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Immagine del redattoremichemar

Paris, Texas (1984)

Aggiornamento: 31 ott

Paris, Texas

Germania/Francia/UK 1984 dramma 2h17’

 

Regia: Wim Wenders

Sceneggiatura: Sam Shepard, L.M. Kit Carson

Fotografia: Robby Müller

Montaggio: Peter Przygodda

Musiche: Ry Cooder

Scenografia: Kate Altman

Costumi: Birgitta Bjerke

 

Harry Dean Stanton: Travis

Nastassja Kinski: Jane

Dean Stockwell: Walt

Aurore Clément: Anne

Hunter Carson: Hunter

Bernhard Wicki: dottor Ulmer

 

TRAMA: Travis crolla stremato nel deserto della California. Suo fratello lo porta a casa propria e qui l’uomo ritrova suo figlio di quasi otto anni. A poco a poco, Travis esce dal silenzio e stabilisce un buon rapporto col bambino. Saputo che sua moglie vive a Houston, vi si reca col figlio. Ritrova Jane che lavora in un “peep show”, rievoca con lei il loro passato e le lascia il bambino. Poi riparte verso l’ignoto.

 

Voto 9



La veduta panoramica di un aereo a volo radente inquadra le montagne di una zona desertica e deserta tra il Messico e il Texas, rossa come quella dell’epoca fordiana dei western. Al centro dello schermo si intravede un uomo, nonostante il clima sahariano, vestito di scuro con tanto di giacca e cravatta e cappellino rosso, coperto di polvere, che cammina spedito come se, in quello spazio senza riferimenti, sappia con certezza la direzione da seguire. In mano una tanichetta di plastica bianca in cui l’acqua è praticamente finita: bevuto l’ultimo sorso, sotto il cocente sole texano, con il viso ormai bruciato, continua imperterrito nella speranza di scorgere all’orizzonte un punto di sosta e ristoro. Che in effetti c’è, è una stazione di servizio, nel cui malandato bar agguanta cubetti di ghiaccio per metterli in bocca, ma un secondo dopo strabuzza gli occhi e sviene, sotto il cartello del locale che dice: The dust has come to stay. You may stay or pass on through or whatever. (La polvere è arrivata per restare. Puoi rimanere o passare oltre o qualsiasi altra cosa). Soccorso, il medico di origine tedesca che lo visita gli chiede chi sia ma non riceve alcuna risposta: l’uomo pare muto e allora, cercando nelle sue tasche, trova l’indirizzo del fratello Walt, che, chiamato al telefono, risponde da Los Angeles. Un inizio denso di mistero, che trasmette il caldo atroce che vediamo, che non spiega nulla alla pari di quell’uomo che non ha intenzione di proferire parola, forse conseguenza dell’isolamento in cui ha vissuto ultimamente.



Chi è, da dove viene, dove ha intenzione di andare con quel passo deciso e veloce come se fosse partito da poco, perché sta attraversando a piedi il deserto?  Ora è giunto in un luogo dal nome improbabile, Terlingua, una cittadina polverosa e disabitata nella regione di Big Bend. Lui, scopriremo, si chiama Travis (Harry Dean Stanton) e da quattro anni i familiari, in primis il fratello Walt (Dean Stockwell), a cui si è rivolto il medico, non ha notizie, dileguatosi dopo aver abbandonato la moglie Jane e il figlio piccolino, Hunter, a sua volta lasciato anche dalla madre: adesso vive con lo zio e la moglie Anne (Aurore Clément). Facile immaginare lo stupore di Walt, che ha appena comprato una bella villetta sulle colline di Los Angeles con il suo lavoro di cartellonistica di pubblicità sulle strade. Loro due sono andati oltre la semplice custodia del bambino che ora è vicino al compimento degli otto anni: lo hanno cresciuto con tutto l’amore possibile come un vero figlio (non avendone) e Hunter li considera e li chiama papà e mamma.



Walt deve interrompere la sua attività per prendere prima un aereo e poi noleggiare un’auto per raggiungere la località sconosciuta dove è stato ricoverato Travis e dopo ore e ore, eccolo arrivare e non trovare il fratello, per il fatto prevedibile che appena rimesso in piedi ha ripreso all’alba il suo cammino spedito. Altra fatica per rintracciarlo tra quelle desolate, secche e assolate strade, i binari della ferrovia dei lunghi treni merci e il deserto circostante, ma Walt ci riesce e, pur non ricevendo risposte, lo convince a farsi portare a casa sua, con un intermezzo divertente e disperato, in quanto il ritrovato non ha alcuna voglia di volare. Non resta che intraprendere un lungo viaggio stradale di due giorni, in cui i due cominceranno finalmente a parlarsi, senza mai però che Travis riveli perché è sparito anni prima, dove abbia vissuto, se abbia intenzione di riprendersi il figlio. Notizie della moglie Jane? Nessuna. Non solo ora parla ma fa anche una confidenza: ha comprato tempo addietro, online, un pezzo di terreno, visto solo in fotografia. Si chiama Paris, come la famosa città francese, ma è nel Texas. Il motivo di tale, solo apparentemente incomprensibile, decisione è semplice e affettuoso: proprio lì i genitori, raccontava la mamma, lo avevano concepito e lì avrebbe voluto andare a vivere con moglie e figlio. Sogno bello mai esaudito, per via delle vicissitudini vissute.



Già da questa prima parte si può notare come risalti evidente la concezione di cinema da parte di Wim Wenders. Chi ha interpellato gli amici e i colleghi stretti del regista tedesco spiega che non sono le trame e gli intrecci il punto forte dei suoi film, non è la narrazione dei fatti che lo interessa, ma lo studio e l’esplicazione dei comportamenti dei personaggi, magari iniziando da un evento che pare insignificante o addirittura casuale, e scatta il meccanismo. Si può parlare, ma solo in questo senso, di un cinema di movimento e di azione ovviamente mentale, dove invece dei pugni, delle armi e degli inseguimenti c’è l’inquietudine degli umori, la ricerca della quiete, prima e dopo le tempeste. Se ci si fa caso attentamente, vi troviamo sempre due vicende che attraversano il film: quella che vediamo sullo schermo e quella che emerge a sprazzi dal passato. E siccome è già accaduto, ecco che lui ci mostra le ferite e le cicatrici ed ora non c’è altro da aspettarsi se non una quiete provvisoria, che consoli almeno al momento. E non è sempre un vero finale.



Prendiamo questo meraviglioso film. Gli avvenimenti che stanno alle spalle di Travis, quando viene trovato boccheggiante dopo l’attraversamento del deserto, restano volutamente oscuri, non c’è una biografia palese del personaggio, non sappiamo un bel niente, né chi sia veramente, né che intenzioni abbia. Lo script di quel genio di drammaturgo (e regista e attore) di Sam Shepard parte, infatti, dall’apparizione (come altro si potrebbe definire?) di uno sconosciuto in un posto sconosciuto dal nome assurdo vagamente spagnoleggiante. Tanto che la lancinante e meravigliosa musica (vorrei inventare un termine superiore a meravigliosa, tanto è bella!) di Ry Cooder, vero grande personaggio invisibile ma udibile per tutto la durata del film, a tratti si trasforma in ballate messicane. Musica indimenticabile!



La parte centrale del film è dedicata all’ambientamento, almeno provvisorio, di Travis in casa del fratello, cognata e bambino, che dapprima è diffidente poi lentamente si avvicina, fino a chiamare entrambi gli uomini “papà” e fortunatamente ospite e ragazzino cominciano a connettersi fino a raggiungere una accettabile intesa. Quando tutto pare procedere per il meglio arriva il momento della decisione, dato che le intenzioni di Travis sono quelle di rintracciare la moglie, che una traccia l’ha in effetti lasciata con i versamenti mensili su un conto bancario intestato a Hunter e qualche lettera segreta indirizzata ad Anne. Quindi, lei esiste ancora ed è reperibile a Houston, in Texas. Alla volta del quale Travis parte portando dietro di sé il figlio con uno scopo ben preciso che, ovviamente, subito non possiamo capire. E si arriva all’ultima, drammatica serie di sequenze dei colloqui drammatici e commoventi della coppia nel locale per soli uomini dove ora lei lavora. Lui in incognito e lei dietro il vetro-specchio, pronta a spogliarsi e dire ciò che normalmente si aspettano i clienti tipici dei peep show. Travis, nascosto dalla barriera di cristallo, le racconta una vaga storia in cui un uomo era felice marito e padre ma che la gelosia lo accecava: non era un sentimento ma una malattia morbosa che lo spingeva a maltrattare la donna, fino all’alcolismo, al punto che questa scappò via con il figlio e lui, disperato e pentito di aver rovinato una esistenza felice, cominciò a vagare per il mondo. Infelice e distrutto.



Era questo il terribile movente della sua sparizione, dell’assentarsi dal mondo civile e dai parenti. Lei ascolta incuriosita, immaginando di tener contento uno dei tanti clienti che vanno lì a sfogarsi, poi capisce lentamente chi sono i due personaggi e si rivede nella storia, trovando se stessa. Riconosce la voce e rivela quello che Travis mai si sarebbe atteso: “Non andare, Travis. Non ancora, ti prego. Io... ho immaginato spesso di parlare con te in questi anni. Parlavo con te... a fior di labbra ogni volta che ero sola. E adesso invece non so più che cosa dire. Non mi viene niente. Era più facile senza averti di fronte. Immaginavo perfino che tu mi rispondessi. Facevamo lunghe conversazioni... tu e io. Era come se tu fossi presente. Con la tua voce, il tuo viso, il tuo odore. Udivo la tua voce. A volte la tua voce mi svegliava di colpo. Mi svegliava nel mezzo della notte quasi tu fossi nel mezzo della stanza con me. Poi, un po’ alla volta, non riuscii più a immaginarti. Provavo... ma qualsiasi tentativo era inutile, il buio restava vuoto. Non ti sentivo più. Così... così la smisi. Smisi di parlarti. Tu... tu eri scomparso. Ma da quando sono qui... sento la tua voce sempre. Ogni uomo ha la tua voce.



Come in altre parti (e in altri lavori), il lavoro di Sam Shepard fa sì che il personaggio dimentichi se stesso, la propria storia, cammini sulle spine del dolore, sperando di sopravvivere, come anche rileggere il passato attraverso le parole, quelle parole che però Travis aveva perso. Ora si è svuotato, ha raggiunto la meta che si era imposto. La madre può ritrovare il figlio. Lui può allontanarsi dal mondo e farsi dimenticare come aveva già fatto nei quattro anni precedenti, non senza aver lasciato l’affettuoso addio al bambino tramite il nastro di un registratore tascabile. L’indicazione del numero della stanza dell’albergo dove nel frattempo Hunter aspetta è un addio, è l’addio. E quando lui, sotto la finestra dell’hotel si accerta che tutto sia filato liscio e che, soprattutto, si siano accettati, ritrovati per non lasciarsi più, abbracciati nella giravolta che fanno per la felicità, il modo di rigirarsi e avviarsi verso il pickup è quello che conosciamo: passo spedito e percorso deciso verso l’orizzonte. Il medesimo visto nel deserto. Ora può tornare sui suoi passi.



La leggenda racconta che il grande Samuel Fuller, quando arrivò in Portogallo per recitare ne Lo stato delle cose, Wim Wenders gli disse: “Non ho una storia” e lui rispose: È questa la tua storia.” Se questo aneddoto è tipico del regista, è facile presumere come la sceneggiatura del celebre drammaturgo, adattata da L.M. Kit Carson, così piena di pathos, silenzi, pensieri scritti solo nella mente di Travis, oscura per una buona metà del film, con dialoghi mai lunghi eccettuata la parte rivelatoria finale, diventi immagine fluente che esprime sensazioni e sentimenti, il detto e il non detto, la sofferenza di Walt e Anne nel veder andar via Hunter che amano, le scelte spinose ma decise di Travis, la sensibilità del bambino che accetta il cambiamento e tanti piccoli particolari che semina il regista. Le scarpe lucidate messe in fila da Travis, che praticamente non dorme mai, l’avvoltoio del deserto, i graffiti sul muro, il cartello del bar di Terlingua, la malinconica e ingiallita fotografia del terreno comprato a Paris, Texas, la bottiglietta del ketchup sulla TV. Ma sopra a tutto lo sguardo triste e impenetrabile dell’uomo, solitario dentro e fuori di sé.



A proposito della flessibilità con cui Wim Wenders si è mosso sul set, val la pena riflettere su ciò che diceva: “Nel film ho rinunciato del tutto all’idea di sapere dal giorno prima che cosa avrei fatto il giorno dopo. Cercavo di prevedere alcune scene ma poi le modificavo con gli attori una volta che eravamo sul luogo delle riprese. Per questo ho l’impressione che qui gli attori si muovano con maggiore libertà che nei miei film precedenti. Lo sforzo è stato quello di inventare il linguaggio sul momento lasciando che a imporre le inquadrature fosse quello che accadeva sul set.” E lo si deduce benissimo osservando con attenzione la superba interpretazione che ha caratterizzato l’impegno degli attori, i quali sono stati in grado di autodettarsi le pause, i tempi, la recitazione: ogni frase di Travis non è mai recitata subito dopo quella dell’interlocutore, lui fa sempre passare un paio di secondi prima di rispondere, come a voler ponderare con calma il pensiero da esprimere. “Nel suo cinema,” scriveva diversi anni fa Gianni Amelio, sopraffino osservatore di cinema, “quella che in genere viene definita improvvisazione costituisce la ragione d’essere del racconto, la sua verità, il suo fascino. E nasce dal bisogno di calarsi a tal punto nel gioco da non far sentire che dietro c’è, non solo un copione preciso, ma una coscienza meticolosa del da farsi. Il titolo è molto bello. Ci si domanda tante volte da dove nasce un film, se da un’idea originale, da un trafiletto di sei righe, o da un romanzo. Paris, Texas è nato dalla carta geografica.” Meravigliosa definizione!



L’opera di Wim Wenders non si esaurisce qui, si esplica splendidamente anche in altre qualità mediante l’eccellente lavoro del cast tecnico. Per esempio la fotografia di Robby Müller – che, come dice il regista, voleva operare in prima persona con la macchina da presa – è un dono al film, con le varie tonalità utilizzate a seconda delle sequenze: il rosso che si ripete nelle riprese delle montagne rocciose colorate di rosso a qualsiasi ora; degli arredamenti; del maglione di Jane; dell’arredamento della stazione di servizio durante il viaggio di ritorno e del motel; del cappellino; dell’abbigliamento di padre e figlio nel pickup; dell’auto di Jane; il verde cupo notturno della piazza sotto l’albergo nella inquadratura finale; la luce bellissima dell’alba con il sole ancora basso nei quieti discorsi tra Travis e Walt seduti su una carcassa d’auto durante una sosta nel lungo viaggio; la ripresa con immagini nere sulla sfondo di un rosso tramonto; il rosso shock cupo infuocato nebulizzato del peep show; il tramonto acceso in fondo al cielo nuvoloso sulle highway americane.  Un discorso a parte spetta di diritto alla musica dell’immenso Ry Cooder, che meriterebbe un articolo a parte: le dolenti note del leitmotiv che si riaffaccia tante volte sono commoventi, evocative e malinconiche. La sua slide guitar crea un’atmosfera che riflette perfettamente il senso di solitudine e ricerca interiore del protagonista. Il suono è scarno e asciutto, quasi come un lamento che accompagna i passi traballanti sui sassi di un uomo nel deserto. La colonna sonora è considerata una delle più iconiche e toccanti nell’intera storia del cinema. Solo il suo suono vale il prezzo del biglietto, del DVD, del BRD, del costo della rimasterizzazione. Un capolavoro. Come il film, che - a parer mio – merita un voto più alto del lecito per virtù del musicista.



Il cast degli attori è superlativo. Dean Stockwell è esemplare, il “bambino dai capelli verdi”, dopo tanti film, dimostra sempre di essere un attore preciso, flessibile, naturale, credibile. Aurore Clément è dolcissima come sa essere sempre. Nastassja Kinski, oltre che bellissima e qui molto sensuale, è perfetta per dimostra che la bellezza non basta per fornire una performance eccellente come la sua, ma ci vuole bravura e ci riesce benissimo: nel suo quarto d’ora di vera esibizione incarna sicuramente tutto quello che il regista cercava. Bravissimo anche il piccolo Hunter Carson -  figlio di Karen Black e dello stesso che ha adattato la sceneggiatura, L.M. Kit Carson -, lasciato improvvisare dal regista, rimasto incantato dalle sue imprevedibili iniziative, parlando a ruota libera aiutato dalla generosa collaborazione di Stanton. Ah, Harry Dean Stanton! Avrebbe bisogno, come il musicista, di un articolo a parte. Lui era il perfetto non-protagonista che ha attraversato il cinema in più di 250 pellicole, di cui solo questo da vero primo attore, ma anche nel caso specifico è comunque un ruolo silente, tanto da indurre Wenders a immaginarlo “incapace di commentare la fine del suo matrimonio se non camminando nel deserto”. E chi meglio di un attore che Sam Shepard definì come “uno che sa che il suo viso è la storia” poteva incarnare quella afona malinconia? Che personaggio, che attore!



Un film dove il dramma si conclude prima di iniziare, un road movie che procede senza una apparente direzione chiara, presentando un personaggio che sembra un sopravvissuto, un veterano, confuso e sfinito, che cammina incurante sulle braci ardenti del dolore.

Film che rimane scolpito nella memoria a distanza di anni, come è capitato allo scrivente: secondo me, il più bello del regista.



Riconoscimenti

Festival di Cannes 1984

Palma d’Oro

Premio FIPRESCI

Premio della giuria ecumenica

Premi BAFTA 1985

Miglior regista

Candidatura miglior film

Candidatura migliore colonna sonora

Candidatura migliore sceneggiatura non originale

David di Donatello 1985

David René Clair a Wim Wenders

Candidatura miglior film straniero

Candidatura migliore attrice straniera a Nastassja Kinski



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