle (ha perfino causato un incendio nel bosco prospiciente la scuola) e vive nel garage della sorella racimolando qualche dollaro in un bar dove si esibisce in lap dance. Sogna il colpo giusto per mettersi in sesto ma i tempi sono grami e senza titoli di studio decenti è difficile trovare lavoro ben remunerato. Finché una sera, tra i clienti da abbindolare e da cui ricavare qualche buona mancia, conosce un giovanotto, Pete Brenner (Chris Evans) che tra un bicchiere e l’altro, le parla della start-up in cui lavora, un’azienda sull’orlo del fallimento che sta cercando di sfondare nel campo dei farmaceutici con l’intento di piazzare una medicina che allevia, e di parecchio, i dolori ai malati di cancro. Di funzionare funziona ma, come ben si sa, quel terreno è caratterizzato dalle enormi difficoltà di penetrare nel mercato già consolidato e dalla pesantissima corruzione che arricchisce i medici di famiglia contattati dalla spietata concorrenza delle imprese che ripagano profumatamente i dottori che si accordano. Si tratta, quindi, solo di essere più bravi nel diffondere il farmaco e “convincere” in modo adeguato ed efficace questi medici.

Liza, in grado di vendere di tutto, intuisce che è la sua occasione, non se la deve far sfuggire: lei è aggressiva il giusto, intraprendente, grintosa, con molta voglia di sfondare. A prescindere dal tipo di lavoro. L’importante è farsi ingaggiare e dare una dimostrazione delle sue qualità, spinta oltretutto dalla forte dose di volontà che la caratterizza. Ci riesce e fa colpo, soprattutto, sul finanziatore, il dottor Jack Neel (Andy García), uomo senza scrupoli e dalle idee balzane, che dice che è ispirato dalla moglie defunta (Zanna, come il nome della società), morta tra i dolori del cancro al fegato. Veder soffrire meno i malati terminali per lui è un sollievo, una missione. Ma soprattutto una ottima opportunità per fare soldi a palate. Ammesso che si riesca a sfondare su quel mercato enormemente afflitto da spietata concorrenza e corruzione dilagante. Perché il successo possa arrivare si deve credere ciecamente nel fatto che il farmaco, il Lonafen, antidolorifico a base di Fentanyl (un analgesico a base di oppioide sintetico) funziona davvero ma provoca assuefazione. Cioè, diventa una vera e propria droga, a tutti gli effetti. Lei ha poco tempo per dimostrare che ne è capace e ci riesce: arriva il boom per l’impresa e tutti diventa ricchi, ma ricchissimi! Villa da diva hollywoodiana, scuola esclusiva per la figlia e assunzione della madre Jackie (Catherine O'Hara), donna svitata e sfrontata.

Tutto fila liscio fin quando, l’ingordigia, che rende insaziabili gli spregiudicati, e visti i risultati clamorosi anche in borsa, al grande capo e a Liza e Pete (ormai in cima alla dirigenza di un nutrito gruppo di donne vistose che riescono a convincere in un modo o nell’altro i medici che contattano e che adottano a piene mani il loro farmaco) viene in mente di farlo prescrivere anche a chi non ha altre malattie, non solo il cancro: in pratica una comoda medicina per sconfiggere facilmente il dolore di ogni tipo di patologia. Con conseguenti morti per overdose da famelica voglia di ingurgitare il maledetto Lonafen. Dalla felicità alle indagini dell’FBI il passo è breve, dalla disinvoltura disonesta di Liza al pentimento è un attimo. E la situazione prende un’altra piega. Irreversibile.

Essendo, come già precisato, un film basato su una storia verissima (altri nomi, altra azienda) raccontata prima da una inchiesta giornalistica sul New York Times e poi da un libro, da parte di Evan Hughes, salta immediatamente alla mente sia l’eterno Sogno che nasce spontaneamente nel culto degli americani sin dalla nascita, che lo scorrettissimo comportamento di gente disinibita che intende fare affari e ricchezza mediante sistemi illegali sfruttando le delicate condizioni di persone gravemente ammalate o semplicemente bisognose di alleviare le sofferenze fisiche. Puntando, cioè, sui punti deboli della gente fragile. Fatto non nuovo: l’argomento è da tempo dell’attenzione dell’opinione pubblica e il consumo eccessivo di medicinali fa pensare alla tecnica spesso usata dalle grandi case farmaceutiche. Si brevetta un farmaco (innovativo e meno) e poi si reclamizza come indispensabile, presentando una normale e guaribile patologia come grave, da curare appunto con quella compressa. Si inventa prima la risposta e poi la domanda, da cui scaturisce la pressante richiesta sempre più invadente del mercato. Il che significa, anche e soprattutto, profitti enormi per gli azionisti. Come appunto il dottor Jack Neel.

Credo che uno dei desideri più belli e comodi che facciamo tutti sia quello di non aver mai dolore, mai sofferenze fisiche, e cosa può essere meglio di una pastiglia che assume le apparenze di una magia? Solo che, quando se ne diventa ingordi, non bastano mai e se ne pretendono sempre a portata di mano: Dottore mi segna questo? Mi fa tanto bene!

Mai sentito di seminari di medici in luoghi esotici tutto gratis, comprendente volo, catering, vacanza? Mai notato le auto lussuose di certi dottori simili alle spider che conducono nel film i due dinamici e famelici protagonisti? Ed infine un altro aspetto della attivissima Liza – una via di mezzo tra la grinta di Erin Brockovich e i pentimenti di The Wolf of Wall Street - la quale, sospinta e spronata dal carattere arrivista, afferma a più riprese che solo con la ricchezza si sente sicura e realizzata, che può permettersi la casa dei sogni, che si libera dalla schiavitù degli altri.

Pain Hustlers, che i distributori italiani hanno chiarito in un lampante e dimostrativo titolo senza equivoci, laddove più il cliente ha dolore, più si arricchiscono i gaglioffi in una facile equazione più dolore più guadagno. Delinquenti cinici! Laddove, però, scopriamo un percorso che, per chi non ha peli sullo stomaco, sembra facile ma che per la legge rappresenta reato. Percorso che unisce i puntini di: sofferenza – dolore - corruzione – tangente – soldi, in cui i primi sono del malato con l’aggiunta della dipendenza senza via d’uscita, gli altri sono appannaggio degli approfittatori. La bilancia della giustizia è alquanto sbilanciata, fin quando sul piatto in alto non ci si aggiunge ravvedimento, confessione, tribunale, carcere, multe pesantissime: tant’è che la vera vicenda si concluse con pene di anni e anni di galera per tutti ed una multa macroscopica1 di 225 milioni di dollari!

Non è la prima volta che il cinema si occupa di questo enorme e scottante problema. Dell’abuso dei farmaci ma soprattutto del giro di affari che vi gira intorno con conseguente interesse di industriali del campo, che non hanno riguardi verso la salute dei pazienti e sfruttano le occasioni che il mercato presenta, ci sono diversi film. Oltre a due recenti miniserie (Dopesick - Dichiarazione di dipendenza e Painkiller) e altre opere sul grande schermo, anche in Italia c’è stato un buon risultato con l’interessante Il venditore di medicine (2013) di Antonio Morabito con un eccellente Claudio Santamaria, che era un informatore medico in un’azienda che stava attraversando un periodo di crisi. L’importante, però, è che qualsiasi film, diciamo d’inchiesta, che si voglia occupare dell’argomento deve essere incisivo e spietato, perché è una materia scottante, dolorosa, ma soprattutto delinquenziale e criminale, che sfrutta la malattia come un affare e frutta ricchezze immeritate. Il che rappresenta un altro aspetto dell’ascesa improvvisa e volatile di nuove imprese (come le moderne start-up) che si impennano sul mercato finanziario per poi esplodere o implodere con una facilità e fragilità che fa solo male ai risparmiatori inconsapevoli, gabbati anche loro.

David Yates, noto per aver diretto qualche film di Harry Potter, si insinua in questo filone doloroso con una modalità che pare voglia fare più spettacolo che indagine, più un’operazione di plastica che un’apertura in una breccia esplosiva. Come una pentola a pressione, il suo film produce vapore e di acqua ne resta poca, alla maniera tipica dello stile angloamericano, dotato di un buon capitale delle case produttrici. Il ritmo è notevole, molto simile ai già noti La grande scommessa, American Hustle - L'apparenza inganna e innanzitutto The Wolf of Wall Street, dove, in quest’ultimo, il protagonista Jordan Belfort di Leonardo DiCaprio approfitta della facilità della truffa per accumulare dollari velocemente. Tra cestelli e piramidi di popcorn e pasticche sottolinguali, tra abiti lussuosi di Liza e donnine disposte a tutto, il film è una cornucopia di colori, battute, capovolgimenti di situazioni, gelosie, ripicche ed egoismi interessati. Una cosa manca ed è clamoroso: praticamente non ci sono scene di sesso! Incredibile. Non è che ci dovrebbe essere per forza, ma meraviglia in una operazione a stelle e strisce! Ma Yates non è Scorsese e la furbizia di imboccare la conclusione in tribunale in cui la protagonista pronuncia un discorso di pentimento per la truffa e i morti lasciati alle spalle è un trucco che delude non poco. Per quanto riguarda la recitazione, nella miriade dei personaggi sparsi lunga la trama emergono sicuramente Brian d'Arcy James, Catherine O'Hara (più vispa che mai) e un notevole Andy García in un personaggio insidioso e approfittatore, ma specialmente il grintoso Chris Evans. La mattatrice assoluta è ovviamente la bravissima Emily Blunt, capace di attraversare le tre fasi della sua nuova vita: lo stupore della scoperta di quella attività, verso cui si scopre adattissima, la meraviglia dell’agiatezza grazie alla ricchezza improvvisa e quella più delicata e decisiva del ravvedimento.

Non è tra i migliori film della stagione Netflix ma indubbiamente è un’operazione interessante per illustrare ciò che succede intorno a noi, soprattutto ai tanti di noi che devono affrontare gravissime malattie. Con la triste riflessione su questa società che resta sempre una giungla piena di bestie pronte ad azzannare il viandante

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