Perfect Days
Giappone/Germania 2023 dramma 2h4’
Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Wim Wenders, Takuma Takasaki
Fotografia: Franz Lustig
Montaggio: Toni Froschhammer
Scenografia: Tawako Kuwajima
Costumi: Daisuke Iga
Kōji Yakusho: Hirayama
Tokio Emoto: Takashi
Arisa Nakano: Niko
Tomokazu Miura: Tomoyama
Aoi Yamada: Aya
Yumi Asō: Keiko
Sayuri Ishikawa: Mama
TRAMA: Hirayama lavora come uomo delle pulizie nei bagni pubblici di Tokyo. Sembra contento della sua vita semplice. Segue una quotidianità strutturata e dedica il suo tempo libero alla musica e i libri. Ha anche una passione per gli alberi e, appena può, si prende del tempo per fotografarli. A poco a poco, alcuni frammenti del suo passato vengono gradualmente rivelati attraverso una serie di incontri inaspettati.
Voto 7
Il film doveva inizialmente essere un documentario sulle toilette pubbliche commissionato espressamente a Wim Wenders per il progetto di The Tokyo Toilet in virtù della predisposizione del regista al cinema giapponese, per via delle sue opere precedenti in quella nazione. Poi, però, lavorandoci su, egli ha preferito realizzarlo come una vera opera narrativa, utilizzando le varie toilette come set, nei quali si svolgono le vicende dei personaggi che il protagonista incontra o osserva. Al centro della trama, infatti, c’è il personaggio di Hirayama (un eccellente Koji Yakusho) alla cui descrizione come persona Wenders dedica tutta la parte iniziale del film. Il regista tedesco ci mostra la giornata del protagonista dal suo risveglio alla sera quasi in ogni dettaglio. Lo vediamo prepararsi, uscire di casa, lavorare e poi lo seguiamo nel suo tempo libero che dedica alla cura di se stesso, delle persone e delle piccole cose che ama e che lo circondano.
Per darci un’idea chiara della vita ripetitiva e metodica del personaggio, il regista ci ripete più volte i medesimi movimenti quotidiani, quasi dalle stesse angolazioni della macchina da presa, solo con qualche variazione minima, fino al punto di far tornare in mente il mitico Il cavallo di Torino di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, dove la scena si replicava più volte con lunghi piani sequenza e con la unica variante della prospettiva, ora da un lato, ora da un altro. Qui, invece, la macchina lo segue quasi alla stessa maniera: la sveglia all’alba, la sistemazione del materasso e della coperta, la pulizia personale sul lavandino della cucina, la vestizione della tuta blu con la scritta The Tokyo Toilet, gli oggetti da mettere nelle tasche ordinatamente poste la sera prima sulla piccola mensola dell’ingresso, il barattolo di caffè comprato alla macchinetta distributrice, la salita nel suo furgone blu, la scelta della cassetta audio delle musiche rock preferite, la messa in moto e la guida sino ai bagni pubblici che cura con l’aiuto di un giovane. Tutte le mattine, instancabilmente, sempre in silenzio, con l’intervallo trascorso nel parco seduto ad una panchina per mangiare il suo quotidiano tramezzino e fotografare gli alberi con l’amata macchina fotografica analogica, quella con la vecchia pellicola. Poi la puntata al bar dove magia qualcosa, il ritorno a casa da cui riparte con l’inseparabile biciletta per andare qualche volta nei bagni pubblici per una doccia e godere della vista della metropoli serale. Il ritorno a casa, lo svuotamento delle tasche, la lettura degli amati libri di narrativa (da William Faulkner a Patricia Highsmith o Aya Kōda) e finalmente il riposo notturno.
Hirayama è un uomo solo e solitario, parla soprattutto con i gesti e con il viso, solo qualche mugugno per dire sì, per il resto, non frequentando nessuno se non il consueto bar o il piccolo ristorante della gentile signora che lo serve con estrema simpatia e cura. Non abbiamo notizie del suo passato, perché sia così solo. Soltanto la sua vita pianificata come un programma ormai prestabilito, allietata dalla musica di Lou Reed, Velvet Underground, The Kinks, Rolling Stones, Patti Smith, Nina Simone, Van Morrison, Otis Redding (per me, un colpo al cuore!): tutto in audiocassette tra la meraviglia di chi casualmente saliva a bordo del furgone e scopriva le meraviglie del rock degli anni d’oro. Nessuna passione sentimentale, nessuna donna, solo la piccola casa su due piani, le piantine adorate che innaffia con gentilezza, le passeggiate serali in bicicletta ed infine le fotografie degli alberi del parco sviluppate dal fotografo e conservate in casa in apposite scatole catalogate. Una ripetitività che non rimpiange, non cambia, non influisce su alcun desiderio di cambiamento. Talmente monotona che pare una auto afflizione dovuta o a una volontaria punizione su se stesso o alla rinuncia alla vita sociale causata da chissà quali motivi. Di certo non vuole essere disturbato nella sua vita pianificata.
Quando succede l’imprevisto ne è sconcertato, ovviamente, ma siccome l’importuna è la carissima nipote adolescente scappata di casa, lui la accetta volentieri in casa, rinunciando perfino al suo materassino: quindi, vien spontaneo chiedersi, c’è una famiglia da qualche parte, c’è un passato che lui ha voluto mettere da parte, c’è qualcosa che ha voluto dimenticare. Lo si scopre più tardi, all’arrivo della sorella e madre della nipote: chiaramente ricca con tanto di auto di lusso e autista, elegante, che lo mette alle strette. Cosa ha veramente lasciato dietro le spalle?
A Wim Wenders non interessa tutto ciò, non interessa spiegarcelo, non fa parte del presente semplice e soddisfacente per Hirayama: perché indagare e andare a fondo? A noi spettatori deve bastare la vita ridotta all’osso del personaggio e della perfezione, così come i giorni di Lou Reed, del meccanismo esistenziale che lui si è creato e della cura che dedica agli orinatoi, water, mattonelle e rubinetti delle toilette che lascia come nuovi ogni giorno di lavoro. Non chiede nulla e non pretende nulla di più. Come un monaco buddista inserito nella vita palpitante di una grande e popolosa città. Una Tokyo che di sera si illumina di milioni di luci, dominata dalla moderna Sky Tree – la torre più alta della nazione - come un faro nel mare della vita della capitale giapponese.
Lo spettatore tocca le corde più intime del protagonista senza aver bisogno di farlo parlare quasi mai. Con pochi gesti e sguardi si comprende la natura forte, consapevole e al tempo stesso sensibile di questo personaggio solitario, che, attenzione, non è per niente chiuso al mondo. Anzi, al contrario. È solo e vuol esserlo ma non è isolato e volentieri si reca nei posti pieni di gente e scambia con affabilità due frasi con gli altri avventori. Ed ama soprattutto osservare gli altri per ciò che fanno, come si comportano, a cominciare da quel povero senzatetto che si aggira per le strade. Tant’è che, nonostante qualche remora, aiuta il suo giovane collega che deve passare la serata con la ragazza, prestandogli del denaro che sa bene che non rivedrà più. Gli unici momenti, però, che si apre davvero sono quelli con la giovane nipote, a cui non lesina qualche lezione di vita, la condivisione del piccolo appartamento, i libri di cui è geloso, qualche aforisma casuale necessario al momento: “La prossima volta è la prossima volta. Adesso è adesso”. Sembra una banalità ma detta nel momento giusto diventa un piccolo ma importante insegnamento alla pazienza e alla opportunità di fare o non fare qualcosa. Perfezione e discrezionalità, gentilezza e correttezza. Questo è Hirayama. Ma prima chi era costui?
L’opera di Wim Wenders dimostra quale sia il suo pensiero della poesia nel cinema e del cinema che diventa poetico, senza mai andare in fondo alle prospettive per spiegare tutto e lascia molto spazio allo spettatore per decifrare e interpretare da solo ciò che vede. Il personaggio del film trova la poesia nella natura, nei piccoli gesti, persino nel suo metodico lavoro, fabbricandosi, come un abile artigiano, alcuni dei suoi strumenti per la pulizia. Quella artigianalità viene mostrata come un’arte, fatta di passione e precisione, tanto da spingere il suo giovane assistente, che non capisce questo sforzo, a chiedergli perché svolga il suo lavoro in modo così scrupoloso. “Tanto poi si sporcherà di nuovo!”, gli dice continuamente. Che poi è quasi la stessa cura con cui il regista ha girato il film, in un formato, il classico 1,33:1, come un omaggio al bellissimo cinema giapponese di Ozu, ma anche funzionale ai fini di adattarsi ai ristretti ambienti di quel luogo.
Sono convinto che alla fine della visione si resta innamorati di Hirayama, del suo dolce sguardo e della sua compostezza, tanto tipica del suo popolo e delle loro tradizioni, fatte anche dai rituali inchini per salutare e ringraziare. E se ciò accade è anche merito dello straordinario Kōji Yakusho che noi, in Europa, non tutti conosciamo bene, sebbene sia uno degli attori più noti in Oriente, ma di cui almeno noi dovremmo ricordarci per Memorie di una geisha, Tokyo Sonata, 13 assassini, ma soprattutto per il bellissimo Babel di Iñárritu.
Bel film!
Riconoscimenti
2024 – Premio Oscar
Candidatura al miglior film in lingua straniera
2023 – Festival di Cannes
Premio per la miglior interpretazione maschile a Kōji Yakusho
Premio della giuria ecumenica
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