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Paul, Mick e gli altri (2001)


Paul, Mick e gli altri

(The Navigators) UK/Germania/Spagna 2001 dramma 1h36’


Regia: Ken Loach

Sceneggiatura: Rob Dawber

Fotografia: Barry Ackroyd, Mike Eley

Montaggio: Jonathan Morris

Musiche: George Fenton

Scenografia: Martin Johnson

Costumi: Theresa Hughes


Dean Andrews: John

Thomas Craig: Mick

Joe Duttine: Paul

Steve Huison: Jim

Venn Tracey: Gerry

Andy Swallow: Len

Sean Glenn: Harpic

Charlie Brown: Jack

Juliet Bates: Fiona

John Aston: Bill Walters

Graham Heptinstall: Owen

Angela Saville: Tracy

Clare McSwain: Lisa

Megan Topham: Chloe

Abigail Pearson: Eve


TRAMA: Un gruppo di operai delle ferrovie di Sheffield entra in crisi quando la società per cui lavorano viene privatizzata. Le scarse garanzie sindacali che li avevano protetti fino a qualche anno prima non valgono più. La flessibilità è diventata la parola d'ordine, l’incentivo monetario per andare prima in pensione attira qualcuno di loro e chi resta lavorerà da precario anche dal punto di vista della sicurezza.


Voto 7

Rivedere questo film a distanza di anni e soprattutto alla luce degli ultimi nefasti avvenimenti riguardanti gli incidenti sul lavoro e l’alto numero dei morti tra gli operai fa impressione. Più di prima e con più rabbia. Scrivo queste righe a poche settimane di distanza dalla grave disgrazia di Brandizzo, presso Torino, in cui sono morti 5 operai che lavoravano nella manutenzione dei binari ferroviari senza le necessarie e obbligatorie misure di sicurezza sul lavoro e la scena iniziale del film di Ken Loach è l’esatta fotografia della sciagura piemontese. Siamo nel South Yorkshire, un piccolo gruppo di addetti alla manutenzione ferroviaria scopre che, a causa della privatizzazione, le loro vite non saranno più le stesse. Quando l’affidabile insegna della British Rail verrà sostituita da una con la scritta East Midland Infrastructure, è chiaro che ci saranno inevitabili vincitori e vinti poiché ridimensionamento ed efficienza diventeranno le nuove parole d’ordine. L’allegro cameratismo viene presto sostituito da incertezza e tumulto quando il direttore del deposito li informa sui dettagli del nuovo accordo. Privatizzazione significa che ora il cliente viene prima di tutto, qualcosa che viene instillato negli uomini nei nuovi corsi di formazione. Ma ci sono incoerenze e miopia nei nuovi modi. Uomini abituati a lavorare insieme ora si ritrovano ad appartenere ad aziende diverse e concorrenti. Alcuni devono addirittura fare offerte per i loro vecchi lavori. Altri decidono di accettare il pacchetto di licenziamento offerto dall'azienda.

Le condizioni di lavoro sono descritte all’istante quando si osserva la scena iniziale, dove ci sono questi dipendenti che stanno operando sul pietrisco e le traversine senza che, come previsto per legge, venga fermato il traffico dei treni, motivo per cui c’è sempre uno di loro che fa da vedetta e lancia l’allarme ogni volta che intravede l’arrivo di un mezzo in modo da far allontanare i colleghi dai binari. Non è certamente la maniera più sicura per operare ma questo è il metodo di lavoro che viene sempre adottato. Loro sono, appunto, Paul, Mick ed altri compagni che formano un bel gruppo non solo di colleghi ma anche di amicizia e di buontemponi, sempre pronti allo scherzo e alla battuta. Lo stipendio è quello che è ed ognuno si arrabatta per arrivare a fine mese, specialmente chi, come Paul, è separato dalla moglie e deve trovare modo di fare più ore di straordinario per arrotondare la busta paga. Nel frattempo, i giovani vengono assunti con uno stipendio da fame e gli anziani assistono impotenti.

Se la vita lavorativa e quella familiare non è del tutto facile, la situazione peggiora allorquando la privatizzazione del servizio di manutenzione delle ferrovie statali fa peggiorare le condizioni di lavoro e di sicurezza, che in mano ad imprese private vengono sempre più ignorate al fine di realizzare risparmi ed efficientamento. Le condizioni sindacali vengono totalmente cancellate ed alcuni preferiscono licenziarsi anche per il cosiddetto “scivolo”, cioè l’incentivazione monetaria che li accompagna all’esodo: magari si godranno di più la famiglia oppure cercheranno un lavoro simile presso ditte analoghe che pagano anche meglio. Non è che in quel momento le cose siamo meravigliose ma almeno c’è uno stipendio garantito. La sicurezza? Beh, fa molto senso e fa andare la mente ai dati agghiaccianti dei nostri giorni la scena in cui l’impiegato che organizza il lavoro e assegna i compiti alla squadra esorta a stare attenti e prudenti, perché, come dice, non si deve superare la soglia dei 2 morti all’anno. 2 è un numero abbastanza tollerabile, non un numero maggiore. Sconcertante il modo con cui non solo viene detta la frase ma per come viene accettata dall’ambiente, dalla società e dalla classe operaia. Non più di 2 (!). A parte il fatto che oggi si viaggia su statistiche da strage quotidiana, ma fa sensazione scoprire come questi dati venissero concepiti come accettabili.

Paul e gli altri sono davvero degli amiconi e sanno darsi una mano all’occorrenza, sia nel lavoro che nella vita ma ognuno, come è prevedibile, cerca la personale sopravvivenza esistenziale, principalmente perché il salario non è mai sufficiente per tirare sospiri di sollievo. Anzi. Poi, quando si affaccia la possibilità di un lavoro meglio retribuito presso le tante ditte di manutenzione che si fanno concorrenza, che incitano a portare a termine operazioni ben fatte per emergere meglio ed essere incaricati altre volte, si intuisce ben presto che il termine sicurezza è solo una parola scritta sulla carta, tanto che per finire alcuni lavori si bada solo al sodo e al risultato. Proprio una situazione del genere causerà la disgrazia a cui i nostri protagonisti, che ormai si sono ridotti a quattro nella squadra, non pensavano affatto e che ritenevano solo una lontana ipotesi, molto lontana da loro. E così, la lotta di classe si trasforma in una lotta dei singoli per non perdere il lavoro e mascherare la realtà diventata un’altra verità. “Comunque, qui c’è la sua borsa, bisogna darla a sua madre. Ci pensi tu?”.

Il titolo è fuorviante. Questi uomini non navigano. Riparano e riparano ed il titolo italiano, stranamente, è più efficace, indicando l’amicizia e la compattezza della squadra. Ambientato durante il periodo in cui la British Rail veniva privatizzata, segue le fortune di queste persone che si trovano ad affrontare il cambiamento, poiché alcuni prendono i soldi dei licenziamenti e li rischiano sul mercato aperto, mentre altri restano fermi e stanno al gioco con il nuovo management, sapendo che gli standard vengono compromessi e le certezze abbandonate. La sceneggiatura di Rob Dawber punta direttamente l’attenzione sulle nuove (allora) pratiche di lavoro. Il film parla delle persone più che di qualsiasi altra cosa e sembra più imparziale del precedente di Loach, Bread And Roses. Il cast sconosciuto è magnifico, l'umorismo e le battute, diciamo, molto yorkshire. Poco sentimentale in ogni senso, il film va al nocciolo della questione, ovvero se i servizi pubblici siano migliori o peggiori nell'ambito dell'impresa privata. La prima parte, come spesso accade con questo grande maestro del cinema, è anche divertente, cameratesco, molto umano, ma serve solo a mostrare come la vita cambia e, per questa classe di lavoratori, sempre in peggio a causa del capitalismo galoppante e dei risparmi sulla spesa pubblica, a spese della figura centrale che è l’uomo. Il finale è impietoso e purtroppo fa sempre girar pagina, come appunto succede nella vita quotidiana.

Talmente uguale alla vita di tutti i giorni che non si può fare a meno di accennare a quella dello sconosciuto autore della sceneggiatura, Rob Dawber, un ex dipendente delle ferrovie e attivista che, licenziato dall'azienda si reinventò scrittore. I fatti narrati sono ispirati dal fallimento delle società ferroviarie Connex South Central e Connex South Eastern, che persero la concessione per entrambe le linee ferroviarie per la cattiva gestione. Letta la storia, Ken Loach decise di portarla subito sul grande schermo. Solo una settimana dopo questa notizia l’uomo scoprì di essere malato di mesotelioma, un cancro del polmone tipico di chi ha lavorato a lungo con l'amianto, come i manutentori ferroviari. Morì nel febbraio 2001, a 45 anni, a film completato, ma non ancora uscito nelle sale. Come al solito, la sceneggiatura non è sofisticata, non cerca colpi ad effetti (a quello ci pensa la trama) e i dialoghi sono veloci ed accavallati, proprio come succede nell’ambito di un gruppo di persone affiatate e divertono parecchio. Loach bada come sempre al sodo, all’efficacia della narrazione, al realismo e alla credibilità della storia e dei personaggi, umanamente comprensibili. Un cinema che si basa su un neorealismo, come mi piace sempre definirlo, dei nostri tempi, che nel Regno Unito è iniziato con l’avvento della odiata (dal regista) era del liberalismo peggiore della Thatcher.

In Italia, il nostro cinema politico impegnato diceva sarcasticamente che la classe operaia andava in Paradiso e difatti questi vanno all’inferno con le morti bianche, con i prepensionamenti, i subappalti, il precariato, il lavoro interinale, gli statuti strappati, il capitale che sovrasta il lavoro. Le conseguenze si chiamano misure di sicurezza disattese, salari insufficienti per una vita dignitosa, operai considerati numeri e non uomini, per dirla, ancora una volta, come Daniel Blake. Forse in questa occasione Ken Loach non è incisivo come in altre, ma la sostanza è presente come sempre, il discorso iniziato decenni prima continua e lui continua a stupirci come la prima volta. Dimostrando come allora era come oggi, nulla è cambiato, anzi peggiorato. E nel finale ci accorgiamo che lui ci ha fatto conoscere quegli uomini, la loro vita, ma non sappiamo cosa sarà del loro futuro.

Lunga vita a Ken “il rosso”!


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