Palazzina Laf
Italia 2023 dramma 1h39’
Regia: Michele Riondino
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Michele Riondino
Fotografia: Claudio Cofrancesco
Montaggio: Julien Panzarasa
Musiche: Theo Teardo
Scenografia: Sabrina Balestra
Costumi: Francesca Vecchi, Roberta Vecchi
Michele Riondino: Caterino Lamanna
Elio Germano: Giancarlo Basile
Vanessa Scalera: Tiziana Lagioia
Domenico Fortunato: Angelo Caramia
Gianni D’Addario: Franco Orlando
Michele Sinisi: Aldo Romanazzi
Fulvio Pepe: Renato Morra
Marina Limosani: Rosalba Liaci
Eva Cela: Anna
Pierfrancesco Nacca: Fabio
Paolo Pierobon: Moretti
Anna Ferruzzo: Pubblico Ministero
TRAMA: I dirigenti della fabbrica decidono di trasformare un operaio in una talpa per identificare i lavoratori di cui sarebbe meglio sbarazzarsi. Comincia a perseguitare i suoi colleghi con l’obiettivo di denunciarli. Ben presto, non comprendendone il degrado, chiede anche lui di essere collocato nell’edificio LAF (acronimo di laminatoio a freddo), simile ad un campo di concentramento riservato ai lavoratori scomodi.
Voto 6,5
Michele Riondino è nato a Taranto e conosce bene i problemi della città attinenti alla importante presenza dell’acciaieria più grande d’Europa, l’ILVA, che da decenni è causa di una devastante opera di inquinamento della zona e dei morti conseguenti. A cui non si trova mai una seria soluzione essendo quella fabbrica il datore di lavoro più importante della provincia e non solo. Migliaia e migliaia di operai e impiegati che hanno potuto trovare occupazione e formare famiglie. Non è però al lato ecologico che rivolge l’attenzione, perlomeno non solo, piuttosto alle continue ristrutturazioni riguardanti il personale dovute ai cambi gestionali delle nuove proprietà, con le inevitabili conseguenze che significano riqualificazioni, licenziamenti, cassa integrazione, sospensioni parziali dell’attività produttiva. Classico caso di tagliatori di teste e provvedimenti avverso i dipendenti più sindacalizzati e gli stessi sindacalisti. Fino al punto di inventarsi una zona franca e punitiva dove confinare i soggetti più “fastidiosi” e tenerli tutto il giorno a non far nulla e pagar loro ugualmente lo stipendio pur di tenerli separati dalle maestranze: la famigerata Palazzina Laf. È questo l’oggetto principale su cui gira l’intera trama.
Caterino Lamanna (Michele Riondino), uomo semplice e burbero per nulla sindacalizzato ed interessato solo al proprio tornaconto, è uno dei tanti operai. Vive in una masseria, ormai decadente anche perché troppo vicina alla fabbrica, e condivide con la giovanissima fidanzata di origini slave il sogno di trasferirsi in città. Quando i vertici aziendali decidono di utilizzarlo come spia per individuare i lavoratori di cui sarebbe bene liberarsi, comincia a pedinare i colleghi e a partecipare agli scioperi e alle riunioni esclusivamente alla ricerca di scuse per denunciarli. Per riuscire meglio nell’intento, ora che il capo del personale Giancarlo Basile (Elio Germano) lo ha per questo promosso a caposquadra e dotato di una piccola utilitaria, chiede di essere collocato anche lui in quella Palazzina separata, dove vengono spediti per punizione i dipendenti riottosi, in cui questi, senza mansioni, non avendo alcuna occupazione materiale, ammazzano il tempo giocando a carte, pregando, giocando o facendo esercizi ginnici. Caterino scoprirà sulla propria pelle che quello che sembra un paradiso, in realtà, non è che una perversa strategia per piegare psicologicamente i lavoratori più scomodi, spingendoli alle dimissioni o al demansionamento.
Scritto con Maurizio Braucci in sette anni di lavoro su materiali e testimonianze reali, il film rappresenta l’esordio alla regia dell’attore, che ha voluto condensare la sua verità sul caso ILVA in una storia vera che, come si può notare, rasenta l’assurdo: per ciò che succede in fabbrica, per lo sfruttamento, i tanti atti di mobbing e declassamento, per quel confino che è appunto quel famigerato edificio, pieno di gente (ad un certo punto del film saranno in più di 70) che, subendo la pressione psicologica, comincia a cedere a sfiducia, atti di ribellioni e di nervosismo, persino alla depressione, con comportamenti che non hanno niente di normale. Sono ormai allo stremo mentale.
Il dirigente lo tallona continuamente, vuole sapere da Caterino cosa succede tra la manovalanza e quali sono i colleghi, molti dei quali fanno parte del personale impiegatizio, che danno più fastidio e di cui la società vuole liberarsi. Lui prende perfino nota su un’agenda e riferisce tutto quello che vede e che dicono in quelle stanze e nei reparti. A volte sembra dibattuto se fingere con i suoi simili e tradirli, oppure aiutarli e mentire al suo referente, ma è solo un’impressione, essendo un uomo troppo interessato alla propria sopravvivenza. Ignorante ed egoista, spera solo di migliorare la sua condizione di dipendente e di vita esterna. Difficile dire chi è peggiore tra lui e Basile, perfida persona che deve fare il suo lavoro in modo implacabile e che non ha alcun riguardo verso la varia umanità che lo circonda, assolutamente insensibile allo stato di degrado morale in cui versa. Entrambi sollecitano lo spettatore a provare ribrezzo e disprezzo, ma anche commiserazione, che in parte, ma solo pochissimo, li scagiona da una condanna morale definitiva.
È chiaro che a Riondino non interessa offrire soluzioni o trovare un unico colpevole: il compito che ha inteso assumere come regista e sceneggiatore, oltre che protagonista, è stato quello di mostrare crudamente ciò che succedeva e lo ha realizzato con un racconto fatto di colori, sentimenti, musiche, per descrivere una situazione difficile da spiegare persino in un’aula di tribunale. Dove alla fine la questione gravissima approderà. Dramma e grottesco si mescolano assieme per una storia che pare irreale, tanto è grave dal punto di vista umano e lavorativo. Persino i personaggi sembrano un po’ carichi ma sono legittimati dalla situazione assurda creatasi e servono a rendere bene l’idea del loro stato psicologico: rabbia, frustrazione, paura si mescolano ad un senso del grottesco, dato tanto dal loro colorito e spontaneo linguaggio (che diverte anche), quanto dalla situazione, drammatica e al tempo stesso tragicomica.
Tutto vero e forse è questo l’aspetto più paradossale della faccenda e l’approdo in tribunale sancì definitivamente e giuridicamente le colpe della dirigenza e dei proprietari Riva. Finale che accentua anche la coloritura del personaggio quasi macchiettistico di Caterino: Riondino salva i dipendenti maltrattati e condanna le figure negative. L’apprezzabile sforzo del regista prende le mosse quindi da una storia di ingiustizia ambientale che è anche di ingiustizia lavorativo-professionale. E per raccontare quello che è successo bisogna partire dalla complessità della questione partendo dall’inizio, dal ricatto occupazionale, sotto il quale gli abitanti tarantini sono stati costretti a vivere dal 1995, da quando è entrato nella partita la proprietà privata. L’autore non rinuncia a mostrare le indecisioni e i timori della parte più debole, cioè i lavoratori, impauriti di perdere il salario e trovarsi in mezzo alla strada con le famiglie. È bravo, in questo che è un film politico, nel saper raccontare il carattere del protagonista che sicuramente non ha gli strumenti culturali per capire la drammaticità della situazione ma soprattutto non ha la voglia di intravedere tra i colleghi confinati la precarietà della loro (e sua) esistenza, anche perché, forse non rendendosi conto, egli vede la sua condizione di lavoratore alla pari di uno “schiavo” di un reparto logorante, a contatto con la malattia che in questi decenni ha cambiato la città. Da tutto ciò ne deriva che Caterino, nella sua ignoranza, crede che quella anomala situazione, cioè il non far niente nella Palazzina, sia una posizione favorevole. Giudizio che, frequentando anche lui quelle stanze-prigioni, cambierà quando riuscirà a sviluppare finalmente la coscienza della realtà, nonostante che alla fine egli si schiererà dalla parte che crede più forte. Per questo è necessario guardare al film e al suo personaggio come una critica che Riondino fa alla classe operaia di oggi, almeno quella tarantina, che lui ritiene non più convinta, come una volta, di far parte di quella classe orgogliosamente operaia, che evidentemente non va più in paradiso.
Opera politica, ok, ma anche ideologica? Forse, e Riondino non lo ha mai negato, essendo sempre stato un uomo impegnato politicamente ma ancor più socialmente e apertamente schierato con la città natale e i suoi tanti guai, che sono un po’ quelli di tutto il Sud Italia. Compreso la tragedia giornaliera, che purtroppo riguarda tutto il Paese, dei morti sul lavoro, un camposanto enorme che riempie quotidianamente le cronache dei notiziari. Gli altiforni non vengono mostrati, l’acciaio non c’è, il fuoco perenne che arde a temperature inimmaginabili non infiamma il colore dello schermo, ma l’odore della siderurgia domina ugualmente nell’aria pestilenziale dello sfruttamento, nell’intolleranza dirigenziale verso i sindacalisti che fanno perdere tempo, nell’abbaiare ordini e nel punire gli intollerati. L’atmosfera è greve anche se il sole non picchia, mentre l’orizzonte trema intorno a quegli altissimi camini che portano “la” malattia. È una tragedia che il regista trasforma in commedia drammatica: vera, reale. Ma sembra irreale.
In mezzo a tanti caratteristi, ottimamente realistici e convincenti, ad iniziare dalle due attrici Vanessa Scalera e Marina Limosani, molto brave, Michele Riondino si trasforma in tuta da operaio con un paio di baffoni degni dell’impero comunista: la sua interpretazione possiede veemenza, forza, impegno corporale, voce grave, impeto, esternando l’impeto derivante dal senso di appartenenza a quella terra e soprattutto dalla coscienza di conoscere le problematiche di quella gente, che sente come proprie. Insomma, prende slancio possente da un argomento che gli sta evidentemente a cuore, molto. Il ruolo di contraltare spetta al camaleontico Elio Germano che si atteggia da par suo a “mafiosetto” per esprimere l’arroganza del suo dirigente, dando luogo, così entrambi, a scene esplicative sia dei personaggi che dell’aria che allora si respirava. E non parlo di quella malsana naturale. Il tema è forte e i due sono fondamentali per la riuscita dell’opera.
Al Riondino regista gli si può perdonare qualche ralenti di troppo che vuole essere da “autore”, alla pari di qualche scatto da montaggio nervoso: peccati veniali di cui si poteva fare a meno. Ma nel complesso è un film che si avverte sincero e sentito, soprattutto sofferto nell’intimo, che prima o poi, era destinato, lui doveva portare sullo schermo perché lo tocca da vicino e perché sa di cosa parla.
Bellissimo il brano di chiusura scritto e cantato da Diodato.
Riconoscimenti
2024 – David di Donatello
Miglior attore protagonista a Michele Riondino
Miglior attore non protagonista a Elio Germano
Migliore canzone originale “La mia terra” (Diodato)
Candidatura miglior regista esordiente
Candidatura migliore sceneggiatura originale
2023 – Ciak d’oro
Miglior regista esordiente a Michele Riondino
Miglior attore protagonista a Michele Riondino
Miglior canzone originale
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